Edelweiss

di Ellery
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1. Sohn



John allungò una mano, stringendo soltanto l’aria. Suo fratello, oltre l’orlo della buca in cui era caduto, se ne stava rannicchiato sulla sedia a rotelle e gli voltava le spalle.

«Edmund!» chiamò, boccheggiando per il dolore. L’idea di provare a saltare il fosso che cintava i due campi di granoturco era stata sua; si era pavoneggiato, convinto di poter superare la distanza, ma non era riuscito neppure a sfiorare l’altra sponda. Si era ritrovato a cadere un metro e mezzo più in basso, ruzzolando nel fango e nella ghiaia del fondo. Edmund aveva cercato di dissuaderlo da quell’idea, definendola un’emerita cretinata, ma non aveva voluto dargli ascolto. Cosa pensava di poter dimostrare? D’essere migliore di un fratello paralizzato dalla distrofia? Forse voleva soltanto farlo divertire: strappare a Edmund un sorriso e fargli capire che su di lui avrebbe sempre potuto contare. Era forte, John, e poteva esserlo per entrambi.
Il peso del fallimento si mescolava al pulsare della caviglia destra, già gonfia e bluastra. Le ginocchia si erano sbucciate e aveva graffi persino sulle braccia e sul viso; la ferita che più bruciava era, però, nell’orgoglio.

«Edmund! Devi andare a chiamare la mamma.» supplicò, consapevole che il fratello non avrebbe potuto aiutarlo in nessun altro modo. Persino così, i soccorsi sarebbero giunti tardivamente: se non avesse incontrato un contadino lungo la strada, Edmund ci avrebbe impiegato almeno mezz’ora per uscire dai campi, tornare a casa e dare l’allarme.

«Perché l’hai fatto?»

La voce del fratello conteneva una nota scontenta, di rimprovero. Eppure, non fu quella a sorprenderlo: era diversa, estranea e familiare al tempo stesso. La conosceva, ma non apparteneva a Edmund. E, ora che lo guardava meglio, anche il taglio di capelli era differente: le ciocche castane erano lisce, composte e ben lontane dai ricci ribelli che solitamente adornavano quel capo. Quel ragazzo dimostrava più dei dieci anni che avrebbe dovuto avere.

John seguì con lo sguardo le proprie dita infantili ancora tese al nulla, verso una figura che non riconosceva. Sembrava addirittura più maturo di lui. Quanti anni poteva avere? Sedici, forse diciassette. Perché era seduto sulla sedia di Edmund? Perché gli sembrava di conoscerlo, d’essere indissolubilmente legato a lui nonostante fosse la prima volta che lo vedeva?

«Edmund…» chiamò nuovamente, con una sfumatura dubbiosa «Guardami, per favore.»

Il giovane si voltò e il quattordicenne John Smith si ritrovò a fissare gli occhi spenti del proprio figlio, le labbra avvizzite e l’espressione malinconica, tipica di chi sapeva d’aver perso tutto.

Un nodo gli serrò la gola, impedendogli di pronunciare quell’unico nome che avrebbe invece voluto gridare. Le sue braccia si tesero un’ultima volta, prima che il buio inghiottisse quella visione.
 


L’ Obergruppenführer rialzò di scatto il viso, ritrovandosi un foglio appiccicato alla fronte imperlata di sudore. Volse l’attenzione al vicino pendolo, intento a scoccare le due e trenta di notte. Abbassò lo sguardo alla scrivania, coperta di carte stropicciate, boccette di inchiostro e alcune lettere ancora chiuse. Una mappa del Sud America era relegata in un angolo, dimenticata sotto un orrendo fermacarte a forma di unicorno.

Si era addormentato di nuovo mentre cercava disperatamente di mettere un ordine alla propria vita, di separare le questioni lavorative da quelle personali. Queste, tuttavia, tornavano ad intrecciarsi sistematicamente, fregandosene delle sue necessità e condannandolo ad un quotidiano inferno fatto di ritmi serrati, ordini, contrordini e falsi sorrisi; ma fatto anche di ritorni a casa dove il profumo del caffè lo accoglieva ogni sera, accompagnato dalle voci allegre delle figlie e dai baci morbidi di Helen. Thomas, invece, era più distaccato: mimava dei cenni con il capo frettolosi e poi si chiudeva nei libri a lui tanto cari; non mancava mai, però, di regalargli un sorriso fiero, grondante di orgoglio per il padre e d’amore per la patria.

Thomas era un bravo ragazzo: si impegnava in qualsiasi attività, dalla scuola al volontariato, alle attività extra curricolari facoltative. L’unica cosa in cui non eccelleva era lo sport: i suoi insegnati di ginnastica riferivano un grande impegno, ma a cui non corrispondevano altrettanti risultati. Spesso, il ragazzo mostrava precoci segni di affaticamento – che si erano intensificati nel corso degli ultimi mesi – e non riusciva a completare nemmeno gli esercizi più semplici senza doversi concedere delle lunghe pause. Avevano attribuito quei cali allo stress psicologico a cui Thomas era sottoposto: essere il figlio dell’ Obergruppenführer non era certamente facile!

Tutti gli occhi, tanto a scuola quanto nei circoli della gioventù hitleriana, erano puntati su di lui. La competizione con gli altri ragazzi era, dunque, in parte una volontà e in parte una necessità, atta a mantenere alto il buon nome degli Smith. Questo, secondo gli insegnanti, si traduceva in una spossatezza mentale che si ripercuoteva sul fisico dello studente. Presto, però, Thomas sarebbe partito alla volta del Sud America – viaggio per cui era stato selezionato tra una miriade di altri promettenti alunni; forse, lontano dalla famiglia e dalle pressioni a cui era involontariamente sottoposto, avrebbe potuto ritagliarsi i propri spazi e riprendere il controllo sulla sfera emotiva. Un evento simile gli avrebbe permesso di ristorarsi e tornare a concentrarsi sui propri obiettivi in serenità.

John spiò nuovamente la mappa abbandonata sulla scrivania, allungando la mancina per trarla a sé. Aveva meticolosamente tracciato il percorso che avrebbe dovuto compiere la missione. La strada era tutt’altro che semplice e sicura, ma i ragazzi sarebbero stati accompagnati da un nutrito gruppo di adulti ben armati: nessuno desiderava che i rampolli delle famiglie più influenti cadessero nelle mani dei ribelli messicani. Nessuno, eccetto l’ Obergruppenführer stesso.
Si massaggiò la fronte, senza negarsi un sorriso amaro: quanto in basso doveva essere caduto in basso, per ordire il rapimento del suo stesso figlio? Aveva persino contattato dei partigiani di Campeche...

Non ne aveva parlato con Helen. Quel silenzio a cui era costretto era forse la peggiore delle torture: con chi poteva confidarsi, se non con sé stesso? In chi poteva cercare conforto, se non poteva rivolgersi nemmeno alla propria moglie?
Helen lo amava, di questo ne era certo. Il loro matrimonio si era sempre basato sul rispetto e sulla fiducia reciproca. Non avevano ombre, né segreti: la trasparenza di quel rapporto era motivo d’invidia per molti. Eppure… ora che aveva maggior bisogno di sostegno, non riusciva ad aprirsi con Helen; a confidarle i propri dubbi e le angosce, a parlarle col cuore in mano di quanto stava accadendo al primogenito. Non sapeva nemmeno da che parte incominciare. Come si danno certe notizie? Come si può spiegare ad una madre che suo figlio finirà presto paralizzato su una sedia? Anzi, peggio… che verrà ucciso da quello stesso regime che il marito serve con tanta abnegazione?

«Di chi è la colpa, John? È tua. Solo tua.»  si disse, tornando a pizzicarsi l’attaccatura del naso.

Thomas non meritava tanto… e nemmeno Helen. Lei gli era rimasta accanto in qualunque momento, senza mai farsi schiacciare dalle difficoltà. Persino quando aveva scorto il ritratto di Edmund Smith, non aveva battuto ciglio; nemmeno quando aveva notato la carrozzina sotto le gambe del malcapitato. Helen de Schneider Van Hohenheim era pur sempre una donna tedesca, cresciuta alla luce di quegli ideali di perfezione e purezza che il Reich osannava; eppure, non le era importato: Edmund Smith doveva essere stato un tipo gentile e onesto, a giudicare dal sorriso incoraggiante che mostrava in ogni ritratto. Non le interessava se era storpio o paralitico: era sicuramente un uomo buono, così come lo era suo marito.
 


Una mattina, John le aveva chiesto se l’idea che Edmund fosse affetto da handicap fisico non la disturbasse. Helen lo aveva immediatamente zittito, scuotendo il capo e portandosi l’indice alle labbra carnose:
«La grandezza di una persona non si misura certo da quanti passi possono compiere le sue gambe. Io ti amo, John. Edmund non dovrebbe essere motivo di vergogna per nessuno di noi. La sua foto dovrebbe stare sul caminetto, assieme a quella dei nostri genitori. Invece, la tieni chiusa nel cassetto del comodino.»

«Non voglio che gli ospiti la vedano. Sai… qualcuno potrebbe fare delle insinuazioni e se la faccenda arrivasse alle orecchie del Reich, dovrei sottopormi a dei test e…»

Si era sentito tirare un paio di ciocche, in una sorta di muto rimprovero.

«Tu non sei malato, John.» gli aveva detto, con un sorriso capace di spazzare via anche il peggiore dei dubbi «Nessuno di noi lo è. Edmund era soltanto un ragazzo sfortunato.»

«Ma se…»

Non lo aveva lasciato terminare. Aveva appoggiato la bocca morbida sulla sua fronte, sistemandogli contempo il colletto della camicia e stringendo il nodo della cravatta.

«Ti amo da sempre, John. Ti avrei amato anche se fossi stato zoppo, cieco o inchiodato su una sedia a rotelle. Non dimenticarlo mai.»

Non aveva più saputo replicare. Helen gli aveva sorriso e lo aveva sospinto verso la porta di casa, ricordandogli di non fare tardi al lavoro e di fermarsi a comprare un cartone di latte e del pane per la cena.
 


Che avrebbe detto Helen, se avesse saputo che quella sedia stava ora reclamando le gambe di suo figlio? Thomas avrebbe potuto sviluppare la distrofia nella sua forma più grave, ritrovandosi bloccato a letto per il resto dei suoi giorni, incapace di camminare, di mangiare o persino di sorridere. Che avrebbe detto, allora, la sua coraggiosa moglie?

Forse stava correndo troppo. Non era detto che Thomas sarebbe finito ridotto ad uno scheletro atrofizzato su un vecchio e scomodo materasso. Magari sarebbe incorso in una forma più lieve; una distrofia leggera, sufficiente ad impedirgli grossi sforzi, ma non completamente invalidante. In fondo, c’erano diversi gradi in quella patologia… ma l’unico modo per sapere a cosa andavano incontro era aspettare; solo il tempo avrebbe potuto giudicare l’evolversi della situazione. Oppure, si poteva ricorrere ad un parere medico; ai test genetici, che avrebbero stabilito il livello della distrofia… e decretato, senza possibilità d’appello, l’eutanasia per il soggetto portatore. Il grado non avrebbe avuto importanza. Non esisteva una “gravità” nel metro di giudizio del Reich: esisteva solo il “positivo” o “negativo”. Nel primo caso, si veniva terminati.

«Cosa devo fare?» si chiese, senza preoccuparsi di abbassare la voce.

Si stava rivolgendo al nulla e se ne rendeva conto. Le uniche cose in quella camera capaci di ascoltarlo erano un vaso di gerani appassiti e un grosso gatto grigio che russava nella sua cesta. Poteva confidarsi con una pianta morente o con un felino troppo pigro per ascoltarlo. Era ridicolo, no? Come era possibile che uno dei maggiori esponenti del Reich americano trovasse così difficile confidarsi con qualcuno? Probabilmente, perché temeva le reazioni di Helen: non avrebbe potuto sopportare uno sguardo accusatorio, né il disgusto o la pietà dipinti su quel volto che tanto amava; era colpa sua, se Thomas era malato. Sarebbe stata colpa sua se anche Amy e Jennifer avessero incontrato lo stesso destino.

Si alzò, allacciando le mani dietro la schiena e prendendo a camminare su e giù per la stanza. Quell’atteggiamento indeciso non serviva a nulla, ma non poteva evitarlo. Stare seduto alla scrivania avrebbe peggiorato le cose. Doveva allontanare i pensieri, distrarsi e trovare qualcosa d’altro da fare. Di raggiungere Helen a letto non se ne parlava! Lei avrebbe capito immediatamente il suo turbamento e non era pronto ad affrontare l’argomento; non intendeva rischiare di svegliarla. Avrebbe potuto pescare un libro a caso e mettersi a leggere, consapevole che i dubbi lo avrebbero comunque tormentato tutta la notte. Scosse il capo, decidendosi infine a oltrepassare la porta a vetri del proprio ufficio e sgattaiolare in cucina.


 
Rimase sorpreso quando, oltrepassato l’uscio, scorse la figura di Thomas accomodata al lungo tavolo da pranzo: stava sfogliando un quaderno fitto di appunti, in compagnia di un bicchiere di latte e qualche biscotto.

«Che fai in piedi a quest’ora?» chiese, sedendosi accanto al figlio.

«Sto ripassando.»

«Sì, questo lo vedo. Non hai studiato a sufficienza, oggi pomeriggio?»

«Al contrario.» la voce di Thomas era decisa e testarda, ma tradiva una nota di stanchezza «Solo… domani abbiamo un importante compito di storia e … non voglio che Randall prenda un voto migliore del mio.»

Randall. Ancora quel nome, ancora con la storia dell’eterno rivale. Era giusto, in fondo, che Thomas si misurasse con i compagni, che si confrontasse e trovasse la propria collocazione. Il regime incoraggiava la competizione tra i giovani e li spronava a dare sempre il meglio di loro stessi, poiché questo aiutava a prendere coscienza di limiti e potenzialità.

Tuttavia, avrebbe voluto suggerirgli di lasciar perdere Randall, la storia, la ginnastica e tutto il resto. Avrebbe voluto gridargli di scappare il più lontano possibile, di cambiare nazione e anche continente se necessario. Di abbandonare tutto e non voltarsi indietro; di non provare alcun rimpianto, ma di sorridere al futuro che la vita gli avrebbe steso innanzi. Thomas meritava più di qualsiasi cosa il Reich avesse da offrire; e, a differenza sua, era ancora libero:  non era legato a una stupida scrivania da un castello di ordini, giuramenti e promesse. Poteva andarsene quando e dove voleva; e lui non avrebbe potuto desiderare niente di meglio per il figlio, anche se questo significava non vederlo più crescere e maturare; non vederlo diventare uomo, né essere presente alle sue nozze o alla nascita suoi bambini.
Ma niente di tutto ciò avrebbe avuto importanza: Thomas sarebbe sopravvissuto e sarebbe stato felice; era solo questo che contava.

«Padre?»

Si riscosse a quell’unica parola e si accorse che il ragazzo lo stava fissando perplesso.

«Sì?»

«C’è qualcosa che non va?»

John scosse il capo, concedendosi un leggero sorriso:
«No. Solo… non dovresti studiare fino a quest’ora. La mente ha anche bisogno di riposare, sai? Se arrivi stanco in classe, allora…»

«Non credo siate la persona adatta per una predica del genere.» sentì un paio d’occhi scandagliare attentamente la propria figura «Siete ancora in divisa. Io, almeno… ho il pigiama.»

Abbassò lo sguardo sulla giacca di panno scuro - completamente slacciata - dove le mostrine rilucevano alla fioca luce della cucina; delle pieghe solcavano la stoffa dei pantaloni, stropicciandoli lungo le cosce. Il colletto della camicia era piegato in un ricciolo curioso e la cravatta ricadeva sciolta sul petto.

«Uno a zero per te.» sussurrò, allungando la mancina per sgraffignare uno dei biscotti.

«Cosa vi preoccupa?»

«Mh… niente.»

«Non siete bravo con le menzogne, padre. Non a casa, almeno.» Thomas gli avvicinò il piattino con i dolci, invitandolo a prenderne un altro «Immagino che al lavoro siate un bugiardo infallibile, ma… dovete esserlo, non è vero? Per necessità, per proteggere il Reich. Tuttavia, vorrei ricordarvi che siete a casa ora, al sicuro; potete essere sincero con me.»

Vorrei tanto esserlo, si disse, scuotendo piano il capo. Confidarsi con Thomas sarebbe servito solo a scaricare un macigno sulle spalle fragili di un adolescente; un peso che non avrebbero mai potuto sopportare. Non poteva parlare, o lasciarsi sfuggire alcunché; quel ragazzo era abbastanza intelligente da capire la situazione: già faticava a credere alle parole degli insegnanti e più d’una volta gliel’aveva confidato; giustificare la debolezza fisica con lo stress era coerente? Oppure stavano cecando di nascondere qualcosa? Forse avrebbe potuto approfondire la questione con delle visite mediche. L’infermiera della scuola l’aveva suggerito, ma l’idea era stata prontamente bocciata.

John rubò un secondo biscotto, ciondolando nuovamente la testa. Imbastì frettolosamente una scusa patetica, ma credibile:
«Sono preoccupato per alcuni dispacci giunti in ufficio. Pare che la ribellione si stia espandendo in alcuni distretti del nord-ovest e… il Maggiore Weilman sta cercando di mettermi i bastoni tra le ruote, tanto per cambiare.» affondò i denti nella pastafrolla, rompendola con un sonoro crock «Berlino si aspetta un rapporto dettagliato domani. Non so come potrebbe evolvere la situazione.»

«Credo dobbiate avere più fiducia nelle vostre capacità, padre. Siete molto abile, più del Maggiore Weilman! Sono orgoglioso di voi e lo sapete.»

Annuì piano. Lo sapeva, purtroppo. Se solo Thomas lo avesse odiato! Sarebbe stato tutto più semplice: lo avrebbe convinto ad allontanarsi dagli Stati Uniti, a lasciarsi la famiglia alle spalle e cercare fortuna altrove. Invece, era quel genere di figlio che amava i propri genitori; che guardava loro con ammirazione sconfinata e dedizione; che aiutava le sorelle minori, consapevole che un giorno avrebbe dovuto prendersi cura di loro.

«Thomas… toglimi una curiosità. Se… potessi andare via di qui, dove vorresti andare?»

«In viaggio? Beh, trovo la missione in Sud America particolarmente stimolante. Non vedo l’ora di partire e sono certo che imparerò moltissimo. Quando tornerò, naturalmente, vi racconterò tutto. Oh, e non mancherò di scrivervi mentre sarò via. Credete che ci permetteranno di spedire lettere?»

«No, no…» sollevò una mano per fermare quel fiume di parole «Intendevo, se dovessimo trasferirci. Cambiare casa e andare a vivere in un’altra nazione, dove ti piacerebbe andare?»

«In Germania, naturalmente. Deve essere bellissima. Tutti ne parlano con tanto entusiasmo! Voi l’avete vista, no?»

«Io ho visto solo Berlino e i dintorni.»

«Mamma dice che la Baviera è splendida.»

«Beh, è nata lì… anche se poi si è trasferita in America. Non credo l’abbia mai visitata sul serio, ma tendo comunque a crederle.»

Era una battaglia persa in partenza. Thomas non avrebbe mai ceduto. Non li avrebbe abbandonati, non sarebbe scappato probabilmente nemmeno davanti alla malattia; l’ombra del sospetto e della vergogna non avrebbe contaminato quel cuore puro e orgoglioso. Avrebbe mantenuto la sua fierezza, camminando a testa alta finché il fisico glielo avesse concesso. E poi…

Scosse il capo. Non voleva neppure pensare ad un’eventualità del genere. Ricacciò il pizzicore che sentiva agli occhi, battendo frettolosamente le palpebre; deglutì a vuoto, per sciogliere quella morsa che gli stringeva la gola.

«Padre?»

«Sto bene.»

John si alzò frettolosamente, gettando i resti del biscotto sul bordo del piatto. Gli si era chiuso lo stomaco e non aveva senso continuare quella conversazione. Ogni minuto che passava bruciava come una stilettata nella schiena. Regalò al figlio un ultimo e morbido sguardo, senza celare quel misto d’ammirazione e di paura che provava in fondo al proprio cuore. Thomas era coraggioso, era risoluto… ma era anche un ragazzino a cui la vita stava chiedendo troppo.
Girò sui tacchi, ma non riuscì a compiere nemmeno un passo: la sua manica era stata afferrata da una mano ancora sporca di inchiostro.

«Un giorno vi renderò orgoglioso di me, padre. Ve lo prometto.»

Tornò a voltarsi, senza nascondere un’espressione stupita. Allungò la destra, arruffando le ciocche del figlio tra le dita robuste.

«Sono già orgoglioso di te, Thomas.»

«Posso abbracciarvi padre?»

Sorrise l’Obergruppenführer, senza più remore. Sorrise leggero e deciso ad accantonare i pensieri cupi almeno per una manciata di istanti. Sorrise, stringendo a sé il primogenito come fosse la prima volta.

«Accidenti, Thomas, sei mio figlio! Non dovresti chiedermi il permesso» sussurrò, celando il viso nell’incavo della spalla magra. Fu grato alla maglietta del pigiama, che nascose egregiamente i suoi occhi velati.
Colse le braccia esili cingergli i fianchi.

«Sarete con me padre, non è vero?»

«Sarò sempre con te, Thomas.» promise «Fino alla fine.»

 
 

 

Angolino: buonasera! Come accennato nelle note iniziali, la raccolta partecipa al contest: SummerBingoChallenge, indetta da Hurt/Comfort Italia. Le fanfiction qui postate dovrebbero essere tre, in totale. Possono essere lette sia separatamente, che come un'unica storia. Il titolo della raccolta (Edelweiss) riprende tanto la sigla iniziale di "The man in the high castle" quanto il significato del brano originale (tratto da un musical, dove è dedicata alla riscoperta dell'amore per i figli - fonte:  wiki); semplicemente, mi sembrava un bell'accostamento e ho deciso di sfruttarlo.




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