Sei un bugiardo!
Non è vero
che dovevi lavorare fino a tardi.
Sono venuta a trovarti,
ma l'ufficio è chiuso e tu non ci sei.
Non mi piace essere
presa in giro.
Alec Lightwood allontanò il ricevitore dall'orecchio e, per
un istante, fu tentato di scaraventarlo contro il muro. Fece un respiro
profondo e cercò di scacciare l'irritazione che lo invadeva
sempre quando le decisioni venivano prese senza consultarlo.
Alec era un tipo preciso, scrupoloso, metodico. Gli piaceva controllare
le cose, pianificare tutto nei minimi dettagli e ponderare con largo
anticipo ogni mossa, anche quella successiva.
In quel momento, però, niente stava andando come voleva. Era
stato preso completamente in contropiede e, spiazzato, stava faticando
non poco a tirarsi fuori da quella situazione che l'aveva investito
come uno tsunami.
Con un altro sospiro esagerato svuotò i polmoni e si
sforzò di tenere a bada la frustrazione che gli ribolliva
nelle vene. Perdere il controllo non sarebbe servito a nulla. Non con
la persona dall'altro capo del telefono, almeno. No, con lui doveva rimanere
calmo, freddo, lucido. O non avrebbe avuto scampo e sarebbe rimasto
schiacciato dalla sua ferrea volontà di piegarlo al suo
volere.
"E cosa dovrei farmene di questa guardia del corpo?" ringhiò
Alec, tamburellando, nervoso, le dita sul piano lucido della sua
scrivania, sormontata da una montagna di fascicoli e fogli sparsi su
tutta la superficie.
C'era una pila, al suo fianco, che pendeva pericolosamente verso destra
e minacciava di franargli addosso da un momento all'altro. Quello,
però, era l'ultimo dei suoi pensieri, anzi c'era una vocina,
dentro di lui, che gli stava suggerendo che sarebbe stato meglio venire
seppellito da tutte quelle scartoffie piuttosto che affrontare la
catastrofe che stava avendo luogo. Diede un colpetto con l'indice alla
pila, per raddrizzarla alla bell'e meglio, poi prese un matita per
renderla ancora più stabile, ma con scarsi risultati. Dopo
un lungo sospiro e un'occhiata critica, scrollò le spalle,
decretando che non c'era il rischio di morire travolto da decine e
decine di fogli, non per il momento almeno, e tornò quindi a
concentrarsi sulla conversazione telefonica che gli stava
irrimediabilmente rovinando quella domenica mattina.
"E' ridicolo." continuò, appallottolando con una mano un
foglio scarabocchiato, gettandolo poi, con un gesto deciso, nel cestino
ricolmo accanto alla sua gamba.
La voce profonda di Robert Lightwood risuonò dall'altro capo
del ricevitore, calma. "Non è una guardia del corpo, Alec."
lo corresse suo padre, tranquillo. "E' più un.. custode."
specificò, dopo un momento di pausa "Sì, direi
che è la definizione più calzante."
"Ahn-ahn. Certo, come no. E io sono il Presidente degli Stati Uniti!"
lo schernì Alec, secco, roteando gli occhi a quella ridicola
spiegazione.
Suo padre stava tentando di raggirarlo. Era un artista in questo.
Solitamente usava questo trucchetto con il "nemico", ossia i suoi
avversarsi politici, ma, se necessario, non si faceva alcuno scrupolo a
sfruttarlo anche con i membri della propria famiglia, se questo
significava raggiungere il proprio scopo. In quel momento, ad esempio,
sperava di fregare Alec dando un'altra definizione a colui che, a tutti
gli effetti, in realtà era un cane da guardia che ben presto
avrebbe sconvolto la sua tranquilla vita di agente di viaggi. Lui,
però, non ci cascava.
"Alec.." sospirò Robert. "Si assicurerà solamente
che non ti succeda niente." spiegò con tono rassicurante.
"Davvero? E perché questo tizio non custodisce Jace o,
meglio ancora, Izzy? Eh? Perché non va a rompere le scatole
a lei?" chiese Alec, stizzito. "Sono certo che Izzy troverebbe la cosa
estremamente eccitante e divertente, a differenza del sottoscritto!"
"Perché loro non hanno ricevuto minacce di morte."
"Ma quali minacce, per l'angelo!" ribatté Alec, alzando il
tono di voce e sbuffando esasperato. "Stiamo parlando di una stupida
e-mail, papà! Una soltanto! Ed era indirizzata a te, non a
me!"
Suo padre esagerava. Sempre. Era il re indiscusso del dramma. Nessuno
aveva la predisposizione a ingigantire ed enfatizzare qualcosa come
Robert Lightwood e quella situazione ne era il classico esempio
lampante.
Santo cielo, solo perché un tizio, con più di una
rotella fuori posto, gli aveva inviato un'e-mail, in cui lasciava
intendere che conosceva l'attività di Alec, sembrava che, di
lì a poco, stesse per avere luogo l'Apocalisse e che i
quattro cavalieri fossero pronti a squarciare il cielo con le loro armi
da guerra e scendere sulla terra per seminare morte e distruzione.
"Alec, questo tipo di intimidazioni non vanno prese alla leggera." si
giustificò Robert.
"Papà, apprezzo la tua preoccupazione per me, davvero, ma
non sono più un bambino. So badare a me stesso! Senza
contare che si è trattato sicuramente di un brutto scherzo e
nulla di più!" rispose Alec con convinzione, evitando
accuratamente di menzionare ciò che aveva trovato sopra la
tastiera del suo PC.
Lei,
infatti, era stata lì.
Alec si rigirò, tra le dita, uno dei suoi tanti biglietti da
visita della sua agenzia di viaggi, Cacciatori di sogni.
Questo, però, era diverso da tutti gli altri: nella parte
immacolata, che si trovava sul retro del cartoncino, minacciose
lettere, scritte con inchiostro rosso, marchiavano, enormi, lo spazio
color avorio.
Non era firmato, ma Alec non aveva dubbi su chi fosse la mittente.
Lydia Monteverde gli aveva chiesto un appuntamento ogni giorno da
quando era entrata la prima volta nel sua agenzia, due mesi addietro,
per informazioni su una vacanza.
Era successo anche il giorno prima e, ancora una volta, Alec aveva
rifiutato con educazione, adducendo l'ennesima scusa per non cenare con
lei.
Trascurando il fatto che quella ragazza non era decisamente il suo
tipo, visto che Alec preferiva tratti ben più mascolini,
c'era qualcosa, nel suo comportamento, che l'aveva messo in allerta fin
dal loro primo incontro e ora sapeva che il suo istinto non si era
sbagliato: l'interesse di Lydia, nei suoi confronti, si stava
trasformando in morbosa ossessione e Alec iniziava a sentirsi davvero a
disagio per quella situazione.
Non era affatto preoccupato che gli potesse succedere qualcosa, no,
questo no, ma era spiacevole doversi continuamente "difendere" da
quegli attacchi indesiderati. Non gli era mai capitato di essere
l'interesse amoroso di nessuno, non nel senso romantico del termine
almeno, e di certo non aveva alcuna intenzione di iniziare a esserlo
ora. Soprattutto se quelle attenzioni arrivavano da una ragazza, per
l'angelo!
Incastrò la cornetta del telefono tra l'orecchio e la spalla
e strinse le labbra in una lunga linea sottile, mentre rileggeva il
messaggio delirante che aveva davanti, guardandosi poi nuovamente
attorno, con uno strano senso di inquietudine. Come diavolo aveva fatto
a entrare? La serratura era intatta e non c'era alcun segno di
effrazione. Nulla era fuori posto e tutto sembrava come l'aveva
lasciato il giorno prima, a parte il biglietto con le lettere scarlatte
scritte a caratteri cubitali, che era stato incastrato tra i tasti
della tastiera del suo computer. Il pensiero che quella donna potesse
avere accesso al suo ufficio, in ogni momento, lo infastidì
e turbò al tempo stesso.
Fissò, pensieroso, lo sguardo fuori dalla finestra, dove la
vita trascorreva tranquilla, almeno rispetto a quanto stava succedendo
dentro al suo ufficio. Un pallido sole domenicale accompagnava la
giornata dei newyorkesi, che, carichi di sacchetti colorati e
indaffarati a chiacchierare con il proprio accompagnatore o a parlare
al telefono, affollavano il marciapiede al di là del vetro.
Quell'usuale e pacifico tran-tran era in netto contrasto con
l'atmosfera che stava respirando Alec, carica di tensione ed
elettricità. Improvvisamente il moro desiderò
essere lì fuori.
Il lungo silenzio dall'altra parte della linea ebbe il potere di
riportarlo bruscamente al presente e di focalizzare la sua attenzione
su ciò che stava accadendo in quel momento. Alec sapeva
bene, infatti, che suo padre stava per passare all'attacco, ponderando
con attenzione le prossime parole che gli avrebbe rivolto.
Robert Lightwood era un uomo che raramente agiva d'impulso: il suo
autocontrollo era proverbiale e soppesava ogni parola prima di
pronunciarla, stando sempre attento ai toni e ai contenuti delle
proprie dichiarazioni. Anche per questo era uno dei favoriti, tra i
vari candidati che si sarebbero contesi l'ambita poltrona al Senato
alle prossime elezioni.
"Alec, chiunque ci sia dietro a questa faccenda, sa benissimo che il
modo migliore per colpire me è colpire i miei cari."
mormorò Robert, con un esagerato sospiro melodrammatico.
Alec irrigidì le dita attorno al biglietto da visita che
aveva in mano, intuendo la nuova tattica dell'uomo: far leva sul suo
senso di colpa. Era un comportamento sleale.. e così tipico
di suo padre!
Non sapeva se Lydia c'entrasse qualcosa o meno, ma lo sconosciuto che
aveva inviato l'e-mail a Robert non aveva rivolto nessuna reale
minaccia ai suoi familiari, perciò Alec sapeva di non essere
davvero in pericolo e trovava, quindi, assurda l'idea di vedersi
affibbiare una guardia del corpo. Non ne aveva bisogno. Era un uomo,
per l'angelo! Nel caso in cui ci fosse stato davvero un pazzo che
l'aveva preso di mira, lui era capacissimo di badare a sé
stesso. Era alto e ben piazzato e poteva stendere tranquillamente
qualsiasi aggressore osasse anche solo avvicinarsi. Non era affatto la
damigella in pericolo che suo padre si ostinava a pensare, dannazione!
Al contempo, però, c'era una parte di lui, quella diligente,
quella che faceva sempre la cosa giusta, quella che metteva la famiglia
prima di tutto, che non voleva assolutamente far preoccupare l'uomo
dall'altro capo della cornetta, che già viveva un momento
stressante, tra la gestione dell'azienda di famiglia, la corsa al
Senato e le minacce dello sconosciuto.
Suo padre non era sempre stato un genitore affettuoso e presente nella
vita dei propri figli. Votato al lavoro, aveva dedicato alla propria
società e alla propria scalata politica molto più
tempo e molte più energie di quelle che aveva riservato ad
Alec e ai suoi fratelli, ma il ragazzo sapeva che, a modo suo, voleva
loro bene e lo sentiva davvero preoccupato, forse memore di quanto
successo dieci anni prima, quando uno sconosciuto aveva assassinato il
membro più piccolo della famiglia Lightwood, Max.
Un'ondata di dolore minacciò di soffocare Alec,
trascinandolo in un abisso buio e freddo. Nonostante fosse passato del
tempo, quell'episodio l'aveva segnato nel profondo e, da quando non
c'era più Max, il moro era cambiato. Non che prima fosse
l'anima della festa ogni qual volta entrasse in una stanza, eh. No, lui
non era mai stato come suo fratello Jace, che sembrava brillare di luce
propria tanto era splendente, né tantomeno aveva il carisma
e l'autostima di sua sorella Isabelle, che sembrava avere un enorme
cartello lampeggiate sopra la testa con su scritto "Lo so! Lo so! Sono
fantastica!", ma perlomeno riusciva a sorridere alle battute e a
sostenere una conversazione che durasse più di due frasi
fatte. Dopo la scomparsa di Max, invece, Alec si era chiuso in se
stesso, diventando apatico. Per un certo periodo non gli era importato
nulla di vivere e aveva addirittura sperato di raggiungere il
fratellino, ovunque lui fosse. C'era voluto del tempo prima che,
lentamente, riprendesse i contatti con la realtà e, anche se
qualcuno (sua madre) riteneva che la sua non era comunque un qualcosa
che si potesse definire vita, ma una sorta di ritiro, di sospensione,
ad Alec non importava. Certo, gli dispiaceva moltissimo non riuscire a
toglierle quello sguardo preoccupato ogni qual volta coglieva i suoi
occhi posati su di lui, ma si sentiva impotente a cambiare quella
situazione. E, a dirla tutta, non era neanche sicuro di volerlo fare.
Prese un respiro profondo e accantonò con forza tutti quei
pensieri, riportando la sua attenzione al presente e sul fatto che
aveva il forte sospetto che Robert stesse sfruttando, forse
inconsapevolmente, la situazione in cui si trovavano in quel momento
per cercare di essere il tipo di padre che avrebbe voluto e dovuto
essere dieci anni prima.
Fin dall'infanzia, il loro rapporto era stato piuttosto anaffettivo e
sbrigativo. A causa del suo lavoro, Robert non aveva mai avuto tempo di
andare a vedere il piccolo Alec praticare il tiro con l'arco, il suo
sport preferito in assoluto, o portarlo allo Yankee Stadium a
vedere una partita di baseball della sua squadra del cuore, i New York Yankees.
Non c'erano mai stati abbracci caldi o coccole prima di andare a
dormire, né discorsi di incoraggiamento quando un compito
non era andato come avrebbe voluto, nonostante il moro avesse studiato
come un dannato. Per gran parte della sua vita, Alec aveva dovuto
combattere per affermare la propria indipendenza e le proprie
capacità. Suo padre aveva sempre preteso da lui dei
risultati assurdamente alti e non si era mai fatto scrupolo di
criticarlo aspramente ogni volta che il ragazzo non raggiungeva gli
standard richiesti.
L'entrata nella fase adolescenziale aveva incrinato maggiormente quel
fragile legame di sangue, che era peggiorato drasticamente dopo il
coming out del moro, avvenuto a diciassette anni, ed era stato quasi
del tutto reciso quando Alec aveva dichiarato, orgogliosamente, che non
sarebbe entrato nell'azienda di famiglia nemmeno per tutto l'oro del
mondo.
Per Robert era stata una mazzata tremenda scoprire che al suo
primogenito non interessava minimamente entrare in società
con lui e, soprattutto, che gli piacessero i maschi. No, era
assolutamente fuori discussione che suo figlio, sangue del suo sangue,
non solo non avrebbe mai garantito il proseguo della stirpe Lightwood,
con numerosi nipoti maschi, ma sarebbe stato addirittura condannato
alla dannazione eterna, ardendo nelle fiamme dell'inferno, a causa
della sua condotta peccaminosa e immorale.
La tragedia familiare che li aveva colpiti, però, li aveva
avvicinati come niente altro avrebbe potuto fare e, negli anni, la loro
relazione era migliorata a tal punto che suo padre aveva iniziato a
scherzare sul fatto che Alec fosse uno zitello impenitente
e che sarebbe diventato un vecchio rugoso prima di vederlo in abito
nuziale, accanto all'uomo della sua vita.
"Per favore, Alec." lo stava pregando Robert, con tono accorato. "Fallo
per me. Fallo per tua madre."
Alec sospirò profondamente. Anche tirare in ballo sua madre
era un'altra mossa sleale tipica di Robert. Suo padre sapeva benissimo,
infatti, che il moro si sarebbe strappato il cuore dal petto per Maryse
Lightwood e che non avrebbe mai fatto nulla (non intenzionalmente,
almeno) che l'avrebbe fatta soffrire o preoccupare.
Sua madre era stata la sua più preziosa alleata, insieme a
sua sorella Isabelle, nel delicato processo di scoperta del proprio
orientamento sessuale, facendogli da scudo ogni qual volta Robert
scagliava contro di lui tutta la propria frustrazione e Alec gliene
sarebbe stato sempre grato per questo. Era stata Maryse la prima spalla
su cui aveva pianto tutte le sue lacrime amare e disperate, quando
aveva scoperto di essere gay, ed era stata sempre Maryse a spronarlo a
non arrendersi alle prime difficoltà e a spingerlo a
inseguire i suoi sogni e a essere felice. Se era l'uomo che era
diventato, seppur apparentemente incompleto, lo doveva a lei.
"E va bene." concesse alla fine il moro, rassegnato, dopo un lungo
momento. "Gli permetterò di venire con me al lavoro e dare
un'occhiata veloce al mio appartamento, quando rientrerò, ma
nulla di più. Non vivrà con me."
"Perché no?" chiese Robert, sorpreso. Non contento di averla
appena spuntata sulla questione guardia
del corpo, suo padre era già passato a un nuovo
obiettivo. "Casa tua è grande abbastanza per entrambi! Ci
sarebbe sicuramente spazio anche per lui e.."
Alec roteò gli occhi. "Papà!" lo
bloccò. "Prima di tutto il mio appartamento non è
affatto grande. Per l'angelo, ci sto a malapena io e.."
"Te l'ho sempre detto che posso aiutarti a prenderne uno più
spazioso." lo interruppe Robert.
"Papà!" lo rimbeccò Alec, esasperato. "Per
favore, non riapriamo questo vecchio discorso!"
"Ma Alec.."
L'appartamento di Alec era una delle tante battaglie che suo padre
soleva intraprendere contro di lui. A Robert sarebbe piaciuto
comprargli una casa enorme, sfarzosa, moderna, con un numero infinito
di stanze e aggeggi tecnologici inutili. Il moro però aveva
sempre rifiutato: a lui piacevano le sue quattro mura sgangherate, che
sembravano stare su per miracolo, e il suo divano malconcio, pronto per
la discarica.
"E, secondo.." continuò Alec, ignorando le proteste del
padre. "..non permetterò a uno sconosciuto di gironzolare
per casa mia o per la mia agenzia. Spaventerebbe i clienti!"
"Ma per favore!" ribattè suo padre, con uno sbuffo.
Anche la sua amata agenzia di viaggi, ereditata direttamente da nonna
Phoebe Lightwood, era sempre stato uno motivo di disputa piuttosto
"infuocato". Fin dalla sua nascita, infatti, Robert aveva dato per
scontato che Alec, un giorno, avrebbe preso il suo posto
nell'attività di famiglia, ma il moro aveva sempre avuto ben
altre ambizioni. Il ragazzo, infatti, adorava il lavoro della nonna
nell'aiutare le persone a realizzare il loro sogno di viaggiare e
affiancarla, in quella particolare e magica missione, l'aveva coinvolto
fin dall'infanzia, dove, alto come un soldo di cacio, si arrampicava
sulla scrivania dell'anziana donna per rispondere al telefono e
proporre le mete più esotiche che gli venivano in mente in
quel momento.
"E comunque non è uno sconosciuto." continuò
Robert. "Te l'ho detto, è il figlio di.."
"Di quel tuo vecchio compagno d'armi in Marina. Sì, lo so.
Me l'avrai ripetuto almeno cinque volte."
"Si chiama Magnus, è un militare e dovrebbe arrivare domani
mattina, alle otto in punto. Per favore, Alec, sii gentile con lui." lo
esortò Robert, anche se quelle parole suonarono
più come un ordine che un'accorata raccomandazione.
Alec inspirò bruscamente. "Io sono sempre gentile!"
ribatté con prontezza, accigliandosi subito dopo,
palesemente risentito, quando sentì dall'altra parte della
linea la risata allegra di suo padre, malamente camuffata con un colpo
di tosse. "Ehi! Ti stai prendendo gioco di me?"
"Oh, per l'angelo, ma guarda un po' che ore sono!" esclamò
la voce divertita di Robert. "Ti devo proprio lasciare, figliolo. Ho un
appuntamento urgente." chiosò furbescamente. "Io e tua madre
non vediamo l'ora di vederti! Ci sentiamo presto! Ciao!"
"Cosa? No! Non abbiamo ancora fin.."
Si udì un clic, poi il segnale che la comunicazione era
stata interrotta. Alec mormorò un verso strozzato, mentre
fissava, attonito, la cornetta ormai muta.
Sospirò per la milionesima volta, poggiando la fronte sugli
avambracci incrociati sopra la scrivania, e tentò di
scacciare tutti i pensieri negativi su Lydia e sullo sconosciuto che,
indirettamente, gli stava creando non poche seccature. Quella giornata
era cominciata in modo davvero pessimo ed erano solo le nove di mattina.
Dopo un lungo momento di pace, il telefono iniziò a suonare
nuovamente. Alec allungò stancamente una mano e si
portò il ricevitore all'orecchio, senza neanche alzare la
testa.
"Pronto?" rispose, con voce funebre.
Era così di cattivo umore che, nonostante fosse il giorno di
chiusura, non si era nemmeno presentato con la solita frase di cortesia
che usava sempre, meccanicamente, quando il telefono dell'agenzia
squillava.
"Alec?" chiese, titubante, una voce familiare.
"Sì." confermò il ragazzo, con un tono che
arrivava direttamente dall'oltretomba.
"Stai bene?"
"Ahn-ahn."
"Sicuro?"
"Sì."
"Uhm.. se lo dici tu. Comunque, per l'angelo, è da un'ora
che cerco di chiamarti! Si può sapere che ci fai in ufficio?"
Alec sospirò, raddrizzandosi sulla poltrona e massaggiandosi
il setto nasale. "Ciao, Iz."
"Ciao?" chiese Isabelle, sul piede di guerra. "Alec, perché
sei lì?" ripeté nuovamente, con tono accusatorio.
"Sto solo sistemando alcune scartoffie e mettendo un po' a posto
l'ufficio." si difese Alec, con un sospiro stanco.
Il moro sentì, in modo chiaro, la sorella minore sbuffare
pesantemente. "Oh, Alec.. l'agenzia non andrà in rovina se
ti prendi un giorno di riposo." lo ammonì dolcemente.
Alec sorrise. Isabelle Lightwood era fatta così: nonostante
fosse il fratello maggiore, vivesse da solo da anni e decidesse della
sua vita da molto di più, sua sorella si preoccupava per
lui, sempre. Le crociate di Isabelle, contro lo stacanovismo fraterno,
erano ormai diventate una prassi domenicale e la ragazza non mancava
mai di assicurarsi che non si stancasse eccessivamente, rimproverandolo
senza indugio quando lavorava troppo.
La quantità di lavoro che si stava accumulando sopra la
scrivania di Alec, però, aumentava di giorno in giorno e, se
non avesse approfittato del suo unico giorno libero, il moro sapeva
che, di certo, tutte quelle pratiche non si sarebbero svolte da sole,
ma, anzi, sarebbero diventate una pila imponente che sarebbe arrivata a
sfiorare il soffitto. Toccava a lui portarle a termine.
E, d'altro canto, era anche giusto così. L'agenzia di viaggi
era una sua responsabilità e, a differenza dei fratelli, non
aveva alcuna vita sociale che lo aspettava dopo il lavoro: non aveva un
fidanzato con cui passare il tempo né una moltitudine
impressionante di amici con cui uscire o cose davvero interessanti da
fare. Era un tipo solitario che amava la sua tranquilla routine, il suo
lavoro, gli inviti a pranzo o a cena dei genitori e passare il tempo
con i suoi fratelli. Una vita semplice, insomma.
Per amore di cronaca, andava detto che i fratelli avevano tentato, in
più di un'occasione, di alleviare la sua solitudine,
incoraggiandolo a uscire e organizzandogli qualche appuntamento
galante, ma Alec oramai era diventato un vero esperto nel sviare tali
inviti, anche perché, quelli in cui erano riusciti a
incastrarlo, convincendolo a presentarsi, erano finiti tutti in modo
disastroso.
Sua sorella diceva che era troppo esigente, che le sue aspettative per
un semplice appuntamento spensierato erano troppo alte, ma lei non
aveva mai avuto a che fare con quegli individui, per l'angelo! Non era
colpa di Alec se quegli incontri erano finiti male: gli erano capitati
i peggiori maschi in circolazione, santo cielo! Uno viveva ancora con
la mamma, un altro aveva parlato a vanvera per tutta la sera, senza mai
fermarsi o porgli qualche domanda per sapere qualcosa di più
sul suo conto, e un altro ancora era più interessato
all'aspetto dei propri capelli che a chiacchierare con lui. Il peggiore
di tutti, però, era senza ombra di dubbio l'ultimo con cui
avevano tentato di accasarlo: un biondino che aveva passato una
mezz'ora buona ad annusarsi le ascelle, prima di schiaffargliene una in
faccia e chiedergli, dubbioso, "Secondo te, puzza?". Alec
ricordò di aver appoggiato la tazza del suo té
caldo sul tavolo e, schifato, di essersi alzato e di essersene andato
senza dire una parola.
Insomma, già era difficile essere gay, con tutto il pesante
bagaglio che ne conseguiva, figurarsi se si sarebbe accontentato del
primo idiota che quelle spine nel fianco gli spingevano a forza tra le
braccia. Non era mica così disperato! Non aveva bisogno del
loro intervento inopportuno e, il più delle volte,
imbarazzante. Se voleva, sapeva trovarselo da solo un uomo, per
l'angelo! Solo che, in quel momento, non sentiva tutta quella
necessità di appiccicarsi a qualcuno, e rinunciare alla sua
libertà, ecco.
"Avevi bisogno di qualcosa?" chiese alla sorella, per evitare la solita
ramanzina che, era certo, sarebbe arrivata da lì a poco.
"Cosa? Oh, sì!" esclamò Isabelle. "Hai sentito
Jace? Ho provato a contattarlo non so quante volte, ma è da
ieri che mi sta evitando!"
"Non ti ha ancora fornito la lista, eh?" chiese Alec, con un sorriso
che la sapeva lunga.
Jace era il loro fratello adottivo. Si sarebbe sposato tra un mese e
Isabelle si era offerta di organizzare a lui e alla fidanzata,
nonché segretaria di Alec, Clary Fairchild, una festa di
fidanzamento per il sabato seguente. Peccato che il biondino, in due
settimane, non avesse ancora fornito l'elenco dei suoi invitati a
Isabelle, dando la colpa al suo lavoro di agente di polizia, che lo
teneva impegnato costantemente ventiquattro ore su ventiquattro.
"Ho i fornitori che mi stanno con il fiato sul collo e non so
più quale scusa inventarmi, per l'angelo!"
sbraitò Isabelle, seccata. "Giuro che se non me la spedisce
entro oggi lo strangolo, anche se è un agente di polizia!"
"Gli manderò un messaggio." promise Alec, ridacchiando, per
poi tornare serio quando adocchiò nuovamente il biglietto di
Lydia. "Ah, Iz, quando parli con Simon, gli accenni per cortesia che
voglio installare un sistema d'allarme in ufficio?"
Il fidanzato di Isabelle, Simon Lewis, lavorava per una
società di sicurezza e Alec era certo di potersi fidare di
lui e della sua esperienza al fine di essere più discreto e
veloce possibile nel montare l'antifurto.
"Un sistema d'allarme?" chiese Isabelle, sbalordita. "Ha a che fare con
l'e-mail ricevuta da papà?"
Alec roteò gli occhi. "No e non voglio parlare di lui. Sai
che mi ha imposto una guardia del corpo a causa di quella stupida
e-mail?" si lagnò, stizzito. Il moro sentì
chiaramente sua sorella inspirare bruscamente e poi emettere un
singulto. Alec scostò la cornetta dall'orecchio per
fissarla, quasi avesse potuto vedere Isabelle al suo posto, poi la
riportò dov'era. "Stai.. stai ridendo?" le chiese, tra il
sorpreso e l'offeso.
"Cosa? No!" esclamò Isabelle, lasciandosi scappare un verso
stridulo.
"Non c'è niente da ridere!" ribatté Alec,
indignato. "E' inaccettabile che papà vìoli la
mia privacy in questa maniera, obbligandomi a ospitare un perfetto
sconosciuto in casa mia!"
"Aspetta, dormirà da te?" chiese Isabelle, lasciando perdere
ogni freno e ridendo apertamente. "Oh per l'angelo! Non vorrei essere
nei suoi panni!"
"Scusa?" domandò Alec, sbalordito. "E con questo, cosa
vorresti dire?"
"Oh, Alec, lo sai che ti voglio un bene dell'anima, sul serio, ma devi
ammettere che non è facile interagire con te. Ti chiudi a
riccio e mordi chiunque osi anche solo avvicinarsi a dieci metri dalla
tua persona."
"Cosa? Ma non è vero! " si difese Alec, indignato.
"Quel poveretto patirà le pene dell'inferno."
continuò Isabelle, allegra.
"Beh, nessuno lo obbliga a venire! Non ho bisogno di lui!"
Isabelle ridacchiò. "Quando dovrebbe arrivare?"
"Domani. Alle otto." rispose Alec, tetro.
"Voglio una sua foto!" pretese Isabelle, divertita.
"Cosa? No! Non gli farò alcuna foto!" protestò
Alec, scandalizzato.
"Oh, vabbè! Tanto lo vedrò comunque!"
dichiarò la ragazza, compiaciuta. "Ma, se non è
per l'e-mail, perc.. aspetta! Non dirmi che lei è
ritornata alla carica!"
Alec sospirò. Isabelle era l'unica, tra amici e parenti, a
essere a conoscenza dell'esasperante ossessione che Lydia aveva per
lui. L'aveva scoperto per puro caso, quando, un giorno in cui dovevano
pranzare insieme, aveva notato gli appostamenti della bionda davanti
alla sua agenzia di viaggi. Da quel momento, sua sorella non mancava
mai di esternare tutta la sua preoccupazione per quella spinosa
situazione ed era quindi del tutto inutile tentare di nasconderle il
biglietto che aveva trovato quella mattina. Primo, perché
sua sorella era dotata di un sesto senso che, in più di
un'occasione, gli aveva fatto venire i brividi, ed era certissimo
quindi che avrebbe fiutato la novità anche dalla cornetta
del telefono, e, secondo, perché, una volta scoperto il
tutto, si sarebbe di certo esibita in una sceneggiata epocale sul fatto
di non essere stata messa al corrente dei nuovi sviluppi.
"Sì. Non so come, ma è entrata qui dentro e.."
"Aspetta! Aspetta! COSA??? E' entrata nella tua agenzia?"
urlò Isabelle, spaccandogli un timpano.
"Iz, non serve gridare in questo modo." implorò Alec,
massaggiandosi il padiglione auricolare.
"Sì, sì, scusa." tagliò corto
Isabelle. "Come diavolo ha fatto quella tizia a entrare?" chiese,
moderando il tono di voce.
"Non lo so. Ho controllato da cima a fondo, ma non ci sono segni di
effrazione." rispose Alec, guardandosi attorno, per l'ennesima volta,
alla ricerca della più minima traccia del passaggio della
ragazza. "L'ufficio è a posto." la rassicurò. "Ha
solo lasciato un biglietto."
"Un biglietto? Che tipo di biglietto?" chiese Isabelle, preoccupata.
Alec glielo lesse. "Non è niente di serio, comunque. Non
preoccuparti." minimizzò, tentando di tranquillizzarla.
"Alec! Quella psicopatica ti perseguita da mesi! Ora è
entrata nel tuo ufficio per lasciarti un messaggio minatorio e io non
dovrei preoccuparmi?" berciò Isabelle, tornando ad alzare la
voce. "Grazie a cielo da domani hai una guardia del corpo, ma la tua
agenzia.. Ah, ma adesso ci penso io! Dirò a Simon di venire
domani stesso!"
"Ma.." protestò Alec, debolmente. "Potrebbe già
avere degli appuntamenti fissati. Sul serio, Iz, non è
urgente e.."
"Domani mattina sarà lì!" ripeté
Isabelle, con tono autoritario.
Alec sospirò. Non voleva farla preoccupare né
tantomeno seccare Simon con qualcosa che, forse, non era davvero niente
di serio, ma sapeva, però, che far ragionare Isabelle,
quando si metteva in testa una cosa, era impossibile. Era identica a
Robert! "Ti ringrazio." mormorò quindi, rassegnato.
"Ma ti pare! Ehi, ti va di venire a pranzo da noi, oggi?" gli propose,
dolcemente. "Cucino io!"
Alec sbarrò gli occhi e iniziò a sudare freddo.
"Cu-cucini tu?"
"Sì!" esclamò Isabelle, entusiasta. "Ho trovato
questa ricetta su internet, per fare la pasta al forno, che
è favolosa! Sembra davvero facile da preparare!"
"Beh.." rispose Alec, schiarendosi la gola. "Ho.. ehm.. credo.. beh..
sai.. volevo.." balbettò, alla ricerca spasmodica di una
scusa qualsiasi.
Sua sorella era strepitosa in tutto, davvero, e Alec l'amava
moltissimo, ma quella benedetta ragazza non sapeva distinguere il sale
dallo zucchero e una volta era riuscita persino a bruciare una pentola
con dentro della semplicissima acqua. Isabelle Lightwood era totalmente
negata nell'arte culinaria e ora voleva preparargli la pasta al forno?
No, Alec era troppo giovane per morire.
"Ho.. ecco.. non posso. No. Sai.. ehm.. uhm.. sì.. ecco..
ah! No, non posso! No, no! C'è questa gara di tiro con
l'arco che comincia alle undici e non so davvero quando
finirà. Ecco.. sì.. sai com'è..
ehm..sì, insomma.." Alec aveva sparato la prima cosa che gli
era venuta in mente. Il tiro con l'arco era una delle sue
più grandi passioni e, tutto sommato, non era poi
così improbabile che andasse davvero ad assistere ad una
gara. "Mi piacerebbe andare a vederla. Già. Sì,
mi piacerebbe molto. Ecco. Quindi.. ehm.. non posso, no."
"Che peccato!" rispose Isabelle, dispiaciuta. "Però, ora che
mi ci fai pensare, è meglio così!"
"P-perché?" indagò Alec, preoccupato.
"Beh, perché così possiamo cenare insieme una di
queste sere. Con la tua guardia del corpo!" dichiarò
Isabelle, prendendolo in contropiede.
"Una.. una di queste sere? Uhm.. non so.. forse.. sai.. uhm.. non credo
che.. beh.. ecco.. ehm.. dobbiamo.. sì, insomma, dobbiamo
vedere come va e.."
"Ah, sciocchezze! Vedrai che gustosa cenetta ti preparerà la
tua sorellina!" gli assicurò Isabelle, tutta felice.
"Beh.. ecco.. Iz, non credo che.." esalò Alec, stringendo
spasmodicamente il biglietto di Lydia.
"Ora ti devo lasciare! Ci sentiamo più tardi, ok? Ciao,
fratellone."
"Ciao." mormorò Alec, piano, incapace di proferire un'altra
parola.
Una spasimante ossessionata da lui, uno sconosciuto che lo minacciava
indirettamente tramite e-mail, un cane da guardia pronto a
stravolgergli la vita e ora l'invito di Isabelle. Perché
Alec non era rimasto a letto quella mattina?
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