Sotto un cielo di fuoco

di _Lightning_
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Sotto un cielo di fuoco
(Reminiscenze di una guerra senza fine)

Prologo

 Attese
(I)
 
 
“E ora che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.”

[Prima del viaggio – E. Montale]
 
 


Febbraio 1915
Bar di Madame Christmas, Central City
11:50


 
È una serata stranamente calda, per essere febbraio, tanto che mi pento di aver indossato il gilet. Il via vai è stato poco e il foyer è deserto; seduto al bancone ci sono solo io con un analcolico ormai tiepido in mano. Mia zia sta dietro la cassa e prende fittamente appunti sul libro contabile mentre parlotta rapida al telefono; di tanto in tanto digita qualcosa sulla macchina da scrivere, segnato da uno scampanellio metallico che risuona nella stanza. La sua voce mi giunge indistinta, non mi sforzo di cogliere le sue parole.

Una delle ragazze – Suzan? O Leonore? – è abbandonata sull’ottomana in un angolo e legge intentamente un libretto spiegazzato. Dovrebbe occuparsi del bar, ma non si è fatto vivo nessuno nelle ultime due ore. A intervalli regolari alza gli occhi verso la porta, si assicura che non ci sia nessuno e torna a leggere sollevata. Di tanto in tanto incrocia il mio sguardo e mi sorride appena, ma senza malizia: sa che non sono un cliente. Per il reso, l’unica compagnia è quella del grammofono dietro al bancone che gracchia qualche vellutata aria jazz.

Mi siedo più comodamente sullo sgabello e lancio un’occhiata stremata all’orologio d’argento: è quasi mezzanotte e io sto perdendo la mia poca pazienza. Mi alzo irritato, vado dietro al bancone e aggiungo un paio di cubetti di ghiaccio nel bicchiere, poi lo rabbocco di quello che dovrebbe essere whiskey analcolico: è tra le cose più disgustose che io abbia mai bevuto, ma le direttive del dottor Knox non mi lasciano molta scelta.

Mia zia mi lancia un’occhiata di rimprovero, ma è troppo occupata a parlare al telefono per occuparsi di me. Alzo il bicchiere nella sua direzione in un brindisi ironico, ma tornando al mio posto lascio qualche cenz nel barattolo delle mance.

Continuo a controllare l’orologio sempre più spesso, cominciando ad accusare il sonno. La puntina del grammofono inizia a grattare fastidiosamente in sottofondo sul disco terminato. Alla fine, Suzan – sì, è lei – si alza e solleva il braccio dell’apparecchio. Il silenzio cala nel foyer. Si sente solo mia zia che batte a macchina.

«Sembra che ti abbiano dato buca di nuovo, eh?» commenta infine dopo una buona mezz’ora, spegnendo la cicca nel posacenere e alzandosi dalla sua postazione con pesantezza.

Non rispondo e mi rigiro il bicchiere tra le mani facendo tintinnare il ghiaccio rimasto sul fondo. Lei si avvicina, me lo prende e va a portarlo nel lavello; prima di allontanarsi mi dà un buffetto sulla spalla con fare a metà tra il consolatorio e l’incoraggiante.

«Suzan, va’ a chiudere le camere. Andiamo.»

La ragazza si alza subito, assicura il libriccino nella fascia che le cinge la vita, e sale al piano di sopra prendendo il mazzo di chiavi che le tende mia zia. Sparisce in tutta fretta per le scale. Io scivolo giù dallo sgabello rassettandomi la camicia e vado verso il guardaroba per recuperare la giacca.

«Deluso?» mi chiede a sorpresa mia zia.

Mi metto la giacca sulle spalle, lasciando libere le maniche come al solito.

«Mi aspettavo che non venisse nessuno,» replico, evitando la domanda.

«Bugiardo,» mi rimbrotta lei, severa, e non la contraddico.

So che lo sconforto sul mio volto è evidente. Continua a fissarmi, attendendo una risposta. Sospiro sentendomi messo all’angolo.

«Non è nulla di grave,» comincio nervosamente. «Rende solo tutto più complesso,» concludo in fretta.

La vedo accigliarsi e forse vorrebbe domandare ancora qualcosa, ma stringe le labbra brillanti di rossetto e non lo fa. Suzan torna a passo svelto nel foyer, con uno scalpiccio acuto di tacchi, e ci avviamo insieme all’uscita. Fuori fa molto più freddo di quando sono arrivato, e rabbrividisco infilandomi del tutto la giacca. L’aria gelida mi intirizzisce subito le dita e indosso in tutta fretta anche i guanti – controvoglia, in realtà: mi danno sempre l’impressione di andare in giro armato.

Mia zia chiude a doppia mandata la porta d’ingresso e a tripla mandata la grata antistante ad essa, dà un’ultima occhiata scrupolosa alle persiane e poi s’incammina sul marciapiede con la ragazza sottobraccio. Le seguo a passi svogliati, con le mani affondate nei pantaloni, e mi sento un ragazzino a cui hanno dato un palo al primo appuntamento. Arriviamo all’angolo della strada; mi fermo alla mia macchina e mi offro di riaccompagnarle, ma entrambe rifiutano. Non insisto: so che con mia zia è inutile. E poi, non vedo l’ora di farmi una dormita.

Salgo in macchina, ma non metto subito in moto e rimango a fissare la strada con le mani sul volante. Un brutto palazzo a quattro piani con la facciata di un verdino smorto ricambia il mio sguardo, quasi un riflesso del mio umore. Sento picchiettare sul vetro, mi giro e mi ritrovo a fissare il volto cupo di mia zia. Abbasso a malincuore il finestrino, girando con deliberata lentezza la manovella.

«Sì?»

Lei non dice nulla e mi allunga una chiave a cui è attaccata una targhetta. La prendo titubante e la fisso interrogativamente.

«Visto che l’ultimo rifugio è inagibile,» esordisce lei a bassa voce «potrebbe farti comodo un piano di riserva.»

Leggo la targhetta: è un indirizzo, da qualche parte nelle campagne intorno a Central City. Quindi è riuscita a trovare un’altra casa sicura, dopotutto. Iniziavo a perdere le speranze, ma come al solito zia Chris non mi delude mai. Soppeso la chiave, di vecchia fattura e un po’ arrugginita, poi gliela tendo di nuovo.

«Che me ne faccio di un rifugio senza nessuno da metterci dentro?» sbotto, frustrato.

Mi prenderei a schiaffi da solo, visto che dovrei esserle riconoscente. Chissà quanto ha rischiato per trovare e acquistare la proprietà, e quanto ha speso... sono sempre stato troppo ingrato con zia Chris. Lei ha un moto di stizza, ma quando parla la sua voce è ferrea:

«Non fare il bambino e prendila,» mi respinge la chiave in mano, «Lo sai che ti serve, a prescindere da chi e quanti sarete. Senza una base operativa non andrai da nessuna parte.»

Stringo la chiave nel palmo e la guardo impotente:

«Zia, è un mese che aspetto qualcuno, chiunque... e non si è fatta viva un’anima. A questo punto dovrò riconsiderare i miei piani,» mormoro, ma metto la chiave nel taschino della camicia.

Zia Chris sembra cogliere la gravità della situazione, a dispetto di ciò che ho detto prima. Sta in silenzio per un po’, scrutandomi con i suoi occhi neri e penetranti come opali.

«Aspetta ancora una settimana,» dice infine.

Io sospiro. L’ha detto anche la settimana scorsa. Non glielo faccio notare, lo sa già.

«Non possono essersene dimenticati tutti,» aggiunge.

«Non se ne sono dimenticati,» replico meccanicamente. «È questo il problema.»

A questo neanche lei sa come replicare. Mi lancia un’ultima occhiata e nei suoi occhi scorgo un velo di tristezza che vorrei strapparle via. Ha passato la vita a preoccuparsi per me, e per quanto sia una donna apparentemente superficiale e insensibile ho visto troppo spesso quello sguardo.

«Non sei solo,» dice infine, e so dalla sua voce decisa che non è una frase detta con leggerezza.

Annuisco brevemente, volendo credere a quelle parole, ma la consapevolezza che le uniche altre persone che potrebbero aiutarmi sono irraggiungibili mi demoralizza.

«Domani alla stessa ora,» taglio corto, sentendomi esausto.

Volevo dire tutt’altro, ma non sono mai stato bravo con le parole, almeno non con le persone a cui tengo. Ci auguriamo la buonanotte e metto in moto la macchina. Seguo con lo sguardo Suzan e zia Chris finché non spariscono dietro l’angolo, poi parto e mi dirigo verso casa.

È un’altra lunga notte.

 

 
La mattina mi sveglio con un ingiustificato senso di spossatezza e con un cerchio alla testa. Nonostante tutto, mi forzo ad alzarmi dal letto ignorando il malessere e in poco meno di mezz’ora sono fuori casa, stranamente in anticipo rispetto al solito. Decido di andare a piedi fino al Quartier Generale; magari camminare un po’ migliorerà il mal di testa e mi schiarirà le idee, mi dico con poca convinzione.

Mi incammino a passo abbastanza lento, testando la resistenza della mia ferita. Ho preso gli antidolorifici poco fa, ma è passato un bel po’ dall’ultima volta che ho fatto attività fisica e mi muovo con cautela. Il fianco ancora sensibile si tende fastidiosamente ad ogni mia falcata e dopo appena qualche minuto sono costretto a rallentare, preoccupato per una fitta improvvisa.

Sbuffo, emettendo una nuvoletta nell’aria gelida del mattino. Non va bene. Dovrei essere in forma smagliante e mi sento ancora un relitto infermo. Il Giorno della Promessa è tra meno di tre mesi, come pretendo di guidare la battaglia in queste condizioni pietose?

Riprendo un’andatura più rapida, spinto dalla rabbia verso me stesso e dall’angoscia per tutto ciò che deve venire. A quest’ora dovrei già essere entrato nella fase operativa del piano e iniziare ad organizzare attivamente il tutto; invece mi ritrovo a passare ore al telefono cercando di contattare persone ormai lontane e ad aspettarle inutilmente.

Non avevo previsto di rimanere solo, realizzo con rammarico.

Mi fermo a riprendere fiato, con una mano premuta sul fianco da dentro la tasca del cappotto. Scorgo la sagoma massiccia ed eccessivamente imponente del Quartier Generale fare capolino da sopra i palazzi di cemento, più vicina di quanto credessi. Non ho alcuna voglia di rinchiudermi per ore in un ufficio vuoto, sentendomi appuntati addosso gli sguardi dei miei superiori ogni volta che metto il naso fuori. Riluttante, riprendo il cammino zoppicando un po’ ed evitando le sparute pozze di ghiaccio qua e là.

Quest’anno ha nevicato poco, e la neve si è subito sciolta in una poltiglia grigiastra e infida. D’inverno Central ha bisogno della neve. Il manto bianco ricopre le brutture di una città nata e cresciuta troppo in fretta, ricolma di palazzi grigi e squadrati che si fondono col cielo livido. Sembra di camminare nel cemento, interrotto solo da qualche decorazione verde Amestris e dalle insegne dei negozi. Di notte l’impressione viene mitigata dalle luminarie e dai lampioni, che le danno un aspetto meno austero, ma comunque freddo.

Rimpiango East City, per quanto odi quella città. Nella sua fatiscente caoticità manteneva una nota accogliente e calda nelle facciate di legno dei vecchi edifici, nei mercatini sparsi un po’ ovunque e nei parchetti spuntati tra case e strade senza una logica apparente. Un inverno senza neve a East City è cupo ma sopportabile. A Central è come stare in una bara.

Non avrei mai creduto di poter sentire la mancanza della neve. Affretto il passo, tentando di scrollarmi quei pensieri di dosso, ma ormai la porta si è aperta.

In guerra era tutto più semplice, mi balena in testa, e soffoco fortunatamente le immagini che stanno tornando a galla, ma questa consapevolezza mi riempie comunque d’inquietudine.

In guerra si deve solo obbedire agli ordini. Se si sbaglia, poco male: è la guerra, si muore per nulla. Mi ritrovo a desiderare che ci sia qualcuno a guidarmi in questo momento, qualcuno che mi dica cosa fare così da non dovermene occupare io, qualcuno che si prenda le responsabilità delle mie azioni, anche se so che è un sollievo illusorio.

Ricaccio indietro queste constatazioni. Maledizione, è proprio questo che voglio cambiare! Quando sarò il Comandante Supremo – quando, poi? – non ci sarà nessuno a guidare me. Ci sarà la mia squadra a supportarmi. Qualche amico, qualche commilitone – chi verrà? Verranno? – gli Elric. Ci sarà Riza al mio fianco.

Ci sarà? Il mio cuore prende a martellare, preso improvvisamente da un panico irrazionale che annulla qualsiasi altra paura e devo fermarmi di nuovo, stavolta per riprendere il controllo.

Non pensarci. Sta bene. Non pensarci.

Me lo ripeto ininterrottamente, ogni giorno, ma sento la testa pesante e solcata da immagini e pensieri spiacevoli. Li lascio ronzare in sottofondo e mi concentro sul marciapiede davanti a me mentre avanzo come in trance.

Entro nel Quartier Generale già stremato e pronto ad andarmene il prima possibile. Prendo posto alla mia solita scrivania senza neanche togliermi la giacca, e il silenzio innaturale del mio ufficio, rotto solo dalla pendola, non aiuta i miei nervi.

Scruto le scrivanie vuote: la postazione radio di Fury, i libri e fascicoli impilati ordinatamente su quella di Falman. Nel cassetto semiaperto di Breda si intravede la sua scacchiera tascabile, dimenticata nella fretta. La postazione di Havoc è libera e pulita; manca il solito pacchetto di sigarette abbandonato sulla scrivania. Sono terribilmente consapevole della scrivania vuota alla mia sinistra, non ho neanche bisogno di guardarla per percepirne l’imponente assenza.
La pendola ticchetta incessante e inesorabile. Mi prendo la testa tra le mani e poggio i gomiti sul tavolo, sentendomi innaturalmente accaldato.

Deve arrivare qualcuno. Devo sapere di non essere solo, o divento pazzo.
 
 


 
Note Dell’Autrice:

Cari Lettori,
questo progetto nasce la bellezza di dieci anni fa, e da allora ho continuato ad ampliarlo in modo più o meno costante (e frammentario), senza mai riuscire a trovare la "forma" in cui pubblicarlo, cosa che si è risolta giusto qualche giorno fa.
L’idea iniziale coincide con la struttura di un diario di guerra, collocando quindi la storia in bilico tra una long vera e propria e una raccolta, il cui filo conduttore è fondamentalmente il tempo che scorre. Ho deciso quindi di dividere la storia in "macroparti" suddivise in capitoli, collegati dalla medesima tematica, ambientazione o svolgimento – prologo ed epilogo fanno parte a sé, e vi saranno un paio di "interludi" che si distaccano da Ishval.

Ho preso questo progetto come una sorta di "prova di scrittura", e per questo vi preannuncio che vi saranno molti personaggi originali nelle vesti dei commilitoni di Roy – alcuni fanno la loro comparsa nel manga/anime. L’azione è comunque incentrata su Roy e, nonostante vi saranno molte deviazioni narrative (d’altronde, sappiamo davvero poco di ciò che accade a Ishval), il tutto confluirà linearmente nel canon e nell’ambientazione del prologo, che è appunto qualche mese prima del fatidico Giorno della Promessa.

Chiudo con queste note troppo prolisse e spero che questo primo assaggio vi abbia messo curiosità. Se vi va, fatemi sapere che ne pensate :)
Al prossimo capitolo (l’aggiornamento sarà più o meno bisettimanale, salvo capitoli molto brevi),

-Light-

 
 
 
 
 
  
Disclaimer:
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©_Lightning_

©Hiromu Arakawa




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