II
– Peter Pankow è famoso
L'aviere semplice Hans Liefke si
appoggiò con gli avambracci all'impavesata del cacciatorpediniere
Walküre
e lasciò vagare lo sguardo sulla superficie dell'acqua. Anche se il
cielo era azzurro e senza una nuvola, le onde dell'Atlantico
rimanevano di un blu cupo, a tratti quasi nero. Solo quando si
sollevava qualche cresta di spuma, l'acqua prendeva una trasparenza
vetrosa, blu-verdastra come certi mostri marini dei giornaletti della
sua infanzia.
Si girò e alzò lo sguardo verso
il motivo della sua presenza a bordo, ovvero un idrovolante Arado
196, che in quel momento oscillava adagio assicurato alla catapulta,
solidale con il rollio della nave.
Si chiese come fosse essere
lanciati da quel meccanismo, e da una parte si trovò a non invidiare
il pilota, ma dall'altra il brivido dell'avventura e dell'azione lo
pungolò facendogli emettere un sospiro come di nostalgia.
Mentre era immerso in quelle
considerazioni sopraggiunse un altro aviere, coi gradi di aviere
scelto. Questi lo fissò critico e disse: “Hansi, non stare al sole
senza berretto. Poi ti bruci come l'ultima volta.”
“Mamma e papà li abbiamo
lasciati a Berlino, mi pare” fu la piccata protesta.
“Appunto, quindi adesso sono io
che devo preoccuparmi di te e Michael.”
Hans sbuffò infastidito e
brontolò: “So badare a me stesso, Wendel.”
L'altro fece una risatina. “Con
quel naso rosso? Scommetto la decade che tra un po' ti spelli come un
serpente.”
“Senti, ma perché non sei
andato a lavorare in un nido d’infanzia, invece di arruolarti nella
Luftwaffe?”
La domanda cadde nel vuoto. Anche
il nuovo arrivato si appoggiò all'impavesata, socchiudendo gli occhi
per il riverbero del sole. Piegò appena la testa all'indietro,
lasciando che la brezza gli scompigliasse i capelli. “Che caldo,”
disse dopo un po'. “Si stenta a credere che sia autunno, vero?”
“Da noi starà già cadendo la
prima neve.”
“Se fossimo a Berlino, mamma
comincerebbe a tirare fuori i cappotti pesanti,” disse Wendel. Fece
una breve pausa, durante la quale fissò lo sguardo sull'ombra mobile
che la semiala dell'Arado disegnava sulla coperta, poi chiese: “Ti
manca qualche volta?”
Hans scosse la testa. “No, non
direi.” Strinse appena gli occhi, con l'aria soddisfatta di un
gatto davanti al focolare. “Mi manca solo Nana.”
“Il cane?”
“Sì, ma per il resto mi piace
qui, si sta bene. E poi pensa: adesso siamo nel mezzo dell'Atlantico,
a bordo di una nave da guerra. L'avresti mai pensato tu di capitare
su una nave da guerra?”
Wendel scosse la testa.
“Ti ricordi quando papà ci
portò a Kiel?”
“Michael non smetteva più di
fare domande.”
“Beh, direi che fu un'ottima
cosa: per farlo stare zitto, papà ci portò a comprare lo zucchero
filato.”
La conversazione si esaurì
nuovamente, i due rimasero assorti a fissare le onde.
Fu Wendel dopo un po' a rompere
il silenzio: “Ora è meglio che tu vada all'ombra, Hans. Non vorrai
prenderti un colpo di sole.”
“Oh, che palle!” sbottò
l'altro.
“Io mi preoccupo per te e
Michael.”
“Io e Michael siamo soldati.
Siamo uomini.”
L'altro fece una risatina. “A
diciassette anni e mezzo tu e quasi diciannove lui? Ma per piacere.”
Hans strinse le labbra. “Io
scommetto che Peter Pankow non ne ha molti di più.”
“Chi?”
L'altro sollevò le sopracciglia
come se si fosse sentito chiedere una cosa perfettamente nota a
chiunque, tipo quante gambe hanno i cani. “Il tenente Pankow è
quello che ha recuperato un'importante arma segreta del Reich caduta
in mani nemiche e poi è sfuggito alla cattura appropriandosi di un
aereo inglese.”
Wendel scosse la testa. “Mai
sentito.”
“Perché tu hai sempre il naso
nei tuoi libri e non leggi mai le riviste di attualità.”
“Beh, io almeno ho un
obiettivo,” replicò l'altro piccato. “Diventare
radiotelegrafista. E poi magari, chissà, potrei anche passare alla
scuola di volo.”
Hans gli rispose con una
sghignazzata. “Tu che piloti un aereo? Ma se non sei nemmeno capace
di andare dritto con la bicicletta.”
“La navigazione e la fonia le
ho già studiate e poi conosco a menadito tutta la meccanica, date le
mie mansioni.”
“Certo, ma pilotare
è tutta un'altra cosa. Ci vuole il fegato, per pilotare. Bisogna
essere come il tenente Pankow.”
“Il nostro pilota ha detto che
quando c'è un po' di calma mi fa fare qualche volo con lui.”
Hans alzò lo sguardo
sull'idrovolante, aggrottò le sopracciglia e rispose: “Allora
voglio farlo anch'io.”
“Eh no, tu hai detto che non ti
interessa diventare pilota.”
“Non l'ho mai
detto!”
Mentre stavano discutendo, si
avvicinò una terza uniforme kaki. “Ciao, Michael,” disse Wendel
al nuovo arrivato.
“Il tenente vuole che tu vada
da lui,” annunciò questi per tutta risposta. “C'è da far
funzionare il coso.” Indicò la catapulta.
“Ma non ci pensano Möller e
Brandt di solito?”
“Dice che devi andare.”
Hans lo fissò diffidente. “Non
andrai a volare,
spero.”
“A volare?” intervenne
Michael. “Wendel va a volare?”
L'altro annuì. “Dice che il
tenente lo porta a fare un giro.”
“Cosa? Adesso? Allora voglio
andarci anch'io!”
“L'ho detto prima io.”
“Ma io non c'ero!”
“Insomma, basta!” esclamò
Wendel. “Possibile che dobbiate sempre fare i bambini?”
Gli altri due gli opposero un
silenzio risentito.
“Non vado a volare,” continuò
il primo. “Non lo so cosa voglia il tenente. Ha detto che devo
andare e io vado, d'accordo? Me lo dirà lui cosa vuole.”
“Allora veniamo anche noi,”
dichiarò Hans, con tono che non ammetteva repliche.
§
Il ronzio dei motorini elettrici
aumentò di un'ottava, la catapulta si girò lentamente verso il
mare. Il caporale Möller bloccò il movimento quando essa fu in
posizione, controllò l'inclinazione dello scivolo con l'apposita
manopola e aprì le valvole dell'aria compressa. Rivolse al moto
ondoso l'occhiata dell'esperto, quindi alzò un braccio in un segnale
positivo.
Da dentro la cabina, il tenente
rispose alzando a sua volta la mano, quindi si sporse dal finestrino
e gridò: “Elica!”
Subito dopo diede il contatto, il
motore partì e le pale si misero in movimento. In breve, la corrente
d'aria e il rumore furono così forti da impedire a tutti di parlare.
Möller alzò lo sguardo verso la cabina di pilotaggio, ci fu un
nuovo scambio di gesti.
Il caporale regolò a questo
punto l'inclinazione della rampa, controllò sul manometro che la
pressione dell'aria fosse corretta, quindi sollevò ancora la mano.
Il motore dell'aereo andò lentamente al massimo dei giri. Il
caporale annuì e premette il pulsante di sgancio.
Come una gigantesca fionda, la
catapulta lanciò l'idrovolante verso il mare aperto. L'aereo perse
qualche metro di quota, arrivando a sfiorare le onde con gli
scarponi, ma subito dopo si riprese, si rimise in assetto e
riguadagnò la quota perduta. Virò per mettersi in rotta e in breve
non fu che un puntino nero nel cielo.
Wendel si voltò verso i due
fratelli, che appoggiati al parapetto della piattaforma operativa
stavano ancora scrutando l'aereo che si allontanava, e in tono severo
disse: “E così, secondo voi dovevo andare a volare con il tenente?
C'era un contatto, ecco cosa c'era. Uno stupido contatto. E siccome
io sono il capo meccanico, ecco che il tenente mi ha chiamato per
sistemarlo prima di andare in volo.”
Gli altri due mugugnarono
qualcosa di inintelligibile.
“Che ne dite di: scusa,
Wendel, abbiamo sbagliato?”
propose il maggiore.
“Fanculo,” fu la risposta di
Hans.
“Non si dicono le parolacce,”
lo rampognò l'altro.
“Merda,” fu il contributo di
Michael.
“Ah, perfetto. Sentivamo
proprio il bisogno di un'osservazione intelligente.”
Hans a quel punto sollevò il
coperchio di una cassetta di servizio che si trovava accanto alla
centralina dei comandi e ne trasse una copia di Signal. “Guardate
qua!” esclamò.
Sulla copertina della rivista
c'era nientemeno che Peter Pankow, negligentemente appoggiato al
fianco di un idrovolante Arado. Il tenente portava il berretto sulle
ventitré come i divi del cinema e sulla fronte gli ricadeva un
irriverente ciuffo color carota. Gli occhi celesti avevano uno
sguardo brillante, furbetto, come di chi sta ridendo sotto i baffi
per qualche birbonata di cui nessuno si è ancora accorto. Sfida
agli Inglesi, recitava
una scritta rossa con tanto di punto esclamativo e sottolineatura.
“Eccolo,” sospirò Hans.
Fissò i presenti uno per uno e lentamente scandì: “Il tenente
Pankow è sopravvissuto all'abbattimento del suo aereo, si è
introdotto di nascosto in una base segreta inglese e dopo aspri
combattimenti ha recuperato un'arma segreta del Reich che era caduta
in mani nemiche.” Picchiettò un paio di volte l'indice sulla
copertina. “Qui c'è tutto, se non mi credete. Ci sono anche le
fotografie.”
“Ha fatto le fotografie della
base inglese?” chiese Möller in tono canzonatorio.
Intervenne a quel punto Michael:
“Se anche le avesse fatte – cosa che potrebbe benissimo essere
accaduta, visto che Peter Pankow sa fare tutto – di certo non le
metterebbero su Signal. Quella è roba GeKaDoS.”
“E che arma avrebbe
recuperato?”
“Non dicono nemmeno quello,
ovviamente. È GeKaDoS.”
Möller alzò le spalle
ostentando noncuranza. “Per me è un mare di balle,” sentenziò.
“Non è vero!” fu l'indignata
replica.
“Mah, GeKaDoS qui, GeKaDoS
là... secondo me si sono inventati tutto perché avevano un paio di
pagine da riempire.”
A quel punto, Hans gli rivolse
uno sguardo di degnazione e replicò: “Mi meraviglio di te. Peter
Pankow è famosissimo,
lo conoscono tutti, persino gli inglesi.”
§
In piedi davanti alla scrivania,
le grosse braccia allacciate dietro la schiena, il signor Soak
fissava il suo capitano.
Il comandante Hook sollevò lo
sguardo dalla carta nautica, e invece di fissarlo su di lui lo volse
verso gli oblò, dai quali si vedeva l'oceano blu scuro sormontato
dal cielo di un azzurro limpido. Emise un sospiro e disse: “Io ero
un eccellente pianista, signor Soak.”
“Certo, signore,” rispose
volenteroso il nostromo. Non che da quando conosceva Hook l'avesse
mai sentito produrre una sola nota, tuttavia sapeva che spesso gli
ufficiali facevano stranezze, e suonare strumenti musicali era una
delle più frequenti.
Hook abbassò lo sguardo sulla
propria manica sinistra, dalla quale spuntava un lustro uncino di
metallo, e in tono amaro soggiunse: “Sarebbe più esatto dire che
amavo
suonare, oppure che suonare era la mia stessa vita, ma quell'infame
moccioso teutonico non mi ha lasciato nemmeno la consolazione di
suonare Ravel.”
“Domando scusa, signore?”
“Il concerto per la mano
sinistra. Le dice nulla, signor Soak?”
“Ecco, veramente no, signore.”
Pensò che non fosse il caso di spiegare al capitano quale fosse il
suo personale concetto di concerto per la mano sinistra.
“Nossignore,” ripeté. Tossicchiò un paio di volte.
“Anche Prokofiev ne scrisse
uno,” disse il comandante, senza nemmeno fare caso al suo
imbarazzo. “Per Paul Wittgenstein.”
“Sissignore.”
“Il fratello del filosofo,”
precisò Hook.
Soak annuì con impegno. “Ah,
ma certo, signore,” rispose volenteroso. “Il fratello.”
Il comandante volse gli occhi
verso di lui, sollevò un sopracciglio e si lisciò i baffi. Tornò
alla scrivania. “Venga qui, nostromo,” ordinò poi.
Il sottufficiale fece un passo
avanti.
Con l'uncino, Hook agganciò la
maniglia di un cassetto e lo aprì. Ne trasse una rivista che posò
solennemente sul piano del mobile. Fissò serio il sottufficiale e
gli chiese: “Che ne pensa, signor Soak?”
L'altro si chinò sul periodico.
“È in tedesco, signore,” disse raddrizzandosi.
“Il suo spirito d’osservazione
è encomiabile, signor Soak.”
“Faccio del mio meglio,
signore.”
Hook indicò l'immagine di
copertina, che rappresentava un pilota dall'aria simpatica e un po'
sfrontata, col berretto sulle ventitré, in posa accanto a un
idrovolante. “Riconosce questa sottospecie di catamite, nostromo?”
Giunse pronta la risposta: “È
quello là, signore.”
Con minacciosa lentezza, Hook
sollevò l'uncino, che scintillò biecamente sotto le luci della
cabina. “Quello che mi ha fatto questo.”
“Sissignore.”
L'uncino calò a strappare in due
la copertina, di fatto decapitando lo sfrontato pilota dell'immagine.
Hook sorrise fra sé e sé, poi chiese: “Lo sa cosa dicono i
cinesi, signor Soak?”
“Veramente no, signore.”
“Dicono: siediti sulla riva del
fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo
nemico.”
Il nostromo ruppe la posizione di
riposo per grattarsi la testa, quindi perplesso chiese: “Signore,
ma non è in India il fiume dove buttano i cadaveri?”
In tono tagliente, il capitano
replicò: “Non sia sempre così concreto, signor Soak: nel
linguaggio parlato esistono anche similitudini e metafore. Intendevo
semplicemente dire che il Fato prima o poi colpisce anche chi ci ha
fatto un torto, pagandolo con la stessa moneta.” Si alzò in piedi
con un movimento elegante, di nuovo raggiunse l’oblò. Sotto la
luce che proveniva dall’esterno, l’uncino ebbe un luccichio
sinistro. Hook strinse gli occhi, le labbra gli si stirarono in un
sorrisetto minaccioso. “Io so
che ci incontreremo di nuovo,” confidò al nostromo.
Soak mantenne un cauto silenzio.
“Non ho fretta,” spiegò
allora il capitano. “So aspettare. Potrà succedere fra un mese,
fra un anno o fra dieci, ma so che succederà, e quel giorno...”
Con un balzo che fece sussultare il nostromo si avventò sulla
rivista e vi piantò di nuovo l’uncino, passandola da parte a
parte.
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