Anno
del giudizio 14-41
L’unico
vero errore è quello da cui non impariamo nulla. (John
Powell)
Ascesa
agli inferi
Un
filo di fumo nero si ergeva solitario fino a fendere le spesse nuvole
come una spada. Cadeva una pioggia fitta, pesante, che colorava di
rosso la poca vegetazione. Da una fenditura tra la roccia,
sgusciò
fuori un grosso scarafaggio. Dopo avere indugiato sulle zampe,
sparì
tra l’erba rinsecchita.
Poco
più a nord, una strada si inerpicava tra le colline aride
fino a
interrompersi sul ciglio di un gigantesco cratere, un tempo chiamato
Bacino di Groom.
«Ci
siamo,» esclamò Gordon spegnendo il motore
alimentato ad acqua.
«Tiriamo fuori il materiale e prepariamo il campo alla
svelta.
Aiutami Robert, voglio il Radieshon-ijido
immediatamente funzionante,» disse rivolto a un uomo alto e
tarchiato.
«Sei
già stato qui?» chiese curioso Robert mentre con
perizia univa dei
sottili tubi in acciaio incastrandoli tra loro in modo da formare una
griglia pentagonale. Dopo averne preparate sette le porse a Gordon
che le fissò a dei gambi flessibili installati su una
piattaforma in
marmo sintetico.
«Sono
nato da queste parti,» spiegò, «e da
piccolo ci venivo spesso a
giocare. Poi, dopo la Quarantesima Esplosione, tutto è
cambiato. Da
allora, il livello delle radiazioni è diventato
insostenibile.»
Nell’aria si diffuse un leggero ronzio e i sette pentagoni
presero
a oscillare in ogni direzione. Quando si avvertì chiaramente
il
primo scricchiolio, i cinque esploratori si rifugiarono sotto la
tenda di un materiale altamente isolante contro le piogge acide che
colpivano la zona.
«Perfetto,
riposatevi perché domani all’alba scendiamo di
sotto.»
Il
nuovo giorno arrivò annunciato dal rollio di assestamento
della
terra che fece cadere vari contenitori di ferro accatastati in un
angolo. La pioggia acida aveva ceduto il posto alla nebbia e
l’aria
irrespirabile si era incendiata di rosso. Sembrava di essere finiti
dentro una tormenta di sabbia.
«Assicurate
la tenda al suolo e lasciate qui tutto ciò che non serve per
la
spedizione. Compresa la tua arma, Sebastian. Sarà anche una
vecchia
miniera di carbone, ma non voglio correre il rischio di saltare per
aria,» disse cupo Gordon al più anziano del gruppo.
«Certamente,
capo. Poi non lamentarti quando ti troverai difronte a uno di quei
mostri che popolano questa zona e non avrai modo di
difenderti,» lo
derise. Gordon sorrise sprezzante.
«In
questo caso, ritengo sarà più utile
questo!» E sfoderò un
coltello seghettato dalla lama scintillante. «Gentile
concessione di
mio nonno, che lo trafugò a un soldato mummificato sepolto
in una
galleria più a ovest.»
«Smettetela,
o con tutto questo testosterone sparato per aria, ogni femmina da qui
a Vegas Ohuru
fiuterà la vostra scia.»
Da
dietro il furgone, spuntò Adelhaide, una bassa ragazza dagli
sgargianti capelli a spazzola. Le sue forme rotonde erano strizzate
dentro la tuta sintetica di un imbarazzante colore giallo.
«Forza,
ragazzi, zaini in spalla. Voglio arrivare alla cascata prima che cali
il buio.»
«Perché?»
chiese Robert mentre si sistemava il carico.
«Lì
dovrebbe esserci una struttura ancora integra, ed è
l’ideale per
passarci la notte. Il nostro principale obiettivo è
raggiungere
un’area isolata da settantasette metri cubi di cemento
armato.
Inoltre, su uno dei muri del perimetro, le radiazioni hanno
letteralmente stampato la mappa integrale della base militare. Senza
quella sarebbe impossibile muoversi nel dedalo dei suoi
corridoi.»
Impressionato, Robert fischiò.
«Scusa,
ma come facciamo ad accedere? Se usiamo un qualsiasi tipo di
detonatore saltiamo tutti in aria,» si informò
mentre si grattava
sovrappensiero la visiera traslucida.
«Se
te lo dicessi poi dovrei ucciderti.» Adelhaide lo
guardò seria,
fissando gli occhi chiari in quelli più scuri
dell’uomo.
«Okay,
okay. Sei una tipa tosta. Ora, diamoci una mossa,» disse
Gordon
mettendo le mani sulle spalle della ragazza e spingendola fuori.
«Philipe, se non ti decidi ti lasciamo qui!»
urlò dietro a un
ragazzo chino che rovistava tra la terra. Questo mise fine alla
discussione.
In
fila indiana, costeggiarono il precipizio per mezzo miglio, scendendo
verso il basso e facendo attenzione a non sdrucciolare di sotto. Man
mano si allontanavano dalla superficie, l’ossigeno si faceva
più
rarefatto e le radiazioni pungevano come spilli. Le tute indossate
mantenevano stabile la temperatura corporea e li isolavano da quelle
potenzialmente mortali. Il casco semitrasparente assorbiva le
particelle acquose come una spugna e un filtro, posto davanti alla
bocca, estrapolava l’ossigeno.
Rimasero
in silenzio finché, dopo avere vagato per chilometri dentro
e fuori
i vecchi tunnel scavati per il carbone, si trovarono difronte a una
porta in spesso acciaio, accartocciata in un angolo. Su di essa era
ancora visibile il cartello di divieto d’accesso
all’Area 51.
A
lato, seguendo la striscia di licheni viola, dopo una curva a gomito,
il ruggito della Cascata Rachel li investì con i suoi colori
pastello. Sembrava non avere inizio e, se si aveva abbastanza fegato
da sporgersi oltre il bordo, era evidente che non avesse nemmeno una
fine, perdendosi fino giù nel cuore della Terra. Robert
scioccato,
si avvicinò tenendo davanti a sé la torcia in
resina fossile.
«Stai
atten...» Adelhaide non finì la frase che la
sostanza oleosa, di
cui era composta la cascata, prese fuoco. «Accidenti a
te!»
esclamò, saltando di lato per evitare una fiammata.
«Ritiriamoci dietro quel masso, prima di finire tutti quanti
arrosto. L’unico varco per raggiungere la struttura
è lì,»
indicò un sentiero che si perdeva dietro il flusso
d’acqua.
«Ehi!
Che diavoleria è questa? L’acqua non dovrebbe
trasformarsi in un
Ire oku thrower,»
esclamò sgomento Sebastian mentre sbatteva le mani sulla
gamba per
spegnere un principio di incendio.
«Anni
fa ho elaborato una teoria,» si intromise Gordon.
«Sotto il suolo
dove abbiamo lasciato la tenda, passa la vecchia
conduttura degli scarichi che alimentava la base. Visto
il flusso, è ancora operativa ma, lungo il suo cammino
attraversa
aree scoperte particolarmente radioattive. Credo sia
l’accumulo
delle scorie che la rende infiammabile e le dona il caratteristico
colore iridato.»
«Tutto
questo è emozionante, ma come facciamo a superare
l’ostacolo?»
chiese spazientito Robert.
«Oh,
è semplice. Ti buttiamo nel fuoco, magari,
bruciando, la tua
massa cerebrale migliora,» rispose acida Adelhaide mentre
estraeva
dallo zaino quello che parve un sasso viola. Con circospezione, prese
la mira e lo lanciò al centro del flusso arroventato. In men
che non
si dica le fiamme si estinsero. «Ecco fatto. Aspettiamo
ancora un
attimo, nel caso sia rimasto qualche focolaio, e poi infiliamoci nel
tunnel. Abbiamo ancora mezz’ora di cammino e la notte sta
calando.»
Come
evocato, un vento gelido iniziò a soffiare dal baratro
portando con
sé i misteri della notte. Il sottosuolo si
risvegliò attirato dagli
odori familiari che provenivano dal cielo aperto. Fruscii, mugolii,
stridii fecero accapponare la pelle ai cinque esploratori.
«Per
di qua,» disse con urgenza Adelhaide infilandosi tra due
arbusti
secchi. Una volta sbucati dall’ennesimo tunnel, piombarono in
uno
spiazzo colmo di detriti. Incastrata nel cemento, una piccola porta
aveva resistito alla violenza dei bombardamenti che si erano
concentrati in quell’area.
«Non
c’è via di uscita, Ade, spero tu sappia cosa stai
facendo,»
bofonchiò Gordon estraendo il pugnale. Senza guardare in
faccia la
ragazza si mise in posizione di difesa, gli occhi fissi da
dove erano arrivati. Sebastian lo affiancò.
«Sbrigati
ad aprire,» l’incitò l’uomo,
sussultando al ruggito
affamato che si propagò intorno
a loro.
«Quei cosi
sono dannatamente vicini.»
«Sono
tre cicli
che studio questa porta,» lo rimbeccò acida la
ragazza, «mi basta
trovare il pannello che l’alimentava e il gioco è
fatto.» China a
pochi passi dalla porta, Adelhaide, aiutata da Robert,
raschiò il
muro fino a disegnare un contorno quadrato. Entrambi, facendo leva
con un cacciavite, spostarono il rivestimento sotto il quale si
rivelò un mosaico di fili colorati di giallo, verde, blu e
rosso.
Lesta agguantò il coltello a scatto appeso al collo e recise
l’unico
filo multicolore nascosto in fondo a quel groviglio. Con
uno
schianto polveroso, la porta tremò appena sui cardini
arrugginiti.
«Bene,» disse soddisfatta, «il resto lo
dovrà fare la forza
bruta.» E ammiccò ai muscoli che pulsavano sotto
la tuta grigia di
Robert.
Troppo
occupati a smuovere l’ostacolo, nessuno di loro si accorse
che il
più giovane si era infilato in un pertugio finché
un urlo disumano
non si ripercosse tra i tunnel.
«Philipe.»
sussurrò agghiacciato Gordon muovendo dei passi verso
destra.
«Sbrigatevi ad aprire quella dannata porta e tenetevi pronti
al
peggio.»
In
quell’istante, il corpo martoriato del giovane
scivolò fuori dalla
fenditura e Gordon si apprestò a soccorrerlo.
L’uomo non fece in
tempo a inginocchiarsi accanto a lui che due braccia scheletriche
arpionarono le gambe di Philipe. «Aiutami,»
balbettò. Il suo volto
era talmente cinereo che, anche attraverso la visiera sporca di
terra, spiccava il rossore dei brufoli. In un attimo sparì
inghiottito dal buio.
Dopo
un secondo di smarrimento, Gordon raggiunse gli altri. Al suo posto
apparve una creatura orrenda. Era completamente scuoiata, con vene e
muscoli che palpitavano a ogni movimento. Aveva due fosse nere al
posto degli occhi e una bocca larga munita di denti affilati
grondanti schiuma. Intorno ad essa aleggiava del fumo nero che
puzzava di carne bruciata. Se ne stava acquattata sugli arti
frementi, muovendo la testa tozza come quella di un gufo,
osservandoli.
«Entrate,»
bisbigliò ansante Sebastian. «Evitate movimenti
bruschi.» Gli
altri due non se lo fecero ripetere. Gordon, troppo vicino alla
creatura, si mosse piano, gli occhi fissi su di lei, il grosso
coltello saldo tra le dita. «Ci sei quasi, un altro passo e
sei alla
porta,» lo istruì Sebastian.
Da
sopra le loro teste, un involucro scuro volò in un
cantuccio,
lontano dalla porta. La creatura mosse la testa in direzione
dell’oggetto e ruggì forte balzandoci sopra.
Quello fu il segnale
che permise a Gordon di sgattaiolare incolume oltre l’uscio.
Una
volta dentro, chiusero e sprangarono la porta usando alcune delle
scansie che fiancheggiavano le pareti della stanza. Pannelli spenti e
scaffali alti fino al soffitto dividevano l’ambiente in tre
piccoli
vani. Scartoffie e polvere erano disseminati un po’ ovunque.
A
parte la sensazione di abbandono che aleggiava, sembrava che la
guerra non fosse mai arrivata sin lì.
«Per
ora non possiamo fare altro. Trovatevi un giaciglio e cercate di
dormire. Due consigli: non togliete il casco e non aprite quella
porta fino a nuovo ordine!» intimò Gordon prima di
dirigersi verso
un basso mobile senza gambe.
«Che
posto è questo?» chiese Robert ancora atterrito,
mentre si sedeva
in terra con la schiena contro la parete.
«Il
centro operativo, il luogo da cui dipendeva il rifornimento di
energia per l’intera base.» Adelhaide
entrò nel vano più lontano
e rovistò nei cassetti di una scrivania. Tolse dei grossi tomi
ingialliti da uno scaffale, aprì e chiuse dei quadri di
comando
finché non si fermò difronte a una sottile lastra
nera. «Ecco dove
ti avevano nascosto,» bisbigliò soddisfatta.
Afferrò di nuovo il
cacciavite, che portava sempre con sé, e colpì
con forza l’ardesia.
Sotto, fece capolino una pulsantiera dove, in un angolo, tre spie
rosse tremavano come la debole fiamma di una candela.
«Eureka!»
esclamò. «Ragazzi fate buoni sogni, i
miei di certo saranno
meravigliosi.»
In
quel momento,
uno
schianto
fece tremare la
porta mentre
i
calcinacci si staccavano dagli infissi; dei latrati fecero loro
accapponare la pelle.
«Siamo
al sicuro,» mormorò Gordon mentre estraeva il
coltello. «Ma, per
evitare spiacevoli sorprese, è meglio se ci mettiamo tutti
lì
dentro.» Col corpo piegato in avanti, le braccia spalancate e
gli
occhi fissi sulla porta, si appostò davanti al primo vano.
«Entrate,» li incitò,
«è l’unico con una porta munita di
serratura. Per quel che ne sappiamo, nonostante siano molto forti,
non sono in grado di usare una maniglia,» sorrise ferino. I
tonfi
andarono avanti per tutta la notte finché, con
l’apprestarsi
dell’alba, le radiazioni ricominciarono a diventare
insopportabili.
Da
tempo l’uomo aveva abbandonato le zone devastate dalla Terza
Guerra
Mondiale, diventate ormai invivibili. Così la Natura aveva
preso
possesso delle loro macerie. Dalle sue viscere aveva generato nuove
specie: ibridi in grado di resistere al gelo notturno ma incapaci di
sopportare il picco delle radiazioni causato dal calore del sole.
Creature che, all’approssimarsi dell’alba, si
ritiravano nelle
loro tane a centinaia di metri sotto la superficie terrestre. Per
cibarsi macinavano chilometri su chilometri, fino a spingersi ai
margini delle cinte degli agglomerati umani. Nessuno, prima di
allora, aveva conosciuto il loro vero aspetto perché,
chiunque vi si
fosse imbattuto, non era vissuto abbastanza per raccontarlo. Visto la
loro natura erano stati battezzati ironicamente Abali Abali.
La
mattina dopo, i quattro esploratori uscirono dalla stanza con
cautela, preoccupati di trovarsi davanti qualcuna di quelle bestie
acquattate nell’ombra. Erano scesi parecchio nel sottosuolo,
mantenendosi a breve distanza dall’epicentro della Prima
Esplosione, il più umanamente possibile vicino alle sue
radiazioni.
«Mi
sembra che fin qui sia stato tutto fin troppo facile, escludendo
Philipe. Pace all’anima sua,» bisbigliò
Robert mentre guardava
trasognato i graffi profondi sulla porta e sui muri circostanti.
«Beh,
non la chiamerei fortuna. Sono settimane che dispongo esche
alimentari per spostare il loro territorio di caccia. Secondo le
stime, in quest’area, ci sono quasi un centinaio di
esemplari, un
po’ troppi per attraversare la Route 375 e sperare di restare
vivi,» rivelò sbrigativamente Adelhaide.
«Credo sia stato il
girovagare avventato di Philipe a guidarli fino a noi.»
Robert alzò
le mani in segno di resa.
«È
meglio avviarci,» li interruppe Gordon. «Secondo i
miei calcoli,
dobbiamo tornare indietro, prendere il quinto cunicolo a destra e
percorrerlo fino in fondo, dove troveremo ad attenderci
l’ultimo
ostacolo. E qui entrerai in gioco tu, Sebastian.»
«Già,»
disse ergendosi in tutta la sua altezza. «Vedrete un esperto
di
esplosivi all’opera.»
«Scusa,
ma non si era detto che erano vietate le deflagrazioni?»
chiese
preoccupato Robert accodandosi al gruppo.
«In
realtà si tratta più di disinnescare che far
esplodere,» riprese
Gordon. «Per preservare ciò che nascondevano qui,
uno sparuto
gruppo di militari e scienziati, dopo avere fatto evacuare
l’intera
base, si sono barricati all’interno. Non abbiamo idea se
l’intera
struttura sia rimasta integra, dopo la guerra, però sappiamo
per
certo che ciò per cui siamo qui è ancora
intatto.»
«E
come è…»
«Quante
domante, Robert!» sbottò infastidita Adelhaide.
«Sei una palla al
piede! Se avessi letto il fascicolo che vi ho procurato prima di
partire, non saresti così mortalmente noioso. Soprattutto
avresti
evitato di fare la figura dello zotico. Comunque, riassumendo: il
generale Kippler, il valoroso tizio di cui parlava poc’anzi
Gordon,
è un mio lontano parente. Intuendo l’esito della
guerra che stava
per scatenarsi, spedì moglie e figli, e l’intera
documentazione in
suo possesso, in Nigeria. Di tutto il faldone, a noi interessa solo
quello che riguarda il bunker numero 14. È là che
siamo diretti.»
Note
dell’autrice: questa storia partecipa al
contest ‘My
favourite things’ indetto da fiore di girasole sul forum.
Questa
storia partecipa al contest ‘I miei ultimi undici
libri’ indetto
da Claire roxy sul forum con il pacchetto ‘Io sono
leggenda’:
Genere:
Sovrannaturale (vampiri).
Citazione:
‘Poi un giorno il cane non si presentò’.
Ambientazione:
un America post-apocalittica.
Obbligo:
finale negativo.
La
giudice chiede di scrivere una storia basandoci obbligatoriamente su
due dei prompt elencati nel pacchetto, un punto in più a
ogni prompt
aggiunto.
Ulteriori
note: il numero nel titolo non è
lì a caso. Infatti, il 14
è il mio numero preferito e il 41 è il suo
opposto. Inoltre, un
giorno, durante la stesura della storia, ferma in un parcheggio
commerciale, ho notato che il posto auto era, appunto, 1441.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
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