Zagara e ricordi.

di Pblcstrlrrj
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La primavera quell’anno sembrava bussare solo timidamente alle porte, mentre il profumo di zagara volteggiava nell’aria frizzantina, senza meta.
 
Attraversare il piccolo giardinetto che portava ai tre scalini della casa paterna, accompagnato dal fischiettare spensierato di Don Franciscu, era quasi un atto dovuto dopo i tre anni trascorsi senza mettere più piede nella terra natale. Avrebbe sicuramente preferito prolungare la convalescenza del suo cuore ferito, ma non poteva rimandare ancora i suoi obblighi di figlio, ignorando le richieste sempre più disperate di una madre apprensiva che chiedeva con insistenza se anche quel Natale non fosse sceso. 
« Neanche quest’anno vieni, gioia mia? Fallo per la mamma, zuccaratu.» 

 
E lui l’aveva fatto. Aveva digitato, cercando di riflettere il meno possibile, il numero della sua carta prepagata sul computer, prenotando il primo volo per Palermo. 
Non tornava da quando era scappato. Tornare gli aveva ricordato il perché, come il peggiore dei codardi, aveva cercato di procrastinare il più possibile il suo rientro. L’affezione per Milano era un ottimo capro espiatorio, così come un lavoro che prosciugava più energie di quanto non ammettesse a nessuno. Era l’unica àncora che gli aveva permesso di affondare le radici nella terra lombarda e non poteva permettersi di sradicarle proprio in quel momento. Il vento era a suo favore, per una volta. Navigare in acque tranquille era una discreta garanzia per continuare ad investire emotivamente lontano da casa. Difficilmente sarebbe tornato, nonostante le continue pressioni di una madre ormai rimasta sola con il rimorso di non aver aiutato quel figlio fragile e volenteroso di costruire un futuro florido in una terra che non fosse così arida. La Sicilia era il luogo dell’infanzia più serena che un bambino potesse chiedere a Dio e dell’adolescenza più carogna che si potesse mai immaginare. La giovinezza gli aveva sussurrato, durante la notte, la richiesta di un futuro migliore e lui l’aveva accontentata. Non avrebbe mai dimenticato il momento esatto in cui la sua coscienza gli aveva urlato l’aiuto più disperato che avesse mai udito. 

 
Respirò profondamente, cercando di scacciare l’amaro ricordo di un’umiliazione senza eguali. Chissà se ridevano ancora di quel finocchio giustiziato emotivamente in pubblica piazza in un processo in cui lui era l’unico imputato senza avvocato e unica vittima di una perorazione omofoba a cui non aveva potuto controbattere. Aveva ascoltato la sentenza a testa bassa ed era corso via tra schermaglie e risate. 
 
Non ricordava molto, di quella giornata. Aveva forse fatto il letto quella mattina? Aveva salutato quella megera della sua vicina di casa o aveva già litigato con la nonna? 

Chiudendo gli occhi, rivide solo quel piccolo quadrato circondato da piante e panchine, con il monumento dei caduti in guerra sulla sinistra; un esercito di adolescenti inferociti gli lanciava addosso libri, matite e astucci accompagnati da esclamazioni poco ortodosse. La sua mente sembrava aver rimosso il dolore fisico delle percosse, riservando un posto speciale a quello del suo ego e animo insicuro, in quel momento estremamente ferito. Gli sembrava di poter rievocare, a distanza di anni, le immagini psichedeliche che avevano annebbiato i suoi occhi verdi durante quel pomeriggio dopo scuola. I suoi compagni gli sembravano marionette dal volto arcigno e il sorriso sinistro, mosse dal puparo dell’istituto. In coro urlavano insulti e maledizioni per quelli come lui. Gli sembravano tanti pupi dalle dimensioni mastodontiche, che si agitavano in sincrono, rispondendo agli ordini di chi spostava sapientemente le fila per ferirlo. 
 
 
Quello stesso pomeriggio, dopo aver pianto ore sul seno prosperoso della madre, incredula e comprensiva, era sceso da Don Santu, per rispondere ai suoi doveri di garzone e aiutante. Non aveva voglia di vedere quei baffi sporchi di segatura e lo sguardo intelligente di chi sapeva inventare storie partendo dal legno umido. Entrò con gli occhi ancora gonfi dentro il piccolo e angusto spazio che il proprietario settantenne aveva sistemato con cura durante il corso della sua vita professionale. Era una meravigliosa falegnameria con pupi colorati in ogni angolo. Sembravano fissarlo giudicanti, ma quel giorno non avevano storie da mostrare. E lui non aveva voglia di osservarne ancora.

Aiutò Don Santu con mani tremanti, mentre dipingeva le sopracciglia nere e folte di quelle maledette marionette. Le odiò ancora di più. Quando partì, a Don Santu disse che non aveva spazio in valigia per portarne una con sé. «Figgiuzzu mia, mancu una?», «Neanche mezza, mi spiace».
Aveva fatto le valige a settembre, solo quattro anni più tardi da quel pomeriggio assolato infinito, con il diploma in tasca e la voglia di ricostruirsi una personalità da zero e dimenticare a cosa e a chi apparteneva. Non aveva dimenticato la promessa di preservarsi dalle malignità. La stessa che lo aveva portato a rimandare per anni l’abbraccio caldo di una madre affettuosa, l’unica isola felice in quel marasma di ricordi repellenti che avevano annientato ogni reminiscenza di felicità.
«Finalmente, gioia da mamma. Quanto ti sei fatto alto! E ‘sta barba. Va fattilla subitu chi pari un lupinario
«Mi eri mancata anche tu, mamma», sorrise. 
 La zagara non aveva mai avuto un profumo così dolce. 
 




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