Quarto Capitolo
Quarto
Capitolo:
Sera
[Sai,
nipote mio,
l'amore
è cura e veleno al contempo,
soprattutto
per noi Eterni]
Non
ero solo superbo;
Il
mio corpo era arrivato al limite della sopportazione fisica.
Era
diventato un semplice, freddo involucro per la mia anima che cercava
disperatamente di rimanere aggrappata alla vita, ai ricordi, al
calore.
Il
tempo scorreva implacabile. Il Sole tramontava e sorgeva. Ed io, in
quell'insieme indefinito, persi il contatto con la realtà
circostante, sprofondando in un nero baratro gelido e oscuro.
Era
arrivato dunque il mio momento?
Sentii
il filo della mia esistenza tendersi, prossimo al taglio finale.
Non
avrei dovuto provare alcun rimorso: io ero il padrone della mia vita,
ogni decisione presa era mia e un tempo avrei rivissuto
quell'esistenza nella sua interezza più e più
volte.
Eppure
provai dispiacere.
Qualcosa
di inaccettabile per il me stesso più giovane, spavaldo ed
orgoglioso, che si poneva al di sopra di uomini e dèi,
tuttavia quel
sentimento si fece ugualmente strada nella mia coscienza,
sconvolgendo la mia anima.
Ti
avrei perso.
Questa
consapevolezza mi privò della mia sicurezza, gettandomi
nella
malinconia di una morte vuota, priva del tuo calore,
quello stesso calore che la mia anima cercava. Non era devozione o
infatuazione, era bensì amore,
in senso carnale e spirituale, un tutt'uno che sbaragliava ogni
difesa della mia ragione.
Lo
compresi proprio in quel momento, quando una parte del mio animo -per
punirmi subdolamente- mi
ricordò i tuoi racconti bellici decisamente enfatizzati, le
tue
richieste più intime ed infantili, le tue mute attenzioni
che
riuscivano ugualmente a farmi sentire amato.
Una
lacrima scivolò sulla mia guancia.
All'improvviso,
una scossa di potere divino fluì con violenza nel mio cuore,
destandomi dal torpore della morte per gettarmi bruscamente nella
vita.
Respirai
avidamente, più e più volte, come se fossi appena
riemerso
dall'acqua salmastra del mare.
La
fresca aria graffiava la mia gola, mentre il mio sguardo era perso
nei tuoi occhi cremisi, primo bagliore che vidi dopo tanta
oscurità.
Non
riuscii a comprendere se la tua fosse commozione o un crudele gioco
di luci, visto che mi ritrovai stretto in un abbraccio vincolante,
con il viso completamente sprofondato nella tua chioma rossiccia.
«
Idiota.» mormorasti al mio orecchio quel rimprovero quasi
liberatorio « Perché ti sei ridotto
così? Volevi suicidarti senza
il mio consenso?! Perché-...?!»
Perché
l'ho fatto?
Beh,
lo sapevi già.
Entrambi
lo sapevamo.
«
Ero in debito con te... mi hai salvato dalla folgore,
ricordi?»
biascicai stancamente fra i tuoi capelli, come se fosse una risposta
più che ovvia.
Ancora
non ero in grado di capire esattamente quel che stava accadendo: dopo
un attimo di silenzio, mi ritrovai sopraffatto da un tuo rude bacio.
Non
era un gesto famelico o passionale, quanto più... vitale.
Come
se tu avessi realmente sentito la mancanza di quel contatto.
Come
se avessi avuto paura di perdermi.
Mi
carezzasti la guancia con il tuo palmo calloso, soffermandoti poco
sotto agli occhi.
Mi
beai di quel calore, ora che la fiamma del mio cuore era totalmente
assopita.
[Viviamo
secoli, millenni,
in
uno stato di perenne solitudine interiore,
in
attesa di quella misteriosa creatura]
Non
ero solo un tuo seguace;
Il
cocente Sole pomeridiano mi ferì la vista.
Un
disonorevole sfregio per un Figlio di Helios, tanto che maledissi i
miei occhi secchi senza più alcuna lacrima da versare.
Odiavo
mostrarmi debole, io, un tempo luminoso quanto l'astro del cielo
diurno.
Sotto
il tuo muto sguardo, lottai contro il mio stesso corpo, fin quando
non chinai il capo, sconfitto. Cercai allora di fare i miei primi
passi dopo chissà quanto tempo trascorso in un limbo tra
vita e
morte, ma barcollai pericolosamente e rischiai addirittura di cadere
se non ci fossi stato tu a sorreggermi.
Cosa
stavi pensando? Probabilmente ti sarò sembrato patetico.
«
Lasciami.» mormorai, in collera con quel mio fisico
estremamente
fragile.
Inspirai,
cercai l'equilibrio ed infine intrapresi una lenta marcia per
l'accampamento stranamente silenzioso: niente urla, nessuna
esplosione, solo il chiacchiericcio delle donne dei tuoi sottoposti
occupate a tessere o a lavare i panni, con i figli impegnati in
leggendari combattimenti con spade fittizie.
Avrei
voluto farti delle domande, ma il fiato mi mancò, tanto che
mi
fermai, sempre più curvo su me stesso, come se l'intero peso
della
volta celeste gravasse sulle mie spalle.
«
Alectryon.»
«
N-no... sto bene.»
Passammo
sotto a colorati teli e la sola vista della luce del Sole imbrattata
con le tinte umane, che variavano dal rosso più brillante al
blu più
profondo, alleviò momentaneamente il dolore della mia anima.
Mi
accasciai contro una parete, stanco, e guardai la
mia mano
illuminata dalle sfumature del cobalto: pur essendone cosciente,
provai una profonda desolazione alla vista del totale deperimento
della mia carne, della mia pelle flaccida, morta, aggrappata alle
ossa e alle vene rinsecchite come radici di una pianta.
Poggiai
il palmo sulla mia gabbia toracica, sul cuore pulsante, in vista,
freddo come il ghiaccio. Un solo colpo a quel glaciale nucleo vitale
e sarei diventato cenere.
Eppure
tu restasti fermo, a braccia conserte, con quei tuoi sottili occhi
cremisi fissi sul mio cadavere.
Ripresi
a camminare, trascinandomi per la salita che portava ad un
promontorio.
A
quel promontorio, nostro luogo d'allenamento.
Quante
volte avevamo percorso quella strada insieme? Forse cento, forse
mille, sempre con nuove promesse, sfide, insulti scherzosi tra noi.
E
tutte le volte vincevi tu, sempre.
Mentre
scalavo provando un estremo affanno ad ogni passo, mi sembravano
ricordi davvero lontani, quasi fittizi, frutto della mia
più
crudele fantasia.
Arrivato
in cima, crollai a terra.
Ebbi
solo la forza per trascinarmi all'ombra di un albero, sotto le
fresche fronde.
Tu,
dopo pacati respiri, t'inginocchiasti al mio fianco ed afferrasti il
mio cuore, stringendolo in una morsa ferrea. Io, ovviamente, non mi
opposi: il mio capo ciondolò sulla spalla, mentre i miei
occhi si
chiudevano, stanchi.
«
Non hai paura?»
Non
avevo energie per parlare. Un mio respiro pacato sostituì un
lungo,
faticoso discorso.
«
Io sì.»
La
tua confessione fu invece la tua risposta alle mie intuizioni: non
volevi perdermi. E per me valse più di qualsiasi
altra
dichiarazione d'amore che avessi mai ricevuto in passato.
Liberasti
il mio nucleo dalla tua presa, ringhiando per la frustrazione.
«
Bevi.»
Come
quando si offre l'acqua ad un viandante assetato, così tu mi
offristi il tuo icore sgorgante dal palmo della tua mano.
Ed
io bevvi avido.
Ad
ogni sorso, ad ogni singola goccia, percepivo la lenta rinascita del
mio fuoco, un lento risveglio del mio potere: i filamenti muscolari
iniziarono a creare una protezione per il cuore, per poi diramarsi
per il resto del corpo; i miei occhi persero la loro lattiginosa
opacità, riconquistando la forza per fissare il Sole.
L'Icore
divino normalmente è tossico per qualsiasi creatura, umana o
divina,
eppure dopo anni trascorsi a cibarti della mia carne, il tuo era
mutato fino a diventare una vera e propria fonte curativa con cui
ormai eri solito guarire le ferite dei tuoi seguaci.
Per
te non era un fatto così eclatante, anzi ignoravi ogni
discussione a
riguardo pronunciandoti solo con un secco sospiro, ma per me era
più
che strabiliante, tanto che, autoproclamandomi tuo portavoce, riuscii
persino a convincere i sacerdoti del tuo culto a celebrare questo
aspetto.
Certo,
non avevano compreso appieno le mie parole e per loro “onorare
l'Icore” significava sacrificare sull'altare
piccoli cuccioli
-a detta loro- dal sangue puro.
Però
era pur sempre un'interpretazione valida, no?
«
Nella solitudine della mia prigionia, il tuo fuoco non mi ha mai
abbandonato, tenendomi in vita.» il tuo respiro
sferzò il mio viso
posato sul tuo grembo « So di chi è la colpa e non
rimarrà
impunito ancora per molto.»
Mentre
parlavi, percepii un'incredibile stanchezza sulle mie spalle, tanto
che faticai persino a comprendere il resto del discorso.
Mi
accoccolai contro al tuo corpo e sorrisi.
Ero
felice.
[Umano,
Dio o Titano...
il
Fato è oscuro a riguardo]
Non
ero solo un Titano;
I
piedi leggiadri del servo di Eos danzavano sulla superficie di un
lago punteggiata da una costellazione di bianchi petali, tanto
numerosi da sembrare il riflesso delle stelle del firmamento
notturno.
Scivolava,
volteggiava, si librava addirittura in aria in un'armonia costante
che rendeva il suo stesso fisico inscindibile dalla lancia acuminata
che impugnava con tanta maestria.
Solo
in quell'istante, osservando il bagliore gelido della lama che
rispecchiava i raggi della luna, mi accorsi di star assistendo ad uno
scontro e non ad una magnifica coreografia.
La
pura grazia illesa contrapposta al pesante, impacciato corpo di
Helios, grondante di Ambrosia ed immerso nell'acqua fino alle
ginocchia.
Mio
padre stava... morendo? Ero totalmente cosciente che fosse
un'allucinazione, un sogno, eppure sembrava fin troppo realistico.
«
Quindi è questa... la tua decisione?»
Spoglio
di ogni difesa, con una ferita agli occhi che l'aveva probabilmente
privato della vista, attendeva la propria fine con una totale
serenità in volto.
Inspirai
a fondo, a pieni polmoni, e il pungente odore del suo sangue mi
destabilizzò. Arretrai, proprio quando anche il servo di Eos
indietreggiò di un passo.
Ruppe
la fluidità dei movimenti per guardare un'ultima volta il
suo
avversario. Vidi chiaramente una lacrima correre sul suo viso privo
di emozioni.
«
Mi hai costretta.»
una voce piatta, femminea, vibrò dalle corde vocali del
ballerino,
l'intera illusione del suo corpo per un attimo mi parve semplice
nebbia.
Fece
roteare la lancia, pronta ad affondare la lama un'ultima volta.
«
Selene... tu-...»
Ma
l'assassino non gli permise neppure di pronunciare le ultime parole:
l'arma leggendaria
ruppe il torace del Titano, gli spezzò in un sol colpo il
cuore,
nucleo dell'energia vitale, innescando un fuoco eterno che
iniziò a
consumare il suo corpo.
Era
solo un sogno.
Eppure
vacillai, incerto.
L'acqua
mi bagnò le caviglie, prima di ritirarsi per tornare in
un'altra,
pacata onda.
«
IL SOLE È MORTO!
IL
SOLE È MORTO!»
Al
canto gracchiante degli avvoltoi di Palioxis, mi
svegliai
madido di sudore, col cuore che batteva ad un ritmo serrato sin nelle
orecchie.
Era
stato tutto un sogno, solo un dannato incubo.
Con
ancora il caldo torpore aggrappato al mio stanco
fisico provai
ad alzarmi per una boccata d'aria, ma qualcosa urtò
violentemente la mia testa, costringendomi a stendermi in preda a
dolorose fitte alla fronte.
Mi
rigirai allora su un fianco e notai che in piedi, accanto al letto,
c'era la minuta, sorridente figura di Alalà, figlia di
Pόlemos,
nella sua fiera giovinezza fittizia: certo, sembrava un'adolescente
grazie ai grandi occhi cremisi e al cielo di efelidi che le
costellava il viso tondo e gentile, ma in verità era una
creatura
antica, più antica persino di Zeus.
Da
millenni animava i cuori di bellicosi guerrieri, spronandoli al
massacro.
Era
una riflessione sciocca, eppure solo in quel momento mi accorsi che
fin prima del sopravvento degli dèi, esisteva la guerra, lo
sterminio, l'odio.
E
quando, esattamente, sarebbe nata? Chi, tra i Titani, aveva creato
simili spiriti rancorosi? E soprattutto... perché?
«
Ares mi ha ordinato di tenerti a letto.» dopo quella
dichiarazione
di intenti, mi puntò l'indice contro con fare minaccioso
« Non
provare a scappare, altrimenti la mia ira si abbatterà su di
te.»
Scossi
il capo, stanco. I miei pensieri stavano andando
troppo oltre.
«
Mi serve una boccata d'aria fresca.» tentai di mettermi
seduto, ma
il bastone nodoso che Alalà portava sempre allacciato alla
schiena
mi percosse ancora il capo « La vuoi piantare?!»
«
A letto. Finché sarai sotto la mia protezione, non ti
alzerai da
lì.» e, a sostegno del proprio celato rimprovero,
sopraggiunse
anche la terza percossa.
«
Lo vuoi capire che fa male?!» sospirai seccato, ma poi notai
i suoi
occhi divenire lucidi, prossimi alle lacrime.
Alzai
le sopracciglia in un'espressione stupita, prima di aggrottarle
incerto quando, senza proferir parola, abbandonò
improvvisamente la
sua dannata arma per poggiare il pugno sinistro sul cuore, con la
schiena ritta e i piedi uniti.
Deimos
mi spiegò il significato di quel gesto: “noi
guerrieri di Ares
sorreggiamo tanto lo scudo con il braccio sinistro e questo gesto
significa: “Io ti proteggerò a costo della
vita”. Cioè, in
realtà nessuno di noi porta più tanto lo scudo...
è un gesto tanto
simbolico, ecco. Solo Pa' lo porta e infatti lui tanto ci
protegge.”.
Però
io non ero degno di una simile riconoscenza: fino a quel momento, a
differenza degli altri Makhai che avevano
combattuto centinaia
di guerre, io non mi ero mai distinto in azioni belliche degne di
nota. O almeno, io non le reputavo tali.
Avevo
solo agito d'istinto.
«
Grazie per tutto quello che hai fatto, Strategós.»
tirò su
col nasino, mostrando stoicamente un'espressione quanto più
seria
possibile, pur col rossore della commozione « A nome di tutti
noi,
ti volevamo ringraziare per aver salvato il nostro Signore. Senza la
tua guida...» s'interruppe bruscamente per colpa di un
singhiozzo
traditore.
A
quella dimostrazione d'affetto sorrisi con dolcezza, poggiandole la
mano sulla sua testolina.
Tutti,
indistintamente, provavano devozione nei tuoi confronti: non eri solo
una divinità da servire, bensì eri una vera e
propria fonte di
sicurezza e di conforto, grazie alla quale anche gli spiriti da
sempre disprezzati dagli altri dèi avevano trovato un
proprio posto.
Persino
io mi sentivo appartenere a qualcosa... a una famiglia, forse.
In
ogni caso, quel sentimento che ci legava in modi diversi a te era
genuino, vero e il solo pensiero di una simile, grave perdita,
addolorava tutti in egual modo.
Dicevi
sempre che per te ero il “tuo Sole”.
In
verità ero fermamente convinto del contrario.
«
Ma è normale che mi adoriate: sono il figlio del Sole
dopotutto.»
per sdrammatizzare quella situazione divenuta per me fin troppo
soffocante, mi alzai e mi esibii in un'elegante piroetta «
Prego,
creature inferiori, porgetemi pure i vostri omaggi.»
Eppure
lei non rispose, non mostrò neppure un sorriso.
E
a quel punto iniziai a comprendere il motivo del turbamento del suo
stato d'animo.
«
C'è qualcosa d'altro che dovrei sapere?»
Come
se stesse combattendo una gravosa battaglia morale, impiegò
qualche
attimo prima di rispondere alla mia domanda.
«
Il nostro Signore... Ares... vuole dichiarare guerra a Poseidon per
l'affronto ricevuto.» mentre ero ancora scosso dalla notizia,
afferrò le mie mani in un gesto di supplica « Io
sono figlia della
Guerra e non dovrei avere paura di una simile decisione, eppure io
temo, temo per la sua sorte. Ti prego, Alectryon:
tu che sei
l'essere più vicino a lui, cerca di placare il suo
animo.»
Respirai
a fatica, fissai il viso della Personificazione in cerca menzogna, ma
era tutto tragicamente reale.
E
allora sentii il mio cuore divenire di pietra.
So
che non dovrei dirlo, essendo un tuo seguace, ma rivivendo la strage
della battaglia con gli occhi di un adulto, capii di aberrarla: per
un intero anno mi ero addossato la paura, il terrore, la
crudeltà e
l'odio estremo che animava l'animo umano nella guerra e il mio
spirito ne era uscito corroso, se non addirittura corrotto.
Da
bambino avevo lottato per difendere il mio popolo e, nella fermezza
delle mie convinzioni, non mi ero mai posto alcuna domanda morale;
anche nell'ultima guerra avevo combattuto per difenderti, vero,
ma non mi ero scontrato solo con Oto e Efialte, bensì anche
con la
consapevolezza delle mie azioni.
Ed
ora che il mio corpo era guarito dalla piaga del deperimento, potevo
percepire con assoluta certezza la malattia che attanagliava mio
animo gravido di incertezze, sangue e morte.
Avevo
agito contro la mia natura.
«
Dov'è adesso?» la fissai negli occhi cremisi,
pregandola
implicitamente di liberarmi da quella prigionia fittizia per il tuo
bene.
Silenzio.
Alalà
chinò il capo, inspirò e buttò fuori
un doloroso sospiro.
«
Non ha detto molto, solo che voleva vedere un villaggio.»
Beh,
almeno non avevi dichiarato guerra a tuo zio.
O
perlomeno, non ancora.
Mi
alzai, raccolsi e indossai in fretta una tunica.
«
Alectryon.» la Personificazione del Grido di Battaglia, con
ancora
il pugno premuto sul cuore, mi guardò con gli occhi colmi di
quella
che io al momento interpretai come fiducia, anche se forse sarebbe
stato più corretto chiamarla “nostalgia”.
Gli
somigliavo davvero così tanto?
[Ma
quando si incontra per la prima volta lo sguardo dell'amato,
quando
si stringe tra le braccia il frutto di quell'amore...
mi
domando...
davvero
è un errore?]
Fine
Quarto Capitolo!
Angolo
dell'Autrice:
Ho
riscritto più volte la parte finale perché non mi
convinceva
totalmente: nella prima stesura sembrava più un dramma
spagnolo, con
Alectryon che fuggiva dall'accampamento; nella seconda pure, nella
terza anche... e... beh, alla fine ho capito che dalla Spagna non mi
sono portata a casa solo la tazza di Starbucks e il ricordo di
un'eccellente paella.
Forse
sono io che sono paranoica e mi faccio troppi problemi, però
davvero, quando un pezzo non mi convince non riesco a sentirmi
tranquilla con la coscienza.
Adesso
sono soddisfatta? Beh... non so, però sono contenta di aver
parlato
sia della “nostalgia”, sia della
“malattia”.
Volevo già scriverci qualcosa a riguardo nei capitoli
precedenti, ma
non riuscivo mai a trovare lo spazio giusto, tanto che l'unico
accenno alla fine si riduce a quando Pόlemos vede per la prima volta
Alectryon.
Inoltre
voglio parlare anche di un'altra cosa successa in questo capitolo,
che per me rappresenta un traguardo: la dichiarazione di Ares.
Oltre
ai drammi spagnoli, ho anche un problema con gli yaoi. Ne avevo
già
parlato, per cui non mi ripeterò, però non sapevo
come far
dichiarare il dio della guerra: un “ti amo”
era
decisamente... cringe.
L'ho
scritto, eh, solo che nella rilettura i miei
neuroni si
fissavano più su “quanto fosse cringe”,
piuttosto che
concentrarsi sul momento in sé. Magari ancora adesso
è cringe, non
so, io sono di parte, ma preferisco che si sia concentrato sul
fattore “importanza” che su quello
“amore”. Riesco a vederlo
più IC.
Voglio
ringraziare i lettori/recensori e chiunque altro abbia aggiunto
questa storia alle seguite/preferite!
Un
bacio da _Lakshmi_!
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