Ho le idee confuse, ci sono immagini
di braccia mulinate, di “permesso” gracchiati a gran voce partiti un
tempo con l’idea di venire solo sussurrati e noi due che, mano nella
mano, ci diamo alla fuga, lasciandoci il party alle spalle.
Ho le idee confuse, ma una cosa la so:
sto diventando troppo vecchio per questo genere di cazzate. So anche
che se non fosse per colpa tua, Sebastian, per tutti i bicchieri che
mi hai messo tra le mani, per lo sguardo ammiccante e per ogni volta
che hai voluto rubare il primo sorso, lasciandomi crogiolare
nell’idea che nel resto avrei trovato sapore di te, se non fosse per
quello, adesso non sentirei la testa pulsare e il mal di mare
avanzare in ondate di nausea, mentre ti guardo stendere la schiena e
fare mezza giravolta.
E anche tu mi guardi, con un volto
tutto occhi e labbra rosa shocking.
Sorridi – lo stesso sorriso che hai
avuto in faccia tutta la notte – e so che già lo sai che cosa provo
e questo è solo un maledetto elaborato test. Forse nemmeno sei così
ubriaco come vuoi farmi credere.
«Dammi le chiavi, Chris, guido io. Tu
sei troppo ubriaco.»
…oppure sì.
«Siamo venuti qui in taxi, Seb. E
tiratela di meno, sei più ubriaco di me.»
«Oh. Giusto. Sì. In taxi. Allora… ok.
Allora di’ al tassista di darmi le chiavi, guido io!»
Decisamente sì.
Getti il braccio in avanti, la mano
lanciata in balia della forza di gravità, che cala sgraziatamente
verso il basso, seguita anche dal resto del busto. Piegato
pericolosamente, hai la testa sbilanciata, gli occhi strabuzzati che
non sono mai stati così azzurri e luminosi e che quasi rischiano di
rotolare via dalle orbite.
Per un attimo il tempo si ferma.
Quando rimani a mezz’aria, la faccia a
mezzo metro dalla strada, siamo entrambi stupiti perché nessuno di
noi due si aspettava che sarei riuscito a prenderti al volo.
Ubriachi, come detto, lo siamo
entrambi.
«Wo, mi hai salvato la vita.»
«Sono Captain America, kiddo, è
il mio lavoro!»
«Ma vaffanculo.»
«Ehy, è il modo di rivolgersi a un
eroe? Guarda che mi sei debitore. In alcune culture quando qualcuno
ti salva la vita, sei costretto a rimanere al suo fianco finché non
troverai il modo di sdebitarti.»
«Ah sì? Quali culture?»
«Che ne so, alcune!»
Ti aggrappi alla mia spalla in una
scalata che ti riporta dritto in piedi: un’adorabile torretta rumena
che poco dopo crolla e che per la seconda volta mette a dura prova i
miei riflessi storditi dall’alcool.
Ma per quel sorriso enorme con cui mi
accogli «Mi hai salvato di nuovo. Ora sarai costretto ad avermi
al tuo fianco per sempre.» potrei andare avanti a farlo fino
all’alba.
Parcheggiato poco più avanti, un taxi
suona il clacson e una mano oltre il finestrino ci chiede se
vogliamo salire.
Non vedo perché no, il problema, al
massimo, sarà riuscire a raggiungerlo sani e salvi.
Arranchiamo a passo di lumaca. Il mio
braccio intorno alla tua vita e la tua mano che sventola nell’aria –
stringe sostegni invisibili, allargando le dita come un bambino che
voglia farsi prendere in braccio da un gigante.
Rido. Una pacca verso il braccio e ti
riaggiusto la mira, invitandoti a passarlo intorno alle mie spalle.
«Ci sono, ci sono» mi dici tu. Stringi
la lingua tra i denti e sembra che aggrapparti a me sia l’operazione
più complicata della serata.
«Non mi vomitare addosso, però.»
«Fanculo, non sono così
ubriaco! Ed è successo una volta soltanto.»
«Proprio sulle mie scarpe nuove.»
Ridi, un gorgoglio di gola, un suono
caldo, alticcio, che ti scopre i denti e ti rovescia la testa
all’indietro. Il Pomo d’Adamo danza sul tuo collo, come un richiamo
per la voglia che ho di morderti, di leccarti, di baciarti e di
sapere se sai più di birra o di quell’ultimo cocktail dal nome
improbabile che ti ho sentito chiedere all’orecchio della cameriera.
«Te le ho ricomprate, però.» C’è un
che di tenero nel tono trionfante con cui lo dici, quasi ti
aspettassi un applauso da un pubblico che non c’è. Ci siamo solo
noi, Sebastian, io, te e un tassista dallo sguardo arcigno che si
sta già pentendo di averci voluto come clienti.
«No, no, no, non provarci nemmeno; mi
hai comprato un paio di scarpe. Completamente diverse e
perfino del numero sbagliato. Dopo dieci anni, non sai nemmeno che
numero porto!»
«Oww, nessuno sa mai che numero di
scarpe portino gli amici!»
«Tu porti l’8[1].»
Per un attimo tutto quello che fai è
sbattere gli occhi. Dobbiamo perfino interrompere la patetica
avanzata, perché la tua coordinazione motoria si è ridotta così
tanto che non puoi compiere più di un gesto alla volta.
L’aria ti ha ridato colore, l’alcol ti
arrossa le guance e ti lucida gli occhi. Sono languidi mentre mi
fissi, languidi sotto ciglia che abbassi e sollevi piano, come se le
avessi prese in prestito e avessi paura di rovinarle.
Non mi stupisco di quell’«Eh?» che hai
praticamente scritto in faccia.
Faccio spallucce e scuoto il capo.
«Niente.»
«Ok.» che forse è per me, o forse è
per dire al tuo corpo che va tutto bene e puoi riprendere a
camminare.
Davanti al taxi, ti aiuto a entrare.
Manca poco che ti prenda in braccio, ma mi accontento di portare una
mano alla tua nuca e spingerla in basso per evitare che sbatta
contro il tettuccio. Non so se sia un riflesso il tuo, quello che ti
spinge ad allacciarmi con forza le braccia al collo, ma il tuo volto
si tuffa contro la mia spalla, il tuo alito carezza la mia guancia e
l’odore di alcol mi dà alla testa. Forse, però, è solo la tua voce:
«Non lasciarmi, ok?»
Non lasciarti.
Dio, Seb.
Lo sai. Lo sai cosa mi fai e stai
cercando di uccidermi!
Non lasciare la presa, è la
frase che intendi. Non mollarti, perché sei così ubriaco che non
riusciresti a ritrovare nemmeno i tuoi piedi sul tappetino del taxi.
Ma in meno di un secondo il mio
cervello è riuscito a dargli tutt’altra interpretazione e non
riesco, allora, a pensare a quando alla fine saremo arrivati a casa
tua, tu dovrai scendere e io no e chissà se anche in quel momento,
prima di richiudere la portiera, mi chiederai di non lasciarti e di
rimanere con te.
Fallo Sebastian, fallo, ti prometto
che ti dirò di sì, dovessi precipitarmi fuori dall’auto in corsa per
raggiungerti, tu fallo.
Quando siamo entrambi seduti – quando
io sono seduto e tu invece sdraiato a metà su di me, le
braccia intorno al mio collo e la fronte accoccolata alla mia spalla
–, quando il taxi si avvia verso il tuo appartamento e le strade
diventano dipinti macchiati di luce sul finestrino, è allora che
qualcosa mi esplode dentro e mi è impossibile trattenerlo.
«Dio, se mi piaci.»
E tu, stupido maledetto ubriaco, tu
pieghi il volto di lato e sorridi imbarazzato, socchiudi gli occhi
ed è come se avessi capito quello che intendo.
Perché lo sai, vero? Devi saperlo.
«Anche tu mi piaci.»
La tua naturalezza mi sconvolge, forse
è per questo che minimizzo facendoti il verso: «Ma cos’hai, cinque
anni? “Anche tu mi piaci”?»
«Hai cominciato tu, che dovevo
rispondere? È vero che mi piaci.»
Lo so, lo so che ti piaccio, ma non è
la stessa cosa. E se davvero non lo sai, se davvero non sai cosa
intendo, allora semplicemente, non puoi capire. E come potresti.
Dio, guardati, hai addosso l’ubriacatura di un’intera serata, gli
odori di un bar pieno di gente, il languore di uno sguardo stanco e
assonnato e io non riesco a smettere di pensare a quanto ti renda
adorabile e a quanto quel lembo di pelle scoperta dalla camicia e
dall’orlo dei pantaloni, mi stia facendo impazzire.
Mi piace la tua faccia, Sebastian. Il
tuo sorriso, i tuoi occhi, il tuo nome.
Mi piace il tuo corpo, il modo in cui
ti muovi, il modo in cui stai fermo, il modo in cui mi stai addosso
e mi butti sulla spalla tutto il tuo peso, tanto che a breve finirò
per non avere più sensibilità in questo lato del corpo. E non ti
lascerò comunque, perché mi piace averti accanto, sapere che mi
cerchi, sapere che mi vuoi. Mi piace respirarti vicino in quest’auto
e pensare che sia la stessa aria che hai respirato tu, che ha
toccato le tue labbra e ti è entrata dentro.
Mi piace la tua risata, di quando ridi
per davvero, di quando per un attimo ti fermi inalando, come a
interrompere un singhiozzo, come in bilico su un dirupo così alto
che guardarti fa venire le vertigini anche a me e, alla fine, ti
butti e irrompi con quel suono che adoro.
Ecco. Non è che mi piaci. Io ti
adoro. Adoro che quando mi credi arrabbiato mi ricerchi con la
coda dell’occhio, troppo timido per fare di più e che, preso
coraggio, ti avvicini piano e in silenzio aspetti il mio invito.
Adoro che non ti sia mai arreso con
me, che la nostra amicizia sia così importante, che quando mi chiedi
come sto, ti interessi davvero scoprire se tutto va bene e quando
così non è, sei sempre il primo a consolarmi. Anche se quando sei tu
ad essere giù di morale, non mi rispondi mai, ma in cambio tutto
quello che mi chiedi è un abbraccio.
Adoro quando menti alle telecamere e
dici di amarmi, adoro quando scherzando me lo dici in faccia e adoro
perfino quella fitta che mi colpisce al petto ogni volta che lo fai,
senza sapere che sei tutto per me.
Adoro i tuoi capelli la mattina, il
tuo broncio quando sei stanco, le tue lacrime quando Mackie ti
spezza con una battuta e tu dimentichi intere pagine di copione.
Adoro la tua dolcezza, il tuo carattere buono e anche che non sai
cantare… Dio, sei un cane castrato quando canti! Sei il ragazzo più
stonato al mondo, ma ogni volta che canti per me La
Sirenetta[2],
ingoiando l’orgoglio e strizzando un microfono che preferiresti
gettare nel cesso, rimarrei ad ascoltarti per ore, giorni,
settimane, a riempirmi le orecchie della tua voce, delle tue note
steccate. A sapere che sono state mie, tutte quante. Tutte mie.
Adoro i tuoi di abbracci, perché
quando lo fai mi strofini il mento sulla spalla, io ti stringo e tu
mi stringi e in quel momento nulla al mondo potrebbe toccarmi, nulla
potrebbe preoccuparmi.
Adoro tutto di te, perfino l’attesa di
te. Ci sono momento in cui è stata struggente, infinita, momenti in
cui ho pensato che non saresti tornato perché avevi trovato di
meglio, momenti in cui ho toccato il fondo e ho pensato che avrei
dovuto dirti quello che provavo, implorandoti di non lasciarmi mai
più da solo a contare i minuti. Ma l’adoro perché per quanto faccia
male, non è nulla rispetto alla gioia che provo ogni volta che
solchi la mia porta e con un sorriso mi saluti come fosse la cosa
più naturale del mondo.
Adoro di te il semplice fatto che tu
esista e che così facendo rendi la mia vita migliore.
È così che mi piaci, Sebastian; mi
piaci come se quanto attorno a me fosse un’unica gradazione di
grigio e tu l’unico a possedere ogni colore del mondo.
E intanto il taxi sta imboccando una
via fin troppo familiare; sulla sinistra, a breve, comparirà la
porta del tuo appartamento.
«Chris.» nonostante lo sbadiglio, la
tua voce suona sveglia.
«Cosa?»
La pausa è lunga, tanto che mi fa
temere di averti perso. Ma quando abbasso il capo, il tuo mento
trova il suo incastro perfetto contro il mio e i tuoi occhi sono
azzurre calamite che intrappolano i miei. «Si dice Ti amo.»
Cazzo.
Sono ubriaco. Sono ubriaco marcio e
non mi sono accorto di aver parlato per tutto questo tempo. Sono
ubriaco e tu mi sorridi e in quel sorriso c’è tutto. E lo
sai, cazzo, ora lo sai.
«Forse avrò cinque anni, ma la
risposta è la stessa di prima: ti amo anch’io.»
Domani, quello che è venuto dopo, sarà
una macchia indistinta nella mia memoria, un buco nero che nemmeno
un intero barattolo di aspirine riuscirà a riempire, ma ora c’è la
mia bocca premuta alla tua, c’è un bacio che sa di birra e di rum e
di te e di me, c’è il tuo segnale al tassista quando gli indichi di
proseguire verso la seconda destinazione e c’è la tua voce roca che
stuzzica il mio orecchio: «Lo sai qual è la parte che più preferisco
di questa serata? Sapere che, anche se sono troppo stanco per fare
qualsiasi cosa, domani mi sveglierò nel tuo letto insieme a te.»
La mia parte preferita, invece, è
sapere che domani non sarà l’unica volta in cui ti sveglierai nel
mio letto.
«Chris.»
«Sì, mio amato ubriaconcello?»
«Dimmi ancora che mi ami. Ma questa
volta limitati a queste due parole.»
«Stronzo.»
Ma tu mi baci ridendo e «Ti amo» è
l’unica cosa che mi resta da dire.
[ 2.182w ] |