You Can't Start a Fire, Sittin' 'Round Crying di Futureishere (/viewuser.php?uid=980289)
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you cant' star
New
York City, 17 Charles St.
(Greenwich Village)
Mentre l'aria sana diventava
satura di quel fumo che aleggiava sinuoso spargendosi in rivoli
scomposti, i minuti passavano scanditi dalle cifre rosse della
sveglia.
Fuori dalla finestra le gocce che
picchiettavano sul vetro creavano un ritmo solido e costante che
faceva da sottofondo a quella scena.
La camera si presentava con un
ampio letto disfatto al centro, le lenzuola toccavano il pavimento e
un cuscino giaceva a terra, sul comodino il posacenere con la
sigaretta ancora accesa all'interno era sovraccarico di mozziconi,
accanto a questo il contenitore vuoto degli antidepressivi era caduto
di lato e il coperchio bianco era scivolato sotto il letto.
Accanto al coperchio sotto il
letto c'era anche una pozza d'acqua rilasciata dalla bottiglia di
plastica vicina ad essa.
Il resto della stanza sembrava un
caotico groviglio di oggetti, la chitarra usata all'ultimo concerto
era poggiata inerme alla parete accanto alla porta chiusa.
Sulla mensola i premi ricevuti
negli ultimi anni erano posizionati con noncuranza, senza alcuna
logica, assieme alle sporadiche foto di famiglia che ritraevano un
passato lontano.
Il poster del tour corrente era
attaccato al muro con un pezzo di nastro trasparente, che faticava a
reggere il peso del foglio.
Una pila di vinili con la custodia
di cartone rovinata ai lati era sistemata accanto al giradischi che
aveva terminato la sua lettura e si era fermato non producendo più
nessun suono.
Sul piatto “Reckoning”
dei R.E.M sostava da qualche minuto dopo la fine della riproduzione.
Dalla finestra incastonata nella
carta a parati color nocciola si poteva udire il canticchiare
energico dei primi volatili mattutini che accompagnavano quel nuovo
giorno.
Al centro del letto Hailey era
distesa con il braccio destro cadente che toccava il pavimento, le
forze abbandonavano il suo corpo con il passare dei minuti, le
palpebre erano divenute pesanti ed era difficile tenere gli occhi
aperti.
Un fascio debole di sole le
illuminava il viso a tratti filtrando dalla tapparella mezza chiusa,
questa luminosità la costringeva a socchiudere ancora di più gli
occhi.
Raccogliendo le ultime forze
rimaste la giovane volse il viso verso il lato sinistro del letto,
dove un foglio di carta con impresse alcune righe in inchiostro blu
era poggiato con meticolosità.
Ormai la forza nelle dita era
scomparsa e non c'era verso di muovere un solo muscolo, ferma in
quella posa Hailey si ritrovò a pensare al foglio domandandosi chi
lo avrebbe letto per primo, chi l'avrebbe scoperta a braccia aperte
fredda come il ghiaccio.
Alcune parole del foglio si erano
sbavate dato che alcune gocce d'acqua erano cadute durante
l'assunzione delle pasticche, così “mi dispiace” era diventato
“mi dice”, “non riesco”, “no esco” e “addio”, “aio”.
Ma la ragazza sperava che
avrebbero capito ugualmente e comunque oramai era troppo tardi per
riscrivere quell'ultima confessione.
Mentre Hailey sentiva il sonno
diventare una presenza sempre più insistente, volse con fatica la
testa verso la porta, si ricordò di Taylor che il giorno prima era
venuta a trovarla e le aveva portato una vecchia macchina da scrivere
ritrovata nella cantina di sua nonna a Rhode Island.
La macchina, una Continental,
era sul tavolo da pranzo nella stanza accanto e dopo averla pulita
attentamente Hailey aveva pensato di sistemarla nello studio al piano
di sopra ma era intervenuta una terribile crisi nella notte che ora
la riportava a quel letto.
Taylor le ricordava casa, le mura
grigie e apatiche che si innalzavano fino al secondo piano e al
sottotetto, il suo angolo preferito.
Ogni volta che ripensava a Rhode
Island le immagini dell'incidente del padre le ruotavano a
ripetizione nella mente per ore, nonostante tutti gli anni passati
nella rabbia e nella malinconia il fotogramma della Ford
Taunus azzurra accartocciata tornava a galla ancora con una
cadenza regolare.
Dagli otto anni la presenza
paterna sparì e in casa rimasero i cocci di ciò che era stato,
nell'ambiente, negli oggetti e nelle persone che lo avevano amato
compresa sua madre, Mary.
Prima di chiudere gli occhi Hailey
pensò anche alla frase che avrebbe pronunciato non appena appresa la
notizia della sua morte “ha voluto trasferirsi a New York e
fare l'artista? Sapevo che non avrebbe retto questa città”.
Una lacrima si formò silenziosa e
come era arrivata così cadde percorrendo il viso stanco, scorrendo
accanto al naso freddo e vicino alla bocca rossiccia e carnosa
perdendosi dietro al mento.
Forse questa non era la fine
giusta, ma era pur sempre una fine.
New York City, 630
West 168th Street
L'ultimo colore che i suoi occhi
percepirono fu il nocciola, come la carta da parati e come il
soffitto della camera da letto.
Ma ecco che si riaprivano e
stavolta non c'era più il nocciola davanti alla sua vista ma il
bianco panna, e un odore di gomma le inondava le narici.
La vista era offuscata e riusciva
solo a distinguere il bianco, bianco asettico ovunque, un colore così
pulito e freddo, anche l'olfatto non era attivo e l'odore di gomma
copriva tutto pizzicandole il naso per l'intensità ora.
Non riusciva sentire nulla, forse
qualcuno la stava chiamando ma le sembrò solo l'eco del proprio nome
che si propaga in una casa vuota e saltella di stanza in stanza.
Provò a muovere quella stessa
mano che nel letto disfatto l'aveva abbandonata impedendole qualsiasi
movimento ma anche ora le dita erano immobili tranne per qualche
breve lampo di vita.
“Hailey?”
Una voce proveniente dalla sua sinistra si fece più chiara e limpida
tanto che la ragazza provò a muovere il collo in direzione di
questa.
“Hailey
sono io, mi senti?” Era una voce familiare, piuttosto concitata nel
tono, avvertì un movimento fugace, probabilmente la ragazza alla sua
sinistra si avvicinata a lei perché ora riusciva a percepire un
respiro caldo accanto al volto.
La vista dopo poco riuscì a
distinguere il contorno della stanza, dell'armadio di fronte a lei,
della finestra chiusa e della ragazza che era accovacciata su di lei.
Era Taylor.
Provò a salutarla con un banale
“ciao” ma uscì solo un versetto rauco e si accorse di avere la
bocca secca.
Si leccò le labbra e riprovò.
“Ciao
Tay.”
“Hailey,
sono così felice che tu ti sia svegliata!”
La giovane abbracciò velocemente
Hailey e nel gesto i suoi capelli ricoprirono il volto della
chitarrista che annusandoli si appigliò a ricordi reali, tangibili,
che la riportarono a giorni lontani e ad una familiarità mai
mancata.
La
pioggia cadeva da ore, non era una pioggia purificatrice di quella
che spinge via lo sporco attraversandolo e ricoprendo l'ambiente
dello splendore e della purezza originale, era una pioggia che invece
macchiava ancora di più l'ambiente, lo ricopriva di un grigiore
spento e cupo.
La
corona di fiori nascondeva quelle gocce come se i fiori la
risucchiassero per abbeverarsi del liquido della vita, un'ultima
volta.
Triste
il destino delle corone di fiori, accompagnano la sepoltura, se ne
stanno lì appoggiate sopra il legno gelido delle casse, accolgono
quelli che per un ultimo saluto si avvicinano pallidi ammiccandogli
premurose come per consolarli e dire “guarda, qui c'è la vita di
un fiore appena reciso, può esserci ancora vita”.
Il
terreno trascinava le ballerine nere di Hailey giù, sempre più giù
costringendola a muovere i piedini ripetutamente.
La
bambina fissava la bara senza riuscire ad immaginare il contenuto,
qualche ora prima il padre saltellava felice per casa e ora era lì
dentro.
Provò
ad aggrapparsi all'ultimo ricordo dell'uomo in vita, il suo viso era
sorridente, il suo corpo agile, la voce delicata.
Sperò
che ovunque fosse ora il suo aspetto non avrebbe subìto alcun
cambiamento, l'incidente non poteva scalfire un uomo simile.
Taylor
accanto a lei era concentrata a guardare la cassa, la pioggia le
bagnava il viso nonostante il tentativo della madre, dietro di lei,
di coprirla con l'ombrello.
Hailey
si avvicinò a lei e appoggiò il suo visino contro i capelli
dell'amica, assieme ascoltarono l'ultimo saluto del prete per il
padre e mentre la cassa veniva assorbita dalla buca di terra, la
bambina sorrise all'immagine amorevole del padre che la salutava per
andare a lavoro.
“Come
ti senti?”
“Ammaccata.”
La giovane nel letto accennò un sorriso.
“Uh
aspetta, sono così entusiasta per il tuo risveglio che mi sono
dimenticata di avvisare i medici! Arrivo subito!”
“I
medici? Aspetta, cosa è successo?”
“Non
te lo ricordi davvero?”
“No,
ricordo solo che ero a casa nel letto e ora mi sono risvegliata qui.”
“Hailey
hai assunto un intero flacone di antidepressivi, i medici hanno detto
che ti ho scoperta giusto in tempo, è da due giorni che sei in
coma.”
La giovane nel letto a quella
rivelazione non rispose, si limitò a spingere lo sguardo altrove,
verso la finestra che mostrava una fetta di cielo limpido.
“Questa
volta c'è mancato davvero poco, lo sai vero?”
Taylor continuava a fissarla con
sguardo interrogativo anche se non era la prima volta che accadeva e
sapeva per esperienza che dopo essersi svegliata da un tentativo di
suicidio Hailey non ricordava mai nulla e se lo ricordava, evitava di
parlarne.
La ragazza nel letto si sforzava
di non incrociare il suo sguardo, rivolgendolo prima alla finestra,
poi al soffitto e alla porta.
In quel momento dalla porta,
anch'essa di un bianco luminoso, si udì una melodia di battiti
regolari che fece vibrare la superficie di legno dipinto.
“E'
permesso?” Una voce maschile che arrivò ovattata e profonda si
disperse nella stanza facendo rispondere con qualche secondo di
ritardo Taylor, che era ancora impegnata a fissarla.
“Entrate
pure.”
Tre ragazzi con un cespuglio di
capelli folti neri entrarono nella stanza, avevano uno sguardo
sperduto e avanzando nella camera si sistemarono sulla stessa linea
invisibile davanti al letto della ragazza che accennò un sorriso.
“Ciao
ragazzi.” Dissero entrambe le ragazze all'unisono.
“Hailey,
ti sei svegliata! Come stai?”
Era la voce di Lyle, il batterista
del gruppo che aveva utilizzato questo nome per onorare il nonno
anch'esso batterista che si era ritirato in giovane età per cercare
un lavoro certo e trasferirsi in America, “La terra delle
Opportunità”.
Il suo vero nome era Andrew, quel
giorno indossava una camicia a quadri sui toni del marrone scuro e un
paio di pantaloni grigi gli stringevano la vita con una sottile
cintura di pelle nera.
Aveva un modo curioso di porsi,
era sempre il primo a spezzare il silenzio con una domanda di
cortesia o un saluto esaltato per poi spegnersi successivamente
rimanendo in silenzio.
“Sì
Andrew, sto bene grazie. Cosa è successo in questi giorni ragazzi?”
La ragazza fremeva per conoscere
la reazione del pubblico, qualcuno aveva scoperto che lei aveva
tentato di uccidersi?
“Mentre
voi parlate, sarà meglio che io vada ad avvisare i dottori.”
Taylor si alzò spingendo con
forza all'indietro la sedia di legno chiaro, rivolse ad Hailey un
sorriso di conforto e si avviò verso la porta passando davanti ai
ragazzi che si spostarono.
Uscì e nella stanza piombò il
silenzio.
Il primo a parlare fu Buck
stavolta, che guardò la chitarrista dritto negli occhi scegliendo di
non nasconderle la verità.
“Questa
volta qualcuno si è lasciato scappare qualcosa Hailey e adesso lo
sanno tutti. Fuori dall'ospedale c'è una folla di giornalisti che
intervista tutti quelli che entrano ed escono.”
Buck si avvicinò alla finestra,
l'aprì e fece per accendersi una sigaretta.
Intervenne Cee J che fino a quel
momento non aveva proferito parola.
Oggi indossava abiti simili a
quelli con cui avevano, mesi prima, realizzato la foto per il tour,
ovvero una bandana bianca, una canotta anch'essa bianca e dei
pantaloni di pelle nera.
Sembravano manichini tutti
uguali, pensò Hailey, forse si erano vestiti così per
farsi immortalare dai fotografi mentre visitavano la povera
chitarrista che aveva tentato di togliersi la vita.
“Non
puoi fumare qui dentro Buck.”
Buck, il solista del gruppo, portò
comunque l'accendino alla sigaretta e con un tiro affannoso l'accese,
spuntando voluttuose nuvole fuori dalla finestra nel venticello
primaverile.
“Senti
Hailey, dobbiamo parlare.”
Il tono di Buck era piatto,
guardandolo Hailey lo associò ad un drago che aveva visto in un
cartone quando era piccola, sputava la stessa quantità di fumo e
aveva la stessa espressione feroce.
Gli altri due soldatini erano
ancora davanti al suo letto, Lyle si era poggiato con le mani
impugnando la struttura di plastica del letto, mentre Cee J guardava
ancora Buck con sguardo di ammonimento.
“Di
cosa Buck?”
Il rapporto fra lei e il solista
non era dei migliori, dopo l'inizio delle sue crisi Buck non era più
così certo di volerle riservare un posto nel gruppo, il suo
comportamento instabile aveva sfavorito il gruppo secondo lui e da
mesi aveva già pronto un sostituto.
“Lo
sai di cosa. Non possiamo più permetterci una pubblicità simile,
con queste continue crisi non fai altro che danneggiare l'immagine
della band.”
“Non
vorrete tagliarmi fuori? La band senza di me non può esistere, lo
sai, lo sapete.”
Lyle e Cee J continuavano a
guardarla impassibili lasciando tutto il lavoro sporco a Buck che la
fissava con un nervo di ostilità che gli percorreva il viso.
“E
tu sai che non è vero, Thomas è già pronto per iniziare il lavoro,
conosce i pezzi e sa a memoria gli accordi.”
“Certo,
dopotutto gli hai insegnato tu a mio discapito in questi mesi, non è
vero Buck?”
Hailey sentiva un'onda di rabbia
crescerle dallo stomaco e rivoltarla, dandole la scossa fin nelle
ossa, si sentì di nuovo energica e spinta da un'ideale da difendere.
“Ah
smettila, l'ultima volta ci avevi promesso che non avresti più fatto
questo, lo avevi promesso. Avevamo un patto, non ricordi? Ci avevi
pregati di perdonarti e di non lasciarti, cos'è Hailey, te lo sei
dimenticata ancora o fingi come sempre?”
“Buck,
abbassa i toni.”
Intervenne Cee J che come sempre
provò a rimproverare Buck senza nessun effetto.
“Cosa
c'entra questo ora? Il motivo per cui siete venuti qui è dirmi che
volete cacciarmi e sostituirmi con un chitarrista da quattro soldi?
Non vi importa nemmeno come sto, siete degli egoisti.”
Con una ventata improvvisa la
porta si aprì ed entrò un dottore seguito da un'infermiera e da
Taylor, che appena entrata nella stanza ricercò subito con lo
sguardo l'amica e la vide rossa in volto, con i denti stretti in una
morsa rabbiosa.
Appena vista la scena, Buck gettò
la sigaretta dalla finestra.
“Cosa
è successo?”
Chiese Taylor ignorando i medici e
rivolgendosi alla ragazza e ai musicisti.
“Questi
stronzi mi vogliono cacciare da gruppo.”
La voce di Hailey era cavernosa,
profonda, come se avesse urlato per ore e adesso tutto ciò che
rimaneva era un'eco basso e selvaggio.
“Signorina
Moodie non deve agitarsi così, si è appena svegliata.”
Il dottore sembrava preoccupato e
le si avvicinò subito cercando di calmarla.
Ma con la poca voce che le
rimaneva Hailey urlò:
“Andatevene
via, non voglio più vedervi, mai più! Vi meritate di fallire come
artisti e come uomini!”
I ragazzi si avviarono verso la
porta, mentre i medici le prendevano il braccio e prima che potesse
rendersene conto, si stava addormentando con il viso paonazzo e la
voce assente.
Due settimane dopo
New York City, 17
Charles St. (Greenwich Village)
“Questo
lo prendi?”
“No,
anzi preferirei buttarlo.”
Preparare le valigie era un
compito che Hailey svolgeva sempre con estrema velocità, arrivata al
momento di selezionare gli oggetti utili si ritrovava a scartare la
maggior parte delle sue proprietà.
Taylor si riferiva al poster del
tour che Hailey desiderava strappare e buttare fuori dalla finestra,
anche se una settimana prima aveva supplicato l'amica di chiamare a
nome suo Luta, la manager del gruppo, per ridarle un'opportunità
garantendo per lei un rinnovato cambiamento.
Taylor si era rifiutata e
nonostante tutte le suppliche dell'amica rimase ferma nelle sue
convinzioni.
Vivevano assieme dal giorno in cui
Hailey era stata dimessa, condividevano tutto ora come anni prima
quando per la prima volta si trasferirono a New York.
Taylor le aveva consigliato di
tornare per un poco a Rhode Island, nella terra Natale, che la
chitarrista aveva abbandonato troppo presto fuggendo come una ladra.
Così, dopo qualche giorno di
ripensamenti, Hailey si decise a prenotare una casa in riva al mare
al 70 Clarke Road, Barrington di Rhode Island.
La prenotazione era di una
settimana, dopo di che sarebbe tornata a New York e avrebbe tentato
qualcosa, non sapeva ancora cosa.
La casa era enorme per una persona
sola, con cinque bagni e sette letti, ma la buona uscita dal gruppo
era stata generosa e tanto valeva passare una settimana di vacanza
nel migliore dei modi.
Nonostante la pessima pubblicità
la vicenda era stata insabbiata nelle settimane successive, almeno
dai quotidiani più seguiti mentre quelli minori continuavano a
parlarne.
Le offerte non erano mancate ma
Hailey le aveva rifiutate tutte, non considerandole nemmeno.
Anche se dopo un giorno o due ci
aveva ripensato e cercando di ritrovare i numeri provò a
ricontattare alcuni organizzatori ma non riuscì a trovare i numeri.
“No,
magari per ora non buttarlo.”
“Va
bene.”
“Sei
sicura di non voler andare a stare da mia madre? Mio fratello è
tornato a casa in questo periodo e magari potreste incontrarvi di
nuovo.”
James aveva tre anni più di
Taylor, durante l'infanzia il rapporto che aveva avuto con lui non
era stato altrettanto forte e duraturo come quello con Taylor, James
era un ragazzo dolce così dolce da confessarle il suo amore in una
serata di luglio, all'epoca dei suoi sedici anni.
Ma lui era all'alba dei diciannove
anni e il suo desiderio era l'esercito, così qualche settimana dopo
era partito verso il Canada lasciandosi alle spalle lei e una terra
che non aveva mai apprezzato fino in fondo.
O forse non aveva mai apprezzato
nemmeno lei, Hailey a volte pensò che lo avesse fatto apposta,
dopotutto prendere un aereo e fuggire era la soluzione più semplice.
Hailey aveva rifiutato comunque
l'offerta di Taylor, scartandola a priori.
International New York City
Airport, John F. Kennedy
“Allora
ti chiamo tutti i giorni?”
“Sì,
mi raccomando.”
Si erano salutate come sorelle che
per la prima volta visitano luoghi sconosciuti.
Rhode Island sembrava una landa
sconosciuta per Hailey ora, erano anni che non ci tornava e la
possibilità di tornarci con una visione diversa di se stessa
sembrava un pensiero allettante.
Lei e Taylor avevano un legame
profondo da sempre, ma in quelle settimane la sua presenza era
diventata assillante per Hailey che nei giorni peggiori avrebbe
desiderato sdraiarsi sul pavimento e scolarsi diverse bottiglie di
whisky.
Oppure chiamare JJ che senza alcun
problema avrebbe potuto portarle roba buona, di quella che comprava
di solito con magari un omaggio post-convalescenza.
Non conosceva nessuno a Rhode
Island che potesse portarle della droga in caso di necessità ma era
solo una settimana in fondo.
Rhode Island, 70 Clarke
Road, Barrington
La casa era decisamente più
luminosa rispetto alla descrizione e alle immagini sul giornale, non
era in affitto da mesi, le spiegò il proprietario, un uomo in
completo blu con un cappello che sembrava provenire da un film
western.
Era così vicina al mare che
appena la vide Hailey fu felice della scelta, anche il proprietario
sembrava soddisfatto comunque dato che non la smetteva più di farle
i complimenti per la scelta e garantendole uno sconto sul prezzo in
caso di prolungata rimanenza, ma il prezzo rimaneva assai caro,
troppo per un soggiorno prolungato.
Una volta che l'uomo finalmente,
in groppa alla sua decappottabile rossa imboccò il vialetto
d'uscita, la ragazza chiuse dietro a sé la porta, entrando in casa.
Mentre toglieva i capi dalla
valigia pensava di aver sbagliato a venire lì, avrebbe potuto
incontrare sua madre o qualcuno di conosciuto che attraverso i
giornali, leggendo del suo tentativo di suicidio l'avrebbe guardata
come si guarda qualcuno che indossa abiti strani, non capendo la sua
scelta e interrogandosi sul perché.
Mary non aveva chiamato e non
aveva scritto, nulla di cui stupirsi comunque.
La ragazza estrapolò dalla
valigia il necessario per poi sistemarla in un angolo dell'ampio
salotto, si tolse i vestiti che aveva indosso e prese uno dei capi
che aveva pescato ovvero una lunga maglia blu rovinata dai molteplici
utilizzi, la indossò e si buttò sul divano beige.
Il salone era decorato con vari
dipinti che ricordavano le tribù indiane, i toni erano quelli del
rosso e del grigio che accendevano i muri in accordo con il tappeto,
rosso anch'esso.
Il parquet di legno scuro saltava
subito all'occhio e dato lo studio approfondito dell'ambiente fatto
in precedenza, immaginò Hailey, era in perfetto accordo con il
lampadario che pendeva dal soffitto come un'aquila pronta a catturare
la sua preda.
Aveva fatto un breve giro
dell'abitazione con il proprietario ma non aveva il coraggio di
salire al piano superiore, le bastava il salotto per ora, sapeva già
che in quella settimana avrebbe occupato si e no un quarto di quella
casa.
Improvvisamente le venne il
rimorso di aver speso troppo e di aver acconsentito all'idea di
andare lì sola.
Quando si ritrovava sola si
sentiva scoraggiata, come se nessun rapporto fosse più possibile con
nessun altro, come se tutti l'avessero abbandonata.
Mentre fissava l'azzurro del mare
al di là della porta finestra di fronte a lei, nel salotto, ripensò
che quello era lo stesso mare che per tutta l'infanzia e
l'adolescenza aveva visto e assaporato, quello in cui fuggiva con
Taylor imbucandosi in estate nei falò dei gruppi che si ritrovavano
sulla spiaggia.
Una volta aveva incontrato John,
un ragazzo con una folta barba, nonostante le giovane età e un
orecchino al lobo sinistro.
Le faceva tanti complimenti, e
continuava a dirle che bel viso pulito aveva e che bel sorriso
splendente le decorava quell'insieme armonioso, dopo la seconda birra
comunque lui l'aveva presa per mano e si erano spostati sul pick-up
di John.
Non era stata la sua prima volta
con un ragazzo ma era stato il primo litigio con Taylor.
Si erano incontrate il giorno dopo
e l'aveva accusata di essere una pessima amica per averla abbandonata
in mezzo ad un gruppo di ragazzi che non conosceva.
Al termine del litigio Hailey le
aveva urlato di non cercarla più ma dopo qualche giorno si era
presentata a casa di Taylor incontrando la madre che con sguardo
severo le aveva indicato le scale.
Lei e Taylor avevano in comune
anche l'austerità delle rispettive madri, pensavano di essere state
divise alla nascita certe volte.
Lasciandosi trasportare dal mare
dei ricordi le venne voglia di birra, dandosi la spinta in avanti si
alzò dal divano dirigendosi in cucina, si muoveva come una piccola
bambolina in una grande casa di plastica, troppo grande per non
sentirsi piccoli.
Il frigo era vuoto, non c'era
nemmeno una bottiglia d'acqua, nulla.
Con un sonoro sbuffo, Hailey tornò
verso il mucchio di vestiti che si era tolta, gettandoli sul tappeto
rosso e si rivestì.
Si assicurò di aver chiuso la
porta prima di salire sulla macchina.
Decise, di tornare nel solito
supermercato, quello in cui andava sempre quando era piccola, con il
padre o da ragazza sempre con Taylor.
Non era cambiato un granché, i
reparti erano sempre gli stessi, l'odore di sudore era sempre lo
stesso e anche le persone che ci lavoravano sembravano le stesse.
Girando per gli scaffali la
giovane conosceva già i punti in cui recuperare ciò di cui aveva
bisogno.
Arrivata al banco frigo le sembrò
da lontano di riconoscere l'uomo che stava scavando tra i vasetti di
yogurt.
Avvicinandosi i dubbi si
dissolsero perché lo riconobbe del tutto, era James.
Decise di fingere di non averlo
riconosciuto, dopotutto erano passati anni sia per lui che per lei.
“Hailey!
Sei tu?” Mentre gli stava scivolando quatta dietro per dirigersi
verso il reparto degli alcolici, il ragazzo di voltò fissandola per
qualche secondo prima di chiamarla.
Decise di voltarsi e salutarlo
come vecchi amici.
“Ciao
James! Mi hai riconosciuta, sono proprio io.”
James rise, portandosi una mano
alla nuca.
“Che
ci fai qui? Voglio dire Taylor mi aveva detto che saresti tornata
ma-”
“Aspetta,
Taylor ti ha detto che sarei venuta a Rhode Island?”
“Sì,
qualche giorno fa ci siamo sentiti e mi ha detto che hai preso in
affitto la casa a Clarke Road.”
Hailey rimase senza parole per
qualche secondo.
“Sì-sì
sai sono venuta qui in vacanza per una settimana.”
“Me
lo ha detto, sì.”
Hailey non vedeva l'ora di
chiudere il discorso.
“Dato
che la casa è immensa mi farebbe piacere ricevere qualche visita,
sei vuoi passa che parliamo un po'.”
“Certo
con piacere!”
Terminato il discorso la giovane
finì di fare la spesa con ciò di cui aveva bisogno e guidò fino
alla casa.
Non avrebbe chiamato Taylor quella
sera e nemmeno quella dopo.
585
Blackstone Boulevard, (Swan Point Cemetery) Providence,
RI
Due giorni dopo decise di andare
al cimitero, dopo anni voleva visitare la tomba di suo padre.
Non ricordava dove fosse la tomba,
così rigirò per una decina di volte l'intero cimitero prima di
trovarla.
Il cimitero era pieno, sembrava
che non ci fosse più posto nemmeno per i morti.
La lapide di suo padre era una
croce di marmo bianco sulla quale era segnato il nome ed il cognome
con le rispettive date, quella di nascita e di morte.
Una volta trovata Hailey si
sedette sul terreno accanto alla croce, mentre la guardava nel venne
in mente di quel giorno il cui non smetteva più di piovere e la
corona di fiori era imperlata di gocce.
Non aveva mai pianto suo padre ma
quel giorno, accanto al marmo apatico scoppiò in un sonoro pianto
fatto di singhiozzi agitati, era come se solo ora si fosse ricordata
che suo padre era morto per davvero.
Ogni volta non riusciva a pensare
a suo padre, non riusciva a raccogliere i pensieri, le capitava
spesso, ma per la sua morte associava tutto all'infanzia e al fatto
che all'improvviso lui non c'era più in casa.
Ripensò anche a sua madre e quel
giorno in cui l'aveva portata da uno psicologo per la prima volta.
Disturbo borderline di personalità
aveva sentenziato lui, come un giudice che batte con il suo
martelletto di legno un'accusa a cui non è possibile sfuggire.
Da quel giorno in poi la madre
aveva iniziato a trattarla come se non fosse nemmeno più un essere
umano ma una pazza psicopatica che il momento prima era capace di
abbracciarti e quello dopo di ucciderti.
Non è niente, le aveva
detto Taylor.
Qualche settimana dopo sarebbero
partite per la capitale, da lì si erano susseguiti provini su
provini, crolli nervosi su crolli nervosi e Taylor era sempre lì che
lavorava come segretaria e la sosteneva nella sua musica.
Nulla di tutte le cose terribili
che le aveva urlato contro nelle crisi d'ira si erano rivelate
importanti per la loro amicizia, o forse Taylor la considerava una
pazza e non ascoltava le parole di una pazza.
Non seppe con precisione quanto
tempo trascorse lì, con le ginocchia che sprofondavano nella terra,
ma al suo ritorno a casa era quasi buio e una macchina era
parcheggiata al lato della strada.
Un ragazzo stava suonando il
campanello e in lui rivide James.
“James!”
“Ciao!
Sono venuto a trovarti!”
“Si,
l'ho intuito, seguimi.”
Dicendo così Hailey aprì la
porta e fece accomodare James all'interno.
“Che
posto! Come fai a permetter- ah giusto, hai fatto successo a New
York, eh?”
James aveva lo stesso tono
amichevole di anni prima, sembravano amiconi a sentire il modo in cui
si rivolgeva a lei.
“Già,
per un po' almeno.”
Dopo aver gironzolato per il
salotto il ragazzo si sedette sul divano seguito da Hailey che si era
tolta le scarpe spingendole dietro il divano.
“Ho
letto i giornali, riguardo a quello che è successo.”
“Ti
riferisci allo scioglimento del gruppo?”
Chiese la giovane evitando
l'argomento del suicidio.
“No,
mi riferisco al tuo tentativo di suicidio.”
“Non
è stato un tentativo di suicidio il mio, ho solo ingurgitato per
sbaglio un flacone di pillole, è stato un errore.”
“Un
errore?”
James
sembrava non capire, era così ovvio, perché non capiva? Un errore,
nulla di più.
“Sì
un errore. James, a volte io non- non mi sento bene.”
“Hai
un disturbo di personalità, lo so. Non pensavo però che ti
condizionasse tanto.”
James abbassò lo sguardo.
“Io
sento come se- se avessi, due persone nella testa, una mi urla di
uccidermi e di mettere a rischio la mia vita e l'altra mi dice di
essere una brava persona, di non fare del male né a me stessa né
agli altri.”
James sembrò pensarci su per un
po'.
“Tu
ti senti sempre così?”
“A
volte è meglio, altre è peggio. Io
non voglio uccidere me stessa. Io voglio uccidere la parte di me che
vuole uccidere me stessa. Mi
urla per tutto il tempo di trovare un modo per uccidermi e io voglio
solo che smetta, a volte urla più forte, tutto qui.”
Hailey stava piangendo ora, alcune
gocce erano cadute morbide fino a impattare con il divano beige.
James si piegò in avanti
prendendole il mento fra le dita.
“Hai
avuto crisi come queste in questi giorni?”
“No.”
“Perché
sei venuta qui da sola? Se ti dovesse succedere qualcosa-”
Il ragazzo si bloccò, Hailey
immaginò cosa stava per dire “nessuno ti troverebbe”,
esatto, ma forse era un bene.
La giovane annuì al vuoto,
avrebbe voluto dirgli che non era stato semplice dato che sentiva di
esplodere quasi un giorno sì e uno no, per alcuni momenti aveva
pensato che se ci fosse stato lui forse le cose sarebbero andate
diversamente e glielo disse.
“Perché
pensi questo?”
Il pianto si era calmato e adesso
si ritrovava a fissare negli occhi il primo ragazzo di cui si fosse
mai davvero innamorata che come un ladro era fuggito, lasciandola
sola.
“Perché,
forse non sarei così ora. Non ne ho idea.”
Non riusciva a pensare, con un
gesto stizzito si alzò dando le spalle a James.
“Scusami
vado a prendere un bicchiere d'acqua.”
Lasciato solo James guardò
incuriosito il disegno fatto su un piccolo taccuino rosso,
abbandonato sopra il tavolo basso di vetro nel mezzo del salotto.
Studiò meglio il disegno e
pensò somigliasse molto ad Hailey, non riusciva a capire con quale
persona stesse parlando, un attimo prima si apriva con lui, quello
dopo era arrabbiata.
La ragazza tornò con in mano il
bicchiere d'acqua.
“Io,
Hailey, voglio che tu sappia che- quando sono partito non immaginavo
di lasciarti così, pensavo sarei tornato presto nonostante
l'esercito.”
“Tornare
presto?”
“Sì.”
“Ma
non lo hai fatto, avresti potuto dirmi dell'esercito prima di
confessarmi il tuo amore per me non credi?”
“Avrei
dovuto, sì.”
James tacque non sapendo cosa
dire.
“Quindi?
Non intendi più dire nient'altro? Mi hai abbandonata come hanno
fatto tutti e l'unica cosa che sai dirmi e che avresti dovuto
avvisarmi?”
“Ho
sbagliato.”
“Se
tu fossi rimasto io non sarei partita per New York, sarei rimasta
qui, con te, e non sarei finita così senza sapere più chi sono,
cosa voglio, non mi sentirei così inutile e confusa tutto il tempo!”
James non sapeva cosa dire,
trovava assurdo il fatto che tutto ciò fosse colpa sua-
“Io
ti amavo e tu mi hai abbandonata.”
“Ti
ho detto che mi dispiace ma non puoi incolpare me per chi sei tu
oggi.”
A questa ultima frase Hailey
tacque, non sapendo aggiungere altro.
Rimasero in silenzio per minuti
interi e quando James fece per alzarsi e andarsene lei lo fermò,
chiedendogli di rimanere per quella sera e per la notte.
Trascorsero una serata piuttosto
silenziosa, mangiando assieme un piatto di pasta e seguendo una
commedia romantica di poco conto.
Al momento di andare a dormire lei
lo baciò sulle labbra ma lui si trattenne, accarezzandole il viso e
dicendole che preferiva dormire sul divano.
Hailey si avviò verso la camera
da letto e una volta spogliatasi ripensò a tutto quello che era
stato, a come tutti l'avevano abbandonata, a come James l'aveva
rifiutata.
Ci riflette per ore mentre un
alone nerastro le saliva dai piedi fino alla testa, come per tirarla
sempre più giù.
Quasi sentì di dare ragione alla
parte che la voleva morta, non aveva più senso accumulare un
fallimento dietro l'altro.
Non aveva nulla da prendere, nulla
che la calmasse o la facesse sentire meno mostro di quello che era in
realtà.
Raggiunse il bagno e riempì la
vasca, il togliersi la vita sembrava raggiungibile ora, se James
l'avesse scoperta al mattino sarebbe già stato troppo tardi per lei,
però questo significava rischiare perché il ragazzo avrebbe potuto
venirla a cercare e salvarla.
Non le importava, estrasse la
lametta dal mobiletto del bagno e si accomodò nella vasca.
Prima di premere sulla pelle si
ricordò come frammenti di una pellicola vari eventi della sua vita,
lo schiaffo di sua madre, l'abbandono di suo padre, la prima volta
che fumò una canna e andò a vomitare, la prima volta che provò
l'eroina e per poco non si buttò in mezzo alla strada in un turbine
di euforia.
Il pensiero di essere stata un
fallimento come figlia, amica e artista la colpì come una mazzata
nello stomaco e poggiò la lametta tagliente sul polso.
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