Meant to Be

di mido_ri
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Capitolo Quinto

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Alla fine mia madre mi aveva scoperto e aveva cominciato a pensare che ci fosse qualcosa che mi spingeva a non voler andare a scuola: era convinta che qualcuno mi avesse fatto qualcosa e a quanto pareva era inutile ripeterle che lì in mezzo non mi considerava nessuno. Naturalmente non le avevo detto che Alaric era stato tutta la giornata con me, altrimenti sarebbe impazzita. Dopo una lunga discussione durata tutta la cena, me la cavai con la scusa che non ero riuscito a fare i compiti e non me la sentivo di fare una brutta figura con i professori. A dire la verità non li facevo quasi mai, ma non ero ancora stato beccato.

Quella sera andai a letto più presto del solito perché non volevo che Alaric si svegliasse nel bel mezzo della notte a causa mia. Non avevo mai avuto un amico, perciò non sapevo bene come avrei dovuto comportarmi, ma sentivo che quella era la cosa giusta da fare.
Purtroppo però, esattamente come mi aspettavo, non riuscivo a prendere sonno e fu alquanto difficile rinunciare più volte all'impulso di accendere il cellulare o il computer. Proprio quando il corpo stava per cedere, una voce familiare rimbombò nella mia testa.

"Sì."

"Sì... cosa?"

"Sono felice."

"Oh... quindi oggi mentre stavi andando via mi hai sentito?"

"Ti sento più spesso di quanto immagini."

Cambiai posizione e appoggiai un lato del viso sul cuscino.

"Allora devo stare più attento a quello che penso."

"Già... La prima volta che ci siamo visti hai creduto che fossi basso."

Trattenni una risata mordendomi il labbro inferiore.

"Avrai sentito i pensieri di qualcun altro..."

"Al..."

"Sarà perché eri seduto. Io invece non ho sentito un bel niente, perché?"

Ci fu una pausa.

"Semplicemente... perché non volevo che tu lo facessi."

"Mi stai dicendo che riesci a non farmi sentire i tuoi pensieri?"

"Non sempre, neanche io ho ben capito come si faccia... ci riesco e basta."

Annuii e mi rimisi di nuovo a pancia in su, con braccia aperte e gambe divaricate.

"Perché non vuoi?"

Un'altra pausa.

"Sarebbe strano, non credi?"

"Sarà."

Chiusi gli occhi e mi concentrai. Non sapevo neanche io cosa stessi cercando di fare di preciso, ma mi stavo sforzando parecchio.

"Al, ti sei offeso?"

"Al...?"

"Hey?"

"Uhm... si sarà addormentato."

"Sono qui."

"Ah."

"Ci sono riuscito anche io, visto?"

"Non farlo mai più."

Avrei scommesso che aveva messo su il broncio, anche se non potevo vederlo.

"Perché? Anche io ho bisogno di un po' di privacy, sai?"

"Se proprio devi..."

Ridacchiai, ma un dolore improvviso alla testa segnalò che il limite era vicino; presto ci saremmo stancati entrambi.

"Vorresti sapere tutto quello che faccio?"

"Non è questo. Sai che non parlo molto con le altre persone, anzi, tu sei il mio unico amico, quindi mi fa piacere sentire la tua presenza."

"Ti fa piacere? Al, non sminuire i tuoi sentimenti."

"Che intendi?"

Percepivo un enorme peso sullo stomaco, di cui però non ero minimamente intenzionato a liberarmi. Era da un po' che rimuginavo su quel pensiero, ma non potevo prevedere le conseguenze nel caso in cui ne avessi parlato con Alaric.

"Nulla. Soltanto... non farlo. Ora vado, buonanotte."

La mia testa minacciava di scoppiare come un palloncino al limite della sua capacità, potevo davvero sentire le vene pulsare con forza.

"D'accordo. Ci vediamo domani, 'notte."

Sospirai e mi tolsi le lenzuola di dosso con un debole calcio. Di dormire non se ne parlava proprio e qualcosa mi diceva che quella notte neanche Alaric ci sarebbe riuscito. Il mio cervello era attivo e carico di pensieri, così tanto da non poter escludere una connessione con l'altro; in ogni caso sperai che fosse preso dalle sue riflessioni e che non badasse alle mie.

In tutti quegli anni avevo creduto di soffrire per il semplice fatto di non avere amici. Certo, non è cosa da poco starsene da soli a quell'età, specialmente in una città piena di adolescenti in cerca di distrazioni dalla scuola, unica colonna posta lì per sorreggere e alimentare le loro monotone vite, ma non è questo il punto. Per tanto tempo mi era sembrato di vivere come un escluso, rifiutato da quella banda di ragazzi annoiati, ma la verità era che anch'io facevo parte, pur non volendo, di quella cerchia; anch'io ero una persona tremendamente annoiata e, come tale, non mi andava affatto di unirmi ad altre persone ugualmente annoiate, in modo da dare ancora più peso alla mia interminabile noia. Insomma, non è che nessuno mi volesse, ero io a non volere nessuno. 
Più che chiedermi perché non avessi amici, però, dall'inizio del liceo avevo occupato il mio tempo chiedendomi se, una volta diventato adulto, quell'orribile periodo avrebbe visto la sua fine. Dopo essermi arrovellato il cervello per minuti infiniti, giungevo sempre alla stessa conclusione: con ogni probabilità la risposta era no, ma ci avevo già fatto l'abitudine.

Riassunto di questa strana e confusa accozzaglia di pensieri: non c'era motivo per cui essere così triste, dunque quell'opprimente, inquietante e indistruttibile tristezza non era la mia, ma apparteneva ad Alaric ed era talmente grande da far soffrire anche me. 
Il mio spirito da eroe desolato mi aveva suggerito di agire e portare un po' di luce in quell'animo abbattuto. La forza di volontà non mi mancava, ma ogni volta che ci provavo, mi sembrava di essere ai piedi di una montagna la cui cima è così lontana da non essere visibile. 
E quei fremiti che mi svegliavano la notte... da quanti, quanti anni? Ogni volta avevo ingenuamente creduto di essere irreparabilmente triste, mentre in realtà era il suo animo convulso che bussava all'ingresso del corpo che ospitava il mio, spesso distratto, a volte assopito, raramente interessato e contemplativo, animo. Eppure ero stato così ingenuo da confonderli: avevo affibbiato ad Alaric gli stessi connotati con cui, in quel momento, stavo definendo il mio animo. Chissà se anche a lui quei medesimi errori avevano fatto lo sgambetto, anche se non ritenevo la cosa molto probabile: Alaric era di gran lunga più sveglio di me.

* * *

La prima cosa che feci quella mattina fu controllare se nevicasse. Ormai, da quando avevo conosciuto Alaric, ogni giorno nutrivo dei forti dubbi sulla sua esistenza o semplicemente avevo il timore che avrebbe smesso di venire a scuola per un bel po', com'era già successo. Che esistesse o no, quell'animo minuto e silenzioso era mio amico e gli sarei stato accanto a costo di perdere di vista i miei limiti fisici. Eravamo così diversi da sembrare fratelli, due esistenze opposte nate dalla stessa sorgente, così unite da poter comunicare a labbra serrate. Eppure quando lui scompariva e bloccava tutti i cancelli che permettevano l'accesso alla mia persona, era impossibile capire dove fosse e cosa pensasse, quasi come se non fosse mai esistito. Quel vuoto mi spaventava più della consapevolezza di aver conosciuto una persona del genere.

La mia delusione si risolse in un sospiro quando constatai che non nevicava affatto, anche se in compenso delle timide gocce d'acqua bussavano debolmente alla mia finestra. 
Mi preparai in fretta, intento a precipitarmi di sotto per controllare se Alaric mi aspettasse al solito posto. Pensando a ciò, ogni volta mi fermavo e un sorriso ironico stravolgeva il mio viso ancora segnato dalla stanchezza. Io e lui avevamo parlato poco e niente e, sommando tutte le volte in cui ci eravamo incontrati, non si raggiungeva neanche la doppia cifra. Eppure tutto ciò che concerneva il nostro rapporto era divenuto improvvisamente abitudine: era abitudine sfregarmi gli occhi al mattino quando percepivo che lui si era svegliato; era abitudine ridere dell'espressione sconcertata di mia madre quando scorgeva Alaric alla fermata dello scuolabus, affacciata alla finestra; era abitudine provare a fare una chiacchierata notturna, ma ricevere in risposta soltanto il debole respiro di un corpo addormentato; era abitudine fermarmi davanti alla finestra prima di andare a dormire e cercare di unire le stelle per dar vita a un volto familiare; era abitudine lasciarmi andare con la testa sul banco di scuola o sul pavimento del bagno, coprirmi il viso con le mani e riscoprirle piene di lacrime, sorpreso e inspiegabilmente distante da me stesso; era abitudine ridere della strana piega che aveva preso la mia vita, come se, finché non avevo incontrato la concretizzazione dell'ombra che mi aveva sempre accompagnato, fossi stato normale.

Una volta pronto, salutai mia madre distrattamente e mi chiusi la porta alle spalle. Alaric non c'era. Raggiunsi la fermata e mi guardai intorno, sperando di vederlo comparire da un momento all'altro.

"Al? Hai deciso di saltare la scuola anche oggi?"

Sbuffai e guardai l'orologio, non c'era nessuna possibilità che arrivasse a quell'ora. Quando decideva di presentarsi lì, era sempre puntuale.

"Stai dormendo?"

Effettivamente quella mattina non l'avevo sentito svegliarsi, ma allo stesso tempo non potevo affermare con sicurezza che stesse ancora dormendo. Non riuscivo a percepire il suo respiro né la sua presenza in generale; era la stessa sensazione che provavo ogni volta che decideva di tagliarmi fuori dalla sua vita. Mi sentii in qualche modo offeso, ma salii comunque sullo scuolabus con l'espressione annoiata di sempre e la voglia quasi nulla di sentir parlare per l'ennesima volta della triste storia di Hopewell.

Scesi dalla vettura e protestai sottovoce contro i ragazzi che si erano ammassati davanti al cancello d'ingresso dell'edificio. Mi feci spazio fra la folla con i gomiti, intento a oltrepassare il cancello con indifferenza, ma i miei occhi mi tradirono e rivolsi uno sguardo distratto a un manifesto bianco incollato alle sbarre del cancello. Chiunque leggesse lì sopra sembrava triste, sconvolto, curioso, spaesato; le stesse espressioni che dovevo indossare io in quel momento e che facevano sì che mi confondessi con quell'enorme folla di individui sconosciuti, grigi come l'acqua del mare su cui si riflette un cielo carico di nuvole. Grigi come me.

Al era morto. Non saprei dire quale dei due, probabilmente entrambi o forse soltanto quello che era esistito davvero. Ma chi dei due era reale? Entrambi, nessuno. I nostri corpi erano soltanto delle scatole vuote per un animo diviso in due, alla ricerca dell'immensità e rinchiuso in un mondo pieno di confini. Oh... cara, sola, triste Hopewell, così piccola eppure spettatrice di una così grande e forte brama di vita. Uno slancio di vitalismo condiviso, uno slancio di vitalismo sopravvissuto a metà.


"Al, voglio vivere, anche se non sono poi così sicuro di essere ancora vivo. Forse sono semplicemente vivo a metà... o morto a metà. Ormai non m'importa."

"Al, il tuo corpo mortale ha ceduto, non è stato in grado di sostenere un tale desiderio di vivere. Sarà perché in cuor tuo eri ben consapevole che avresti abbandonato la vita molto presto e hai voluto donare a me anche la tua metà di spirito. Probabilmente ora sei dentro di me, ma percepisco soltanto un enorme vuoto che minaccia di attirarmi al suo interno per farmi scomparire."

"Al, ci sei? Non stai dormendo... lo so. Ma continuerò a chiamarti e griderò il tuo nome ancora più forte quando vorrò mostrarti la felicità... abbi cura di rispondere se non vuoi perderti nulla. Anzi, se non vuoi rispondere non importa, però apri gli occhi e guarda con me, in silenzio. Ti piace tanto il silenzio, non è così? Ti piace talmente tanto che anche tu te ne sei andato in silenzio, mentre dormivi."

"Al... ormai non so neanche se sto parlando con te o con me stesso. Mi senti? Ma che domande... ovvio che mi senti, tu sei con me ora. Ora c'è un solo Al, vero? Non potremmo più confonderci."

"Al... non cercavo un amico, ma grazie per esserlo stato lo stesso. Cercavo me stesso e ci sono riuscito: me stesso sei tu, te stesso sono io. Ma il mio compito non è finito. Ho ben altro da cercare, la strada è lunga, ma non è importante, perché tu sarai con me."

"Al, mi diranno che eri debole, sbagliato e che ti sei arreso; mi diranno che è stata una brutta malattia a portati lassù, in cielo. E sai cosa risponderò a tutti loro? Mi farò prima una bella risata e poi dirò che è impossibile che tu sia salito in cielo, perché il cielo sei tu, perché il tuo volto è la dimora delle stelle, perché un cielo stellato non può mentire. E dirò anche che non sei debole, perché hai trovato la forza di mentirmi ugualmente. Sai, non te ne faccio una colpa, anzi, grazie per non avermi detto addio, non avrei proprio saputo come risponderti e una consolazione era l'ultima cosa che avresti voluto. O forse, alla fine, nessuno mi parlerà di te."

"Al, non voglio mentire mai più a me stesso. Hai detto che sono un cielo nuvoloso e che dico la verità soltanto quando piove. Allora mi assicurerò che piova sempre dentro di me, sarà un modo per essere onesto con me stesso e per giustificare le mie lacrime. Farò tutto questo per te, però tu non lasciarmi, d'accordo? Anche se l'obiettivo appare lontano e il cammino è faticoso, tu non lasciarmi. Dobbiamo trovare l'immensità insieme. Il mio è un animo stanco, ma credimi, so riconoscere una cosa bella quando la vedo. Ti prometto che ti chiamerò quando sarà il momento."

"Al, mia madre aveva ragione. Forse ogni tanto dovrei dare retta ai suoi deliri. Tu sei l'avvenimento positivo. Il mio avvenimento positivo. E perderti è stata la tragedia che ha ristabilito l'equilibrio. Ma va bene così, perché rimarremo insieme per sempre. Perché io e te siamo un noi infinito."

"Al, per tutte le volte che hai pianto attraverso le mie lacrime, attraverso la pioggia; per tutte le volte in cui ha fatto finta di non sapere che ci saremmo riuniti; per quella volta in cui, stanco, hai continuato a correre con me; per tutte le volte in cui mi hai guardato negli occhi e gli angeli di due cieli opposti hanno pianto lacrime umane e intonato inni celesti simultaneamente; grazie."

"Al, amico mio, e Al, me stesso: a volte le nuvole oscureranno le stelle, altre volte le stelle splenderanno di verità, ma voi sarete vivi in ogni caso e continuerete ad esserlo finché ci sarà il cielo...

 mentre noi cerchiamo il sole

... e cercherete il sole."


 


Alla fine mia madre mi aveva scoperto e aveva cominciato a pensare che ci fosse qualcosa che mi spingeva a non voler andare a scuola: era convinta che qualcuno mi avesse fatto qualcosa e a quanto pareva era inutile ripeterle che lì in mezzo non mi considerava nessuno. Naturalmente non le avevo detto che Alaric era stato tutta la giornata con me, altrimenti sarebbe impazzita. Dopo una lunga discussione durata tutta la cena, me la cavai con la scusa che non ero riuscito a fare i compiti e non me la sentivo di fare una brutta figura con i professori. A dire la verità non li facevo quasi mai, ma non ero ancora stato beccato.

Quella sera andai a letto più presto del solito perché non volevo che Alaric si svegliasse nel bel mezzo della notte a causa mia. Non avevo mai avuto un amico, perciò non sapevo bene come avrei dovuto comportarmi, ma sentivo che quella era la cosa giusta da fare.
Purtroppo però, esattamente come mi aspettavo, non riuscivo a prendere sonno e fu alquanto difficile rinunciare più volte all'impulso di accendere il cellulare o il computer. Proprio quando il corpo stava per cedere, una voce familiare rimbombò nella mia testa.

"Sì."

"Sì... cosa?"

"Sono felice."

"Oh... quindi oggi mentre stavi andando via mi hai sentito?"

"Ti sento più spesso di quanto immagini."

Cambiai posizione e appoggiai un lato del viso sul cuscino.

"Allora devo stare più attento a quello che penso."

"Già... La prima volta che ci siamo visti hai creduto che fossi basso."

Trattenni una risata mordendomi il labbro inferiore.

"Avrai sentito i pensieri di qualcun altro..."

"Al..."

"Sarà perché eri seduto. Io invece non ho sentito un bel niente, perché?"

Ci fu una pausa.

"Semplicemente... perché non volevo che tu lo facessi."

"Mi stai dicendo che riesci a non farmi sentire i tuoi pensieri?"

"Non sempre, neanche io ho ben capito come si faccia... ci riesco e basta."

Annuii e mi rimisi di nuovo a pancia in su, con braccia aperte e gambe divaricate.

"Perché non vuoi?"

Un'altra pausa.

"Sarebbe strano, non credi?"

"Sarà."

Chiusi gli occhi e mi concentrai. Non sapevo neanche io cosa stessi cercando di fare di preciso, ma mi stavo sforzando parecchio.

"Al, ti sei offeso?"

"Al...?"

"Hey?"

"Uhm... si sarà addormentato."

"Sono qui."

"Ah."

"Ci sono riuscito anche io, visto?"

"Non farlo mai più."

Avrei scommesso che aveva messo su il broncio, anche se non potevo vederlo.

"Perché? Anche io ho bisogno di un po' di privacy, sai?"

"Se proprio devi..."

Ridacchiai, ma un dolore improvviso alla testa segnalò che il limite era vicino; presto ci saremmo stancati entrambi.

"Vorresti sapere tutto quello che faccio?"

"Non è questo. Sai che non parlo molto con le altre persone, anzi, tu sei il mio unico amico, quindi mi fa piacere sentire la tua presenza."

"Ti fa piacere? Al, non sminuire i tuoi sentimenti."

"Che intendi?"

Percepivo un enorme peso sullo stomaco, di cui però non ero minimamente intenzionato a liberarmi. Era da un po' che rimuginavo su quel pensiero, ma non potevo prevedere le conseguenze nel caso in cui ne avessi parlato con Alaric.

"Nulla. Soltanto... non farlo. Ora vado, buonanotte."

La mia testa minacciava di scoppiare come un palloncino al limite della sua capacità, potevo davvero sentire le vene pulsare con forza.

"D'accordo. Ci vediamo domani, 'notte."

Sospirai e mi tolsi le lenzuola di dosso con un debole calcio. Di dormire non se ne parlava proprio e qualcosa mi diceva che quella notte neanche Alaric ci sarebbe riuscito. Il mio cervello era attivo e carico di pensieri, così tanto da non poter escludere una connessione con l'altro; in ogni caso sperai che fosse preso dalle sue riflessioni e che non badasse alle mie.

In tutti quegli anni avevo creduto di soffrire per il semplice fatto di non avere amici. Certo, non è cosa da poco starsene da soli a quell'età, specialmente in una città piena di adolescenti in cerca di distrazioni dalla scuola, unica colonna posta lì per sorreggere e alimentare le loro monotone vite, ma non è questo il punto. Per tanto tempo mi era sembrato di vivere come un escluso, rifiutato da quella banda di ragazzi annoiati, ma la verità era che anch'io facevo parte, pur non volendo, di quella cerchia; anch'io ero una persona tremendamente annoiata e, come tale, non mi andava affatto di unirmi ad altre persone ugualmente annoiate, in modo da dare ancora più peso alla mia interminabile noia. Insomma, non è che nessuno mi volesse, ero io a non volere nessuno. 
Più che chiedermi perché non avessi amici, però, dall'inizio del liceo avevo occupato il mio tempo chiedendomi se, una volta diventato adulto, quell'orribile periodo avrebbe visto la sua fine. Dopo essermi arrovellato il cervello per minuti infiniti, giungevo sempre alla stessa conclusione: con ogni probabilità la risposta era no, ma ci avevo già fatto l'abitudine.

Riassunto di questa strana e confusa accozzaglia di pensieri: non c'era motivo per cui essere così triste, dunque quell'opprimente, inquietante e indistruttibile tristezza non era la mia, ma apparteneva ad Alaric ed era talmente grande da far soffrire anche me. 
Il mio spirito da eroe desolato mi aveva suggerito di agire e portare un po' di luce in quell'animo abbattuto. La forza di volontà non mi mancava, ma ogni volta che ci provavo, mi sembrava di essere ai piedi di una montagna la cui cima è così lontana da non essere visibile. 
E quei fremiti che mi svegliavano la notte... da quanti, quanti anni? Ogni volta avevo ingenuamente creduto di essere irreparabilmente triste, mentre in realtà era il suo animo convulso che bussava all'ingresso del corpo che ospitava il mio, spesso distratto, a volte assopito, raramente interessato e contemplativo, animo. Eppure ero stato così ingenuo da confonderli: avevo affibbiato ad Alaric gli stessi connotati con cui, in quel momento, stavo definendo il mio animo. Chissà se anche a lui quei medesimi errori avevano fatto lo sgambetto, anche se non ritenevo la cosa molto probabile: Alaric era di gran lunga più sveglio di me.

* * *

La prima cosa che feci quella mattina fu controllare se nevicasse. Ormai, da quando avevo conosciuto Alaric, ogni giorno nutrivo dei forti dubbi sulla sua esistenza o semplicemente avevo il timore che avrebbe smesso di venire a scuola per un bel po', com'era già successo. Che esistesse o no, quell'animo minuto e silenzioso era mio amico e gli sarei stato accanto a costo di perdere di vista i miei limiti fisici. Eravamo così diversi da sembrare fratelli, due esistenze opposte nate dalla stessa sorgente, così unite da poter comunicare a labbra serrate. Eppure quando lui scompariva e bloccava tutti i cancelli che permettevano l'accesso alla mia persona, era impossibile capire dove fosse e cosa pensasse, quasi come se non fosse mai esistito. Quel vuoto mi spaventava più della consapevolezza di aver conosciuto una persona del genere.

La mia delusione si risolse in un sospiro quando constatai che non nevicava affatto, anche se in compenso delle timide gocce d'acqua bussavano debolmente alla mia finestra. 
Mi preparai in fretta, intento a precipitarmi di sotto per controllare se Alaric mi aspettasse al solito posto. Pensando a ciò, ogni volta mi fermavo e un sorriso ironico stravolgeva il mio viso ancora segnato dalla stanchezza. Io e lui avevamo parlato poco e niente e, sommando tutte le volte in cui ci eravamo incontrati, non si raggiungeva neanche la doppia cifra. Eppure tutto ciò che concerneva il nostro rapporto era divenuto improvvisamente abitudine: era abitudine sfregarmi gli occhi al mattino quando percepivo che lui si era svegliato; era abitudine ridere dell'espressione sconcertata di mia madre quando scorgeva Alaric alla fermata dello scuolabus, affacciata alla finestra; era abitudine provare a fare una chiacchierata notturna, ma ricevere in risposta soltanto il debole respiro di un corpo addormentato; era abitudine fermarmi davanti alla finestra prima di andare a dormire e cercare di unire le stelle per dar vita a un volto familiare; era abitudine lasciarmi andare con la testa sul banco di scuola o sul pavimento del bagno, coprirmi il viso con le mani e riscoprirle piene di lacrime, sorpreso e inspiegabilmente distante da me stesso; era abitudine ridere della strana piega che aveva preso la mia vita, come se, finché non avevo incontrato la concretizzazione dell'ombra che mi aveva sempre accompagnato, fossi stato normale.

Una volta pronto, salutai mia madre distrattamente e mi chiusi la porta alle spalle. Alaric non c'era. Raggiunsi la fermata e mi guardai intorno, sperando di vederlo comparire da un momento all'altro.

"Al? Hai deciso di saltare la scuola anche oggi?"

Sbuffai e guardai l'orologio, non c'era nessuna possibilità che arrivasse a quell'ora. Quando decideva di presentarsi lì, era sempre puntuale.

"Stai dormendo?"

Effettivamente quella mattina non l'avevo sentito svegliarsi, ma allo stesso tempo non potevo affermare con sicurezza che stesse ancora dormendo. Non riuscivo a percepire il suo respiro né la sua presenza in generale; era la stessa sensazione che provavo ogni volta che decideva di tagliarmi fuori dalla sua vita. Mi sentii in qualche modo offeso, ma salii comunque sullo scuolabus con l'espressione annoiata di sempre e la voglia quasi nulla di sentir parlare per l'ennesima volta della triste storia di Hopewell.

Scesi dalla vettura e protestai sottovoce contro i ragazzi che si erano ammassati davanti al cancello d'ingresso dell'edificio. Mi feci spazio fra la folla con i gomiti, intento a oltrepassare il cancello con indifferenza, ma i miei occhi mi tradirono e rivolsi uno sguardo distratto a un manifesto bianco incollato alle sbarre del cancello. Chiunque leggesse lì sopra sembrava triste, sconvolto, curioso, spaesato; le stesse espressioni che dovevo indossare io in quel momento e che facevano sì che mi confondessi con quell'enorme folla di individui sconosciuti, grigi come l'acqua del mare su cui si riflette un cielo carico di nuvole. Grigi come me.

Al era morto. Non saprei dire quale dei due, probabilmente entrambi o forse soltanto quello che era esistito davvero. Ma chi dei due era reale? Entrambi, nessuno. I nostri corpi erano soltanto delle scatole vuote per un animo diviso in due, alla ricerca dell'immensità e rinchiuso in un mondo pieno di confini. Oh... cara, sola, triste Hopewell, così piccola eppure spettatrice di una così grande e forte brama di vita. Uno slancio di vitalismo condiviso, uno slancio di vitalismo sopravvissuto a metà.


"Al, voglio vivere, anche se non sono poi così sicuro di essere ancora vivo. Forse sono semplicemente vivo a metà... o morto a metà. Ormai non m'importa."

"Al, il tuo corpo mortale ha ceduto, non è stato in grado di sostenere un tale desiderio di vivere. Sarà perché in cuor tuo eri ben consapevole che avresti abbandonato la vita molto presto e hai voluto donare a me anche la tua metà di spirito. Probabilmente ora sei dentro di me, ma percepisco soltanto un enorme vuoto che minaccia di attirarmi al suo interno per farmi scomparire."

"Al, ci sei? Non stai dormendo... lo so. Ma continuerò a chiamarti e griderò il tuo nome ancora più forte quando vorrò mostrarti la felicità... abbi cura di rispondere se non vuoi perderti nulla. Anzi, se non vuoi rispondere non importa, però apri gli occhi e guarda con me, in silenzio. Ti piace tanto il silenzio, non è così? Ti piace talmente tanto che anche tu te ne sei andato in silenzio, mentre dormivi."

"Al... ormai non so neanche se sto parlando con te o con me stesso. Mi senti? Ma che domande... ovvio che mi senti, tu sei con me ora. Ora c'è un solo Al, vero? Non potremmo più confonderci."

"Al... non cercavo un amico, ma grazie per esserlo stato lo stesso. Cercavo me stesso e ci sono riuscito: me stesso sei tu, te stesso sono io. Ma il mio compito non è finito. Ho ben altro da cercare, la strada è lunga, ma non è importante, perché tu sarai con me."

"Al, mi diranno che eri debole, sbagliato e che ti sei arreso; mi diranno che è stata una brutta malattia a portati lassù, in cielo. E sai cosa risponderò a tutti loro? Mi farò prima una bella risata e poi dirò che è impossibile che tu sia salito in cielo, perché il cielo sei tu, perché il tuo volto è la dimora delle stelle, perché un cielo stellato non può mentire. E dirò anche che non sei debole, perché hai trovato la forza di mentirmi ugualmente. Sai, non te ne faccio una colpa, anzi, grazie per non avermi detto addio, non avrei proprio saputo come risponderti e una consolazione era l'ultima cosa che avresti voluto. O forse, alla fine, nessuno mi parlerà di te."

"Al, non voglio mentire mai più a me stesso. Hai detto che sono un cielo nuvoloso e che dico la verità soltanto quando piove. Allora mi assicurerò che piova sempre dentro di me, sarà un modo per essere onesto con me stesso e per giustificare le mie lacrime. Farò tutto questo per te, però tu non lasciarmi, d'accordo? Anche se l'obiettivo appare lontano e il cammino è faticoso, tu non lasciarmi. Dobbiamo trovare l'immensità insieme. Il mio è un animo stanco, ma credimi, so riconoscere una cosa bella quando la vedo. Ti prometto che ti chiamerò quando sarà il momento."

"Al, mia madre aveva ragione. Forse ogni tanto dovrei dare retta ai suoi deliri. Tu sei l'avvenimento positivo. Il mio avvenimento positivo. E perderti è stata la tragedia che ha ristabilito l'equilibrio. Ma va bene così, perché rimarremo insieme per sempre. Perché io e te siamo un noi infinito."

"Al, per tutte le volte che hai pianto attraverso le mie lacrime, attraverso la pioggia; per tutte le volte che hai fatto finta di non sapere che ci saremmo riuniti; per quella volta che, stanco, hai continuato a correre con me; per tutte le volte che mi hai guardato negli occhi e gli angeli di due cieli opposti hanno pianto lacrime umane e intonato inni celesti simultaneamente; grazie."

"Al, amico mio, e Al, me stesso: a volte le nuvole oscureranno le stelle, altre volte le stelle splenderanno di verità, ma voi sarete vivi in ogni caso e continuerete ad esserlo finché ci sarà il cielo...

 mentre noi cerchiamo il sole

... mentre noi cerchiamo il sole."







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