«Gesù santo!»
Le prime imprecazioni arrivano
dall’esterno dell’ospedale da campo. I soldati fischiano e si
spintonano per poter respirare da più vicino il dolce profumo
femminile di boccoli dorati.
Bucky sbadiglia annoiato e si
stropiccia la faccia nel palmo della mano. C’è un pigro interesse
nel guardare verso l’ingresso – di qualsiasi cosa si tratti, non
sarà una cura miracolosa che lo rimetterà in piedi all’istante. Gli
hanno spiegato che è stato già fin troppo fortunato, la pallottola
non ha reciso arterie, è entrata e uscita, come una sveltina nel
retro di un bar… almeno a detta di Dum Dum. Le proprie, di sveltine,
non le ricorda così dolorose; di certo una volta terminato non lo
hanno mai lasciato zoppo.
Quando il drappo all’ingresso si
solleva, la luce del pomeriggio penetra nella tenda ospedaliera e,
tra i riflessi dorati, si fa avanti un angelo.
C’è un'imbarazzante sincronia nel modo
in cui la mascella di ogni soldato di sesso maschile crolli in
terra. Sembra la scena di un film di Charlie Chaplin, Bucky riesce a
sentire la musica nella testa e quasi vede la scritta bianca
comparire sullo schermo nero, i vari “Gasp!” che l’apparizione ha
appena sollevato.
Per lui è solo una macchia dorata e
indistinta, seminascosta dagli infermieri, dalle flebo e da Jones
che stampella allarmato verso di lui. «Ma l’hai vista, Sergente?»
No, non l’ha vista – o avrebbe già
fatto sparire il ghignetto beffardo che gli nasce spontaneo ai
saltelli dell’afroamericano. «Chiunque sia, dille che mi ha appena
risollevato la giornata.» ridacchia, ma quella che era una macchia
dorata, inizia pian piano a prendere forma.
Non che ci dia particolare bado
quando, accanto a lei, spicca Steve; come in una fotografia, tutto
quello che si trova intorno al Capitano perde d’importanza, per
lasciare lui come unico punto focale.
Bucky sorride allegro e sbandiera un
braccio. Il dolore alla gamba svanisce proporzionalmente
all’avvicinarsi dell’amico. Lo guarda avanzare in quel nuovo corpo a
cui non si è ancora del tutto abituato; gli ci vuole qualche secondo
per ritrovare al suo interno il suo Steve, ma quando lo fa la
meraviglia gli toglie il fiato.
Non fallisce mai nel trovarlo: negli
occhi che lo guardano gentili, nelle espressioni che ha imparato a
memoria e nel sorriso. Anche se ora quello di Steve è un sorriso
mesto, sospettosamente imbarazzato, mentre gli indica la macchia
dorata al proprio fianco. Ha preso forma. Bucky la guarda, sbatte
gli occhi e crede di aver preso un abbaglio.
Jones agita braccia e stampelle.
Da fuori, Dum Dum urla di essere stato
ferito anche lui in combattimento, ma gli infermieri lo bloccano
prima che possa avventurarsi nella tenda, dietro la scia dell’angelo.
«Si tratta di lui?» L’angelo che ha
appena parlato si rivolge a Steve e indica Bucky, con un cenno
aggraziato della mano.
«Sì, è l’amico di cui ti ho parlato:
il Sergente Barnes.»
Bucky guarda Steve. Guarda Jones.
Guarda l’angelo. E la sua mascella prende ispirazione da quelle di
tutti gli altri soldati: si anima di vita propria e decide di
srotolarsi fino ai piedi della donna più bella che abbia mai visto,
senza che lui possa farci niente.
«Mar… mar… Marlene Dietrich… l’a… l’a…
l’attrice Marlene Dietrich?!» la domanda esce di un’ottava troppo
alta e Bucky si sbatte le mani alla bocca, impallidito. Un tempo era
più bravo in queste cose, a parlare per esempio.
L’attrice nasconde dietro la mano un
sorriso a labbra rosse e risplende.
Bucky ridacchia nervoso. Dimentica
come si flirta con una donna, la fissa inebetito e ogni neurone del
proprio cervello è impegnato a ricordargli di respirare, perché il
rischio di iperventilazione è praticamente dietro l’angolo.
Marlene gli si avvicina.
«Piacere di conoscerla Sergente
Barnes, il Capitano mi ha raccontato tanto di lei ed ero curiosa di
incontrarla.» parla con voce vellutata e un accento tedesco che danza
sulla punta di parole americane.
Per un attimo, un solo brevissimo
istante, Bucky si fa rigido, scatta con le spalle indietro e allunga
le dita verso l’esterno del letto. Steve è l’unico a notarlo,
segue la donna, la supera e si sistema al fianco del letto del Sergente;
basta la sua presenza perché Bucky si tranquillizzi e torni a
rilassare il proprio corpo. È al sicuro, nessun dottore dagli
occhi porcini è venuto a prenderlo. È al sicuro.
Quando riprende controllo dei propri
muscoli facciali, strofina la mano tra le lenzuola e la tende
all’attrice che la stringe. «Le assicuro che il piacere è tutto mio
Miss Dietrich. Sono un suo grande ammiratore.»
Da qualche metro più in là, Jones sta
ancora agitando la stampella. «Poche ciance Sarge, siamo
tutti suoi ammiratori! Chiedile piuttosto un autografo, una foto, un
bacio!»
Marlene ride.
Bucky scuote il capo fingendo di non
conoscerlo.
Steve, invece, aggrotta la fronte,
fissando il profilo dell’amico a labbra stirate, assalito da una
stretta allo stomaco che si fa più insistente quando Bucky torna a
sorridere a Marlene e i suoi occhi si ricolorano di un azzurro
splendente.
«Come mai si trova in questo campo,
Miss Dietrich?» le chiede. Si piega col busto in avanti e appoggia
le mani al materasso, mantenendosi in equilibrio.
L’attrice indica Steve. «Ero in tour
in Europa, sto visitando i campi militari perché desidero
ringraziare di persona i nostri soldati per il loro servizio e la
loro devozione. E quando il Capitano Rogers l’ha saputo mi ha
chiesto di venire qui.»
Bucky pianta un’occhiata sbalordita
sull’amico. «TU conoscevi Marlene Dietrich?!»
Steve scrolla le spalle. «Ci siamo
incontrati quando…» il resto è un farfugliare a bassa voce. Si
vergogna a riportare alla luce il periodo da scimmia ammaestrata,
gli spettacoli, i lustrini e le canzoncine idiote.
Marlene giunge in suo soccorso.
«Quando Captain America ti reclama a sé, non puoi dire di no.»
«No. Suppongo di no.» ribatte Bucky,
nell’espressione pensosa cerca di ricalibrare il moto d’orgoglio che
lo ha assalito. Steve, il suo piccolo adorato scheletrico Steve, ora
viene seguito e ascoltato perfino dalle dive di Hollywood.
- - -
È già sera quando Marlene Dietrich
lascia il campo.
Bucky ha un sorriso sognante a
trentadue denti stampato sulla faccia. Sul piccolo mobiletto accanto
alla branda, la prima pagina del proprio taccuino sfoggia
vittoriosal’autografo dell’attrice e una dedica. Al Sergente
Barnes; grazie per il tuo coraggio. Marlene.
Steve ritorna qualche ora più tardi,
durante la notte.
Si muove in silenzio, superando
brandine e infermieri assonnati che muovono deboli saluti militari
al suo passaggio.
Un ripetersi di «Riposo soldato» è
quanto lo precede, prima di raggiungere Bucky e sistemare il piccolo
separé, che è tutto quello che possono sperare per avere una
parvenza di privacy.
Il sergente è sdraiato a pancia in su,
la testa poggiata sull’incrocio delle braccia. Ruota il capo a
guardarlo.
Le luci della tenda giocano con i
riflessi biondi dei capelli di Steve e fanno luccicare l’azzurro dei
suoi occhi quando li incrocia con quelli dell’amico. Il Capitano si
morde le labbra, vorrebbe poter dire qualcosa, ma alla fine
rinuncia, afferra una seggiola e prende posto accanto al letto.
«Quindi~» fin da subito il tono di
Bucky è chiaramente allusivo «Tu e Marlene Dietrich, eh? E il
Tenente Carter lo sa o è un caso che sia passata proprio mentre lei
è stata richiamata a Washington?»
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«Potrei spiegartelo, ma dovresti farti
più vicino.»
Steve studia lo sguardo di Bucky. È
serio, concentrato, come quando d’inverno cercava di convincerlo ad
accettare il proprio giaccone, nella via di ritorno da scuola.
Concentrato come il giorno in cui si è presentato nella sua tenda e
gli ha chiesto se tra lui e la Carter ci fosse del tenero.
Sposta la sedia contro il letto.
«Più vicino.»
Abbandona la sedia e prende posto sul
bordo del materasso.
«Più vicino.»
«Buck…»
«Più vicino» insiste.
Steve sospira, ma alla fine cede.
Non è la prima volta che condividono
un letto, è la prima volta che lo fanno da quando lui è in quel
corpo e nessuno dei due ha mai pensato che non sarebbe più stato
come prima.
Steve si sente ridicolo, cerca di
farsi piccolo in quella massa di muscoli guizzanti che occupa quasi
più della metà della branda e Bucky ride sottovoce, cercando di non
svegliare nessuno – sanno già entrambi che Steve dovrà andarsene
prima dell’alba, prima che qualcuno li veda. Si aggrappa al braccio
di Steve per non rotolare giù dalla branda e solleva la gamba
fasciata sopra quelle del biondo, incastrando la caviglia tra le
sue.
Gli sguardi si mescolano e nessuno dei
due sa dove il proprio respiro finisca e dove invece inizi quello
dell’altro.
«Contento ora?» Borbotta Steve.
«Mai stato più contento.»
«Eccetto per l’autografo di Marlene.»
Bucky si abbevera della gelosia di
Steve; quasi potesse sentirsela gocciolare sulle labbra, vi passa
sopra la lingua e nemmeno per un attimo i suoi occhi abbandonano
quelli del biondo. «A proposito di Marlene Dietrich, le hai chiesto
di venire in questo campo per tirarmi su il morale?»
«So che è una delle tue attrici
preferite…»
«È una delle attrici preferite di
chiunque abbia degli occhi, Steve.»
«Sì, sì, lo so, li ho anche io gli
occhi.»
«E sai anche che la trovo bella come
un angelo…» Bucky sfiora la guancia di Steve con una mano, il tocco
leggero che gli scosta una ciocca bionda dal viso e la usa come
scusa per passargli le dita tra i capelli. Lo sente rigido, le
labbra serrate a trattenere il fiato e gli occhi che lo scrutano in
attesa del resto della frase, come se potesse liberarlo
dall’incantesimo in cui è finito. «Ma non sarà mai bella quanto te?»
E l’incanto si spezza, Steve torna a
respirare e a capo chino, sottovoce, bisbiglia un insulto impastato
di imbarazzo. Bucky ride, può aver acquisito la massa muscolare di
un carro armato e l’altezza di un lampione in una sola giornata, ma
quello che Rogers ha dentro è rimasto identico, immutato.
«Comunque qualsiasi sia il motivo per
cui l’hai fatto…» Il silenzio si mangia le ultime parole.
Steve guarda la bocca di Bucky
muoversi, uno strano rossore farsi largo sulle gote, il suo fiato
sfilargli in faccia senza suono. Quando piega la testa in avanti,
per poter strappare parole al silenzio, il Sergente lo assalta con
l’agilità di un gatto, la furbizia di una volpe e l’indulgenza di un
bacio.
Il «grazie» di Bucky è un sussurro
perso tra le labbra e quando Steve ricambia timidamente il bacio,
non c’è nulla di più perfetto di quel momento. Nemmeno l’autografo
di una delle più grandi star del mondo del cinema. |