Cambia o muori, ricordi?

di Nina Ninetta
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Cambia o muori, ricordi?
 


Prologo
 
Ad Annalucia Nobile piacevano tanto i viaggi lunghi, di quelli che attraversi tutta la Penisola e perciò richiedono soste in autogrill, dove il caffè è quasi sempre bruciato ma le sigarette hanno tutto un altro sapore. Le piaceva incontrare di sfuggita gli sguardi delle persone, fantasticare sulle loro vite.
Che lavoro facevano?
Quale indicibile segreto si trascinavano dietro?
Ma quel viaggio sarebbe stato il più terribile della sua esistenza, senza soste, senza musica, con un mozzicone di sigaretta che si consumava fuori al finestrino.
La Fiat Regata viaggiava a velocità sostenuta ma stabile. I tergicristalli tentavano di eliminare la pioggia che cadeva dal cielo scuro, senza troppo successo. Eppure non c’era tempo, non potevano aspettare che la tempesta passasse, perché vi erano dentro, fino al collo. E non ne sarebbero usciti presto. Probabilmente non ne sarebbero usciti più.
Annalucia osservò gli occhi di suo marito nello specchietto retrovisore. Erano di un castano scuro, senza riflessi, attenti alla strada e con la mente chissà dove. Aveva sopracciglia folte e tanti, tanti capelli che talvolta si acconciava all’indietro con la mano quando ricadevano sulla fronte. Giuseppe teneva entrambe le mani sul volante, di tanto in tanto quella destra correva ai baffi, come se volesse accettarsi che fossero ancora lì. Annalucia li odiava, quando la baciava o facevano l’amore erano oltremodo fastidiosi, tuttavia non riusciva più a immaginarselo senza. Era stato lui a rispondere al telefono. Si erano appena seduti a cena, il telegiornale regionale stava dando l’ennesima notizia di una baby gang che aveva derubato una salumeria la notte precedente, nel quartiere di Forcella. Quando il telefono aveva preso a trillare lui si era alzato, mentre lei aveva continuato ad ascoltare le notizie in TV, chiedendosi dove sarebbero andati a finire di quel passo: ragazzini che giocano a fare i camorristi. Suo marito era tornato poco dopo, bianco come un lenzuolo. L’aveva guardata biascicando due parole, poi aveva detto che doveva andare.
«Andare dove?» aveva chiesto Annalucia.
«Da Rosa» era stata la risposta, mentre cercava di infilarsi il piede sinistro nella scarpa destra. Mezz’ora più tardi stavano prendendo la A1 con il riscaldamento dell’auto acceso, i suoceri a bordo e le scarpe messe nel modo corretto.
Stando al racconto di Assunta, la mamma di Giuseppe, il maresciallo Pontini della caserma dei carabinieri di Vercelli, le aveva telefonato per informarla che sua figlia Rosa Iodice e il coniuge Alberto Quaglia – tra l’altro suo collega – avevano avuto un incidente. Sì, il piccolo Samuele di tre mesi era a bordo dell’autovettura. Erano tutti stabili, ma sarebbe stato il caso che qualcuno della famiglia salisse a occuparsene. Quando Assunta gli aveva fatto notare che ci avrebbero impiegato tutta la notte, il maresciallo le aveva risposto:
«Noi siamo qui signora, non andremo via.»
«Può passarmi mia figlia, gentilmente?» aveva chiesto Assunta.
«Adesso no» era stata la risposta categorica.
«Mio genero allora. Grazie.»
«Neanche.»
Adesso la donna, sposata da quarant’anni con Franco, era certa che la situazione fosse più grave di quello che il Pontini aveva voluto lasciar credere. Suo marito continuava a urlarle di smetterla di portare iella, sembrava un gufo del malaugurio.
«Certe cose le mamme se le sentono!» Fu la risposta di Assunta che passò l’intero viaggio a recitare il Rosario e invocando San Gennaro affinché assistesse la sua bambina e suo nipote. Evidentemente dimentica del povero genero.
Annalucia, seduta al suo canto sui sedili posteriori dell’auto, la osservava di sottecchi. I capelli dipinti di rosso, tendenti all’arancio, cotonati che manco Mina ai tempi migliori; le dita martoriate dall’artrite stringevano a fatica la corona, gli occhi chiusi e quel ronzio in sottofondo che usciva dalle labbra era una delle cose più fastidiose alla quali la ragazza avesse mai assistito. Considerando il fatto che insegnava in un liceo artistico di Fuori Grotta, la diceva lunga su quanto quella donna la stesse irritando. Annalucia si chiese se sua suocera avesse pregato anche per lei o solo per suo figlio in caso di incidente stradale. Temeva di conoscere la risposta. Assunta era un ex infermiera di rianimazione ormai in pensione. Più volte aveva scherzato su questa cosa con Giuseppe:
«I pazienti di tua madre preferirebbero morire piuttosto che farsi curare da lei». Annalucia rideva sempre a crepapelle a quella battuta. Giuseppe un po’ meno.
Improvvisamente un getto di aria fresca la colpì in viso come uno schiaffo. Suo suocero Franco, seduto vicino al conducente, aveva tirato giù il finestrino per fumare. Annalucia l’aveva sempre considerato un uomo frustrato, troppo inetto e debole per far fronte alle disgrazie della vita. Prima fra tutte sua moglie. Quando si erano sposati erano entrambi in età avanzata e poiché Franco racimolava qualche spicciolo ridipingendo appartamenti e Assunta era infermiera al Cardarelli, lei aveva deciso che sarebbe stato lui a occuparsi dei figli. Franco era cieco all’occhio sinistro per colpa della cataratta e vedeva sempre meno da quello destro; i capelli bianchi sembravano una nuvola soffice e la sua espressione bonaria spesso le ricordava quella di Giuseppe.
Sua moglie urlò di chiudere il finestrino, non aveva intenzione di prendersi una polmonite.
Anche Annalucia aveva voglia di fumare. Era stato il viaggio più lungo, difficile e stressante della sua vita e forse sarebbe rimasto tale. Non aveva idea di cosa aspettarsi una volta giunti a San Germano Vercellese, un piccolo paese in provincia di Vercelli, dove Rosa e Alberto vivevano da quasi due anni. Avevano comprato e ristrutturato una bella villetta con tanto di garage e Annalucia c’era stata solo una volta, quando tre mesi prima era nato Samuele. Era una zona tranquilla, ognuno si faceva i fatti propri e nessuno chiedeva a chi fossi figlio o cosa facessi nella vita per vivere. Era un paesino con pochi abitanti e alle 21:00 le strade erano già vuote, eppure non faceva paura uscire a buttare la spazzatura. Non c’erano venditori di sigarette di contrabbando agli angoli delle strade o ambulanti ai semafori, né tantomeno baby gang che sfrecciavano in tre sul motorino, rigorosamente senza casco.
«Perché non ve ne venite anche voi qui?» Le aveva proposto Rosa mentre erano in cucina e si apprestava ad allattare al seno il piccolo Samuele. Annalucia era una donna grande e vaccinata di trentatré anni, aveva visto altri seni e altre mamme allattare, ciò nonostante la visione dei capezzoli post parto le aveva sempre fatto una certa impressione. Aveva distolto lo sguardo per osservare fuori dalla finestra la strada deserta e le case tutte uguali. Rosa aveva proseguito:
«Fate domanda per l’insegnamento a Vercelli, sicuramente non avrete problemi a trovare una scuola. Sempre meglio che stare a contatto con quei guappi».
Annalucia allora aveva pensato ai suoi alunni. Solo Dio sapeva quanto fosse difficile insegnare a degli adolescenti di Napoli durante quegli anni, quando capitava di trovarsi il nome di uno di loro sui giornali di cronaca, arrestati per spaccio, rissa o rapina a mano armata. Ma erano i suoi ragazzi… fra tutti pensò ad Andrea De Simone, un ragazzo di diciannove anni che stava ripetendo il quarto superiore per la seconda volta e forse l’avrebbe ripetuto all’infinito.
«Potreste stare qui da noi fin quando non trovate una sistemazione decente.»
«Senza offesa, ma nella mia concezione di vita una città senza mare non è neppure una città». Era stata la sua risposta.

 

 
 
Il maresciallo Pontini li stava attendendo con altri due carabinieri in borghese all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale Sant’Andrea di Vercelli. Non ebbe neanche bisogno delle presentazioni ufficiali per capire che fossero i parenti meridionali di Alberto Quaglia. Avevano l’aria frastornata e un corno rosso come portachiavi.
Annalucia avrebbe ricordato per sempre il freddo che provò quella sera. Una sensazione di gelo che neanche un camino sarebbe stato in grado di sciogliere. Era come se le si fosse gelato il sangue nelle vene. Un’espressione che aveva letto e sentito più volte, ma che mai avrebbe creduto di provare personalmente.
Pontini li precedette in ascensore pigiando il tasto -1. Assunta iniziò a piangere e urlare e strapparsi i capelli, chinandosi sulle ginocchia.
«Rooosaaa… la mia bambina… noooo!».
Il maresciallo non tentò neppure di rincuorarla, illuderla ulteriormente sarebbe stato meschino.
Le porte dell’ascensore si aprirono e un’aria ancor più gelida li investì come un tir. Le grida di Assunta riecheggiarono nell’obitorio simili a bombe in un paese abbandonato. Il medico di turno provò a spiegare che non c’era stato nulla da fare. Rosa Iodice, di anni 33, era morta sul colpo, nell’impatto il collo si era spezzato. Alberto Quaglia, di anni 34, carabiniere e collega di Pontini, era arrivato in ospedale privo di sensi ma ancora vivo. Purtroppo i chirurghi non erano riusciti a fermare l’emorragia interna. Il dottore si rivolse a Giuseppe e Annalucia, gli unici che sembravano possedere ancora un briciolo di lucidità.
«E…» Giuseppe si passò una mano sul viso e tra i folti capelli. «E Samuele. Cioè, voglio dire, il loro bambino… anche lui è…?».
Annalucia non riusciva a smettere di fissare i piedi di Alberto che fuoriuscivano dal lenzuolo bianco. Erano grandi e cinerei, ma curati. Le unghie cominciavano già a scurirsi. Non aveva mai fatto caso a quanto fossero grandi i suoi piedi, ciò significava che era anche alto, sebbene non avesse mai notato quel particolare.
Era davvero così alto Alberto?
«È miracolosamente vivo» disse il medico, finalmente sollevato di poter dare una buona notizia.
In lontananza risuonarono le campane della chiesa: era appena scoccata la mezzanotte del 25 dicembre 1989.
 
 
 
Capitolo 1
 
La casa di Rosa e Alberto era ordinata, se si fa eccezione per gli asciugamani gettati nella vasca. Erano ancora umidi dopo la doccia, forse Rosa aveva intenzione di lavarli una volta tornata a casa. O magari lasciarli ad asciugare sui termosifoni. L’albero di Natale troneggiava nell’angolo a sinistra, all’ingresso della casa. Le decorazioni erano di vari colori, il puntale di un blu elettrico. Il presepe invece ricopriva l’intero ripiano del mobile in salotto. Da un mondo lontano cominciavano a riecheggiare i primi fuochi d’artificio che salutavano l’anno vecchio e si preparavano ad accogliere quello nuovo. Non sarebbe stato un anno qualunque, era l’inizio di un nuovo decennio nonché l’ultimo dell’intero secolo.
Annalucia guardò distrattamente l’orologio appeso alla parete. Tra meno di un’ora avrebbero festeggiato il 1990. Ma non loro. Loro non avrebbero mai più festeggiato il Capodanno.
«Solo neve» sospirò Franco guardando fuori dalla finestra. «Neve ovunque.»
Dopo i funerali dei coniugi Quaglia erano rimasti a San Germano Vercellese per sbrigare le ultime pratiche, mettere la casa in vendita e soprattutto per portare giù con loro il piccolo Samuele.
Dalla camera da letto i vagiti del neonato ruppero il silenzio degli adulti. Assunta fece per alzarsi dal divano, sembrava invecchiata di dieci anni. I capelli bianchi iniziavano a fare capolino fra i rossi e senza le sue creme miracolose le rughe parevano aumentate. Annalucia la precedette, dicendole di stare comoda. Raggiunse la stanza in fondo al corridoio e trovò il piccolo Samuele a dimenarsi nella carrozzina. Afferrò i manici e iniziò a cullarlo senza prenderlo in braccio. La luce soffusa dell’abat jour disegnava strane ombre sul muro, in particolare la ragnatela in ferro battuto, appesa alla parete a mo’ di quadro, pareva prendere vita. Aveva sempre odiato quell’oggetto senza significato o un’utilità apparente. Ma Rosa lo adorava, diceva che teneva lontano il malocchio. Samuele si lamentò ancora.
«Hai ragione piccolino» disse Annalucia. «Queste ombre farebbero spavento anche a me.» Continuò a guardarsi attorno. Quelle immagini indefinite e scure le ricordavano i quadri di Friedrich nel suo periodo più difficile. Di nuovo pensò al suo alunno ripetente, Andrea De Simone, e al suo feeling con quell’artista.
«Professorèss, ma quello è morto di depressione» le disse una volta, quando gli fece notare che lui era come Friedrich.
«Ti sbagli. Lui ha fatto della sua malattia la propria arte. E tu sei troppo intelligente per finire ogni due e tre in riformatorio.»
Pensò a lui e ai suoi allievi. Ora la scuola era chiusa per le vacanze natalizie, ma quando sarebbe tornata la sua vita sarebbe stata diversa. Qualcosa in lei si era spezzato in quei giorni, sebbene non avesse mai avuto un rapporto idilliaco con la cognata, troppo diverse per andare oltre l’educazione e il rispetto tipico dei parenti, la sua morte l’aveva sconvolta. Tornò in salotto con la carrozzina, Samuele pareva essersi riaddormentato.
Intanto il boato dei fuochi si faceva più intenso. Tra poco sarebbe scoccata la mezzanotte. Annalucia pensò a una Napoli in festa, le canzoni di Pino Daniele nei locali, le battute di Massimo Troisi sulle bocche di tutti, le tavole imbandite di struffoli e canditi, le case calde e le finestre del Vomero illuminate dalle luminarie. I piatti vecchi sarebbero volati dai balconi, con il sogno nel cuore di vedere il Napoli di Maradona festeggiare lo scudetto a fine campionato. I deficienti che brilli avrebbero sparato colpi di pistola, ferendo qualche mal capitato. Perché in fondo Napoli era questa: due facce di una stessa medaglia. Il bianco e il nero. Il buono e il cattivo. La legalità contro la camorra. Una bellezza mozzafiato di una città contro la bruttezza della società.
«Mi sento sollevata a pensare che quest’anima pia verrà cresciuta da voi» la frase di Assunta irruppe nei pensieri di Annalucia come una lama infilzata nell’addome. Guardò suo marito Giuseppe sprofondato nella poltrona che era stata di Alberto. Lui non si scomodò neppure a ricambiare l’occhiata, teneva la testa china e una mano a sorreggerla.
«Co-cosa? Oh no no, avete capito male.» Adesso era lei, l’insegnante di storia dell’arte, a trovarsi in evidente imbarazzo. «Noi non adotteremo Samuele. Lo farete voi. Siete i nonni. La nonna paterna è morta, il nonno è rinchiuso in una clinica privata. Dovete farlo voi.»
Assunta guardò suo marito, abbozzando un sorrisetto nervoso. Giuseppe continuò a far finta di nulla.
«Noi siamo anziani, ammesso che il giudice ce lo permettesse, non avremmo la salute necessaria per crescerlo.» Si giustificò Assunta.
«Non mi interessa. Noi non lo possiamo tenere. Per qualche giorno forse, poi dovremmo trovare una soluzione definitiva.» Senza neanche rendersene conto Annalucia si era allontanata dalla carrozzina.
«Una soluzione definitiva» finalmente Giuseppe era intervenuto nella conversazione, ma non come sua moglie aveva sperato. «Sono davvero curioso di sentire quale sia la tua soluzione definitiva, davvero. Lo mandiamo in orfanotrofio? Lasciamo che siano due estranei a crescerlo? Lo lasciamo davanti a un parrocchia? Lo soffochiamo?» Annalucia avrebbe voluto fermarlo prima che arrivasse a tanto, ma Giuseppe pareva impossessato. Poche volte lo aveva visto così infuriato e mai con lei. «No, ti prego, illuminaci. Quale sarebbe la tua soluzione definitiva? Perché per me l’unica possibile è quella che un figlio debba crescere con i propri genitori, ma ahimé! La mamma è sottoterra e io non conosco altro modo di onorare la sua memoria se non prendendomi cura di suo figlio.»
Il botto di un fuoco d’artificio annunciò l’arrivo del nuovo anno. Si susseguirono altri schianti, qualcuno più vicino, altri più lontani. Attraverso i drappeggi delle tende si potevano scorgere le luci e i colori che si accendevano a intermittenza. Annalucia dovette alzare il tono di voce per farsi sentire.
«Ne abbiamo già parlato, noi non vogliamo figli.»
«TU non vuoi figli, Luce! Io ero d’accordo solo perché volevi così e per la storia dei diritti delle donne e cazzate varie. Ma Samuele non è nostro figlio, tu non sarai mai sua madre, tranquilla, puoi tenerti il tuo ventre arido.»
«Adesso sei sleale! Non puoi obbligarmi ad adottare questo bambino, io non lo voglio!»
«La decisione è presa. Punto.» Giuseppe tornò a sorreggersi la fronte con la mano e a socchiudere gli occhi.
«Ci sono altre alternative, dovremmo solo rifletterci sopra. Io davvero non voglio avere un bambino nella mia vita. Dovrebbe stare con genitori che lo desiderino e che gli vogliano bene come a un figlio proprio.»
«Ma sei un’insegnante, hai a che fare con i bambini tutti i giorni, perché non ne vuoi?» La voce di Franco fu appena percettibile, sovrastata dal frastuono che veniva da fuori.
«Io non insegno a dei bambini. Sono tutti adolescenti i miei alunni.» Pensò ad Andrea De Simone. «Qualcuno anche maggiorenne.»
«Ribadisco: Samuele verrà con noi. La decisione è presa.» Sentenziò Giuseppe.
«E io ti ripeto che non lo voglio. Sono tua moglie, non puoi decidere da solo!».
Lui alzò di nuovo lo sguardo, il castano degli occhi sembrava ancora più scuro.
«Allora sei libera di andartene».
«Il divorzio? È questo che vuoi?» Annalucia, o Luce come la chiamava suo marito, provava un vortice di emozioni. Una vocina in fondo alla sua testa le diceva di andarsene davvero, di lasciarlo e di cercarsi un appartamentino a Fuori Grotta, adiacente all’istituto in cui insegnava. Se lo stipendio non fosse bastato, poteva sempre dare ripetizioni a pagamento di italiano. Purtroppo non aveva mai avuto dimestichezza con le materie scientifiche, in quello eccelleva suo marito che a soli trent’anni era riuscito a vincere il concorso nazionale per la cattedra di Matematica 1 alla Federico II. Sapeva anche che i matematici sono persone rigide, non aperte al cambiamento, il loro cervello è programmato per ragionare in termini di numeri e statistiche, seguono un ragionamento fatto di formule fisse. Vedono tutto solo bianco o solo nero, mentre lei scorgeva le sfumature.
Un’altra vocina le suggeriva invece di stare calma e di non fare o dire idiozie di cui si sarebbe potuta pentire una volta tornata a casa. Ecco cosa doveva fare: temporeggiare e riprendere il discorso fra mura famigliari, con il mare sullo sfondo e lontani da orecchie indiscrete.
«Sono stanco di parlarne» fu la risposta di Giuseppe che di nuovo tornò a puntellarsi la fronte, le palpebre abbassate e una crisi isterica dietro l’angolo.
 
Annalucia tornò nella camera da letto, con la penombra e i ghirigori macabri sulle pareti. Si sdraiò sul letto a fissare il soffitto. Quale razza di donna infame avrebbe avuto il coraggio di abbandonare il nipote di suo marito in mani sconosciute? Chi donna senza cuore sarebbe stata capace di dire no a un orfanello di soli tre mesi? Eppure non riusciva a desiderarlo, non riusciva a sciogliersi o emozionarsi al pensiero di portarlo a casa con sé e crescerlo e accudirlo come un figlio proprio. Aveva la possibilità di avere un bebè senza neanche soffrire le pene del parto o il sacrificio della gravidanza. Eppure non lo voleva. Non le piacevano i bambini. Non aveva mai provato il desiderio di diventare mamma. Si era sentita diversa quando era più giovane. Sbagliata. Si era chiesta se qualcosa in lei non andasse. Poi era diventata una donna e aveva scoperto di non essere la sola. Altre condividevano la sua stessa idea, il suo stesso non-richiamo alla maternità e aveva anche trovato un uomo che rispettasse il proprio volere. Fino a quel momento, certo. Fin quando la sorella non si era spiaccicata contro un tronco secolare. Decise che parlarne adesso, circondati dai ricordi di Rosa e Alberto, non avrebbe fatto ragionare Giuseppe, perciò doveva tenere duro fino al ritorno a Napoli.
I botti dei fuochi d’artificio andavano scemando, ormai non si distinguevano quasi più. Annalucia chiuse gli occhi e si addormentò.
Il 1990 era appena iniziato.




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