Accade per errore.
Non dovrebbe, non gli è consentito e il solo averlo pensato (da
solo, con la propria volontà, senza che nessuno lo programmasse per
quello) lo potrebbe portare sulla sedia.
Ma quando accade, lui è
solo.
All’inizio è rumore
bianco, un’interferenza ronzante tra i silenzi neri di un sonno
senza sogni, artificiale. Sul comodino è rimasto il cadavere
della siringa che gli hanno sparato in vena quando lo hanno messo a
dormire.
Per precauzione, gli
hanno detto, quando in realtà sa benissimo che è per cancellare i
residui di memoria che la criogenesi gli ha ghiacciato nel cervello.
Qualsiasi cosa fosse è
riuscito a stenderlo – i battiti del cuore hanno rallentato, l’aria
intorno a lui si è fatta solida, pesante e si deposita sul fondo dei
polmoni come macigni umidi; sulla pelle si sono formati i primi
brividi, il freddo l’ha riconosciuto come un vecchio crudele amico,
l’unico che finora non l’abbia mai abbandonato.
Qualsiasi cosa fosse,
ha pensato lo avrebbe ucciso.
Invece è vivo, anche se
il freddo lo lascia tremante nella camera di un vecchio ostello
della periferia di Mosca e quella che inizialmente era partita come
un’interferenza si trasforma in un fischio acuto, un picchetto
conficcato nei timpani che una mano invisibile spinge, ruota e
affonda pian piano.
Spalanca gli occhi, si
preme le orecchie, stringe i denti e combatte il dolore.
Qualcosa non va.
Respira ed eppure gli
sembra di essere sott’acqua, schiacciato da metri e metri e metri e
metri di oceano che gli stanno facendo saltare i timpani.
Nel dolore si guarda
intorno. Letto, finestra sbarrata, armadio con un unico cambio,
tavolino sgangherato, sacchetto in terra con del cibo, cartelletta
di cartone, valigia, armi, un telefono sul comodino.
Per un attimo qualcosa
riesce a penetrare tra le spine ed il gelo e il braccio sinistro si
muove a tentoni. Sbaglia mira, fa cadere la cartelletta e i file si
spargono in terra in un tappeto di carta.
Deglutisce saliva che
gli percorre la gola in una lentezza lancinante, viscidamente, come
bava di lumaca.
Finalmente le dita
trovano la cornetta, quasi la spezzano in due quando la stringono
per portarla all’orecchio. Gli sfugge e la tiene ciondolante per il
filo.
«U… upravleniye…
poletom[1]…» Deboli falcate russe cavalcano a fatica la
lingua. Una nebbia fitta inizia ad ammassarsi in testa e le parole
spariscono, non ricorda come pronunciarle e come esprimere concetti
che, invece, gli si mostrano più naturali in inglese. «Co…
controllo… missione… qua… qualcosa non va… in me…»
Il pavimento si
avvicina con prepotenza e una macchia rossa si apre tra piastrelle a
scacchi.
- - -
Si risveglia una
ventina di minuti dopo.
Un fastidioso
formicolio gli percorre la mano destra con cui ha trascinato il
telefono nella caduta. Nel petto il cuore non è più così lento e il
sangue inizia a rifluire più facilmente lungo i vasi sanguigni,
schiarendogli lentamente la nebbia in cui è stato avvolto fino ad
ora.
Qualunque cosa gli
abbiano iniettato sta finendo il proprio effetto.
Quando cerca di tirarsi
seduto in terra, la cornetta gli sfugge dalle mani.
È allora che lo sente.
Che accade.
«Pronto? Stai bene?
È successo qualcosa? Pronto?»
Una voce straniera –
inglese, traduce senza pensarci – filtra gracchiante attraverso la
cornetta.
La guarda senza capire.
La voce dall’altra
parte della linea si fa più alta.
«Ho sentito qualcuno cadere.
Voglio solo accertarmi che sia tutto a posto… oh maledizione… non
tenermi qui a parlare da solo!»
C’è un tremore che non
fa parte degli effetti dello schifo che gli hanno iniettato, ma gli
avvolge l’intero braccio sinistro, mandando in cortocircuito i
collegamenti tra cavi e nervi. Usa la destra per obbligare la mano a
rimanere ferma, guidandola all’orecchio.
Non parla.
L’uomo dall’altra parte
della linea è un errore, un intoppo che dovrebbe cancellare
chiudendo la chiamata e che invece, in perfetto silenzio ascolta a
bocca aperta, con la sensazione di poter ingoiare le sue parole.
«Ehy… ci sei, vero?»
Si allarma. Dall’altra
parte hanno sentito la sua presenza e sa che non è possibile, che
nessuno può essere così recettivo. A meno che non sia un
nemico.
L’attimo dopo, telefono
e cavo vengono sradicati dal muro e fatti a pezzi in un lancio che
termina contro l’armadio.
- - -
La doccia dell’ostello
è fredda e l’acqua odora di ruggine.
Rimane sotto il getto a
occhi chiusi, lavandosi di dosso il sangue del target che ha
eliminato.
Ha già contattato il
Controllo Missione per avvisarli che il target rimasto verrà invece
terminato tra una settimana, durante la sua visita programmata al
Cremlino.
Al termine della
missione lo rimetteranno a dormire nel ghiaccio, finché non avranno
di nuovo bisogno di lui.
Passeranno mesi. Anni.
Dall’ultima volta ne sono passati due. Due anni, otto mesi,
quattordici giorni, diciotto ore e mezzo. E un secondo. Due
secondi. Tre secondi. Quattro secondi…
Si ritrova a contare a
ritmo delle gocce che gli picchiettano la testa a getto appena
spento. Grasse gocce gelide della consistenza di proiettili gli si
annidano tra i capelli e colano giù, seguono l’ovale del volto,
rigano il collo, scivolano tra i pettorali o si incastrano dove gli
orli della carne si uniscono alle placche di metallo del braccio
sinistro.
Scrolla la testa, è il
massimo che concede ai capelli per scuoter via l’acqua, poi si
asciugheranno da soli.
L’asciugamano che
afferra lo lega alla vita e quando torna in stanza punta al letto,
dove gli abiti sono spiegati ordinatamente sulle lenzuola, sagomando
il corpo di un uomo invisibile.
Ai piedi del letto ha
sistemato gli anfibi. Il pugnale è sul comodino accanto a un
telefono che gli è stato reinstallato quella stessa mattina, quando
ha sbattuto sul bancone una mazzetta spessa di rubli sovietici.
“Telefonnyye zvonki
predlagayutsya domom[2]”
hanno biascicato con professionale disinteresse da dietro al banco,
degnandolo di un’occhiata veloce terminata al suo cenno d’assenso.
Non riesce a spiegarsi
cosa lo spinga a sedersi a bordo materasso e girare il disco per
comporre un numero quasi a caso. Cerca di ricalcare i gesti del
giorno prima – mezzo giro, un giro intero, un altro, un quarto di
giro, un secondo mezzo giro…
E quando porta la
cornetta all’orecchio, annulla completamente il proprio fiato e la
propria esistenza in quella stanza.
La prima risposta è un
minaccioso tu-tu-tu, come se sapessero cosa sta
facendo. (E non dovrebbe, non dovrebbe, non dovrebbe…)
Un click.
Qualcuno risponde. Un
uomo. Le interferenze grattugiano via lettere e parole qua e là.
«Pro – to? Cosa
vuoi, chi s – e perché mi disturbi proprio – sto effettuando
un’operazione di importanza vit –» la frase s’interrompe, l’uomo
cambia bersaglio e pare rivolgersi a qualcun altro «Ti consiglio
di non toccarlo, pal, se ci tieni alla conta completa delle
tue dita.»
La voce non è la stessa
del giorno prima. In fondo le probabilità che ricomponesse il numero
corretto erano troppo basse.
Poi, però, distante e
filtrato come se parlasse attraverso una risma di pergamene, si fa
strada una seconda voce dai toni più caldi. Non capisce cosa dica e
l’uomo al telefono lo interrompe. «Giusto, sì, tieni, parlaci tu
e senti che vuole, vah. La linea è così disturbata che potrebbero
star chiamando da Timbuctù.»
Una pausa e, infine, la
seconda voce rifluisce dalla cornetta direttamente nel suo orecchio.
«Sì, pronto, chi
parla?»
Ci impiega un istante
per codificare la lingua e ritornare sui propri passi. Non è
inglese. È americano.
«Pronto? Howard in
questo momento è occupato, potete lasciare un messaggio e vi
ricontatterà. Pronto? C’è qualcuno in linea?»
Tace.
Qualsiasi cosa quella
voce fosse riuscita a percepire il giorno prima, questa volta non la
sente e dopo pochi secondi dall’altra parte riagganciano con un
sospiro e un frusciare di abiti che potrebbe essere l’equivalente di
una scrollata di spalle.
Aspetta prima di
risistemare la propria cornetta. Si assicura che la linea sia
tornata muta e con calma la riaggancia.
Si veste in silenzio,
gesti fluidi e veloci con cui assicura anche le armi alla cintura e
alle cinghie dietro la schiena.
Si sdraia sopra le
coperte, chiude gli occhi e si impone di dormire.
- - -
La porta si apre
lentamente. Nello spiraglio che si forma passa dita di metallo,
scende di taglio all’altezza della maniglia e stringe il fil di
ferro per allontanarlo dalla trappola che non è scattata.
Nessun altro è entrato.
Dopo aver terminato il
primo target è diventato più cauto.
Il Commando Missione lo
ha informato che alcuni membri della sua squadra sono stati
ricollocati per motivi di sicurezza. Di lui, però, non sembra
essersi accorto nessuno – è un fantasma che cammina oltre il velo,
se glielo ordinassero sarebbe perfino in grado di piroettare a
braccetto con la Morte.
Una volta richiusa la
porta e risistemata la trappola, poggia sul letto il borsone con
l’equipaggiamento. Tra le armi c’e un fucile di precisione che ha
acquistato quella stessa mattina.
Ne possiede già uno.
Questo, però, ha attirato la sua attenzione.
Americano. A otturatore
girevole-scorrevole. Calcio ancora in noce. Una R incisa sulle parti
di metallo.
Quando inizia a
smontarne velocemente le parti, è convinto di averlo già fatto
prima, di aver già sentito la consistenza della canna sotto le dita
e aver già guardato attraverso il mirino ottico di uno Springfield
M1903[3].
Scuote il capo, sa che
è impossibile. Dev’essere un’anomalia di sistema creata in
lui a causa della voce dell’uomo americano. Ha mandato su di giri la
propria programmazione.
Eppure anche con le
mani occupate in uno smontaggio e rimontaggio automatico, lo sguardo
finisce sempre per cadere sul telefono a dischi.
Verrai punito. Ti
porteranno alla sedia. La sedia. La sedia. La sedia.
Continua a ripeterselo
come un mantra, ma è una partita in cui non ci mette cuore e che
perde nel momento in cui alza la cornetta, componendo il numero.
«Pessimo tempismo
amico pronto.»
Riconosce la voce
dell’uomo che ha classificato come “Padrone di casa”. Quello che
cerca lui è “La Voce”.
«Allora? Puoi non
crederci amico, ma non ho tutto questo tempo. Pronto?»
Riaggancia, Soldato!
Gli urla una parte del proprio cervello, quella ormai danneggiata
dalle scosse.
La lingua, però,
assapora il nuovo accento americano, rauco, come un fumatore con i
polmoni anneriti dalla nicotina.
«Sto cercando l’uomo
che era lì con lei ieri.»
La pausa al di là della
linea ha un tono pensoso. «Steve?»
Steve. Se lo
ripete mentalmente, finché non decide che quel nome gli piace. «Sì.»
«E che affari
avresti con Steve?»
«Affari che non ho con
lei.»
«In questo caso hai
fatto il numero sbagliato, pal. Ritenta e sarai più
fortunato.»
Serra le labbra.
Padrone di casa sta per riagganciare.
Passano, però, pochi
secondi e lo sente sospirare scettico.
«Sei ancora lì?»
«Sì.»
Un sospiro pesante.
«Sai che ti dico… E sia! Ti accontento solo perché sono curioso di
sapere come va a finire ‘sta telefonata.»
Lo sente allontanare la
cornetta dalla bocca e rivolgersi a qualcuno che risponde con
impeccabile accento inglese, sparendo altrove in un rumore di passi
che percorrono delle scale.
Ci vogliono tre minuti
perché La Voce si affacci al telefono – e quando la sente è come
aver invitato il sole nella propria stanza.
«Ro…s»
La linea grattugia via
gran parte della parola, forse un cognome e poco altro.
«Chi parla?»
Qualcosa gli piega
dolorosamente le labbra. Non si rende conto di cosa possa essere
finché non le preme contro la parte bassa della cornetta: sulla
plastica, l’alone rimasto ha la forma di un sorriso minuscolo.
«James.»
C’è una lunga pausa,
diversa da quelle di Padrone di casa. È pesante, difficile,
sofferente. Sente lo scricchiolio della plastica e sa che l’uomo sta
stritolando la cornetta.
«S-scusa… la linea
è… – è disturbata e ti sento male. Non ho capito il tuo nome. »
«Non fa niente.» Non lo
ripete e per qualche motivo La Voce non glielo richiede.
«Cosa posso fare per
te?»
James allontana di
colpo la cornetta. Non si aspettava quella domanda e la vena di
terrore che ha pulsato in sottofondo fino a quel momento diventa
forte quanto il rullo di un tamburo.
Cosa sta facendo? Non
dovrebbe parlare con quella persona.
Cosa. Diavolo. Sta.
Facendo.
«Ehy, ci sei
ancora?»
Riporta cautamente la
cornetta all’orecchio.
«Sì.»
«Bene, mi stavi
preoccupando.» Pausa. James la interpreta come un’altra ondata
di dolore. «Per caso ci conosciamo?»
«No.»
«E hai chiesto di me
per un motivo preciso?»
«Volevo sentire la tua
voce.»
«Che razza di…
cos’è, uno scherzo?»
«No.»
La pausa questa volta è
per decidere se credergli o meno. James riesce a immaginare le
sopracciglia aggrottarsi su un volto sfocato, come se si trovasse
dietro a un vetro appannato. Lo immagina anche con corti capelli
biondi e occhi azzurri, ma sono solo colori senza vere e proprie
forme.
«E ora che hai
sentito la mia voce, che succede?» Il tono è diventato
diffidente.
«Posso chiamarti di
nuovo?»
«Cosa?»
«Domani.»
«Sei serio?»
«Sì.»
«Senti, sono
lusingato, davvero, ma questa non è nemmeno casa mia e io ancora non
so nemmeno chi tu sia.»
«Non sono nessuno di
importante.»
«Forse non te ne
rendi conto, ma non è una buona risposta.»
James tace.
«Dico sul serio,
anche volendo non potrò rispondere domani. Non sarò qui.»
James annuisce alla
stanza. Voleva sentire la sua voce e l’ha fatto, è più di quanto gli
sarebbe permesso. Molto – troppo – di più. Può farselo bastare.
La Voce, però, torna a
rimescolargli ogni certezza, gettando da parte ordini, addestramenti
e torture, per poter ottenere la sua completa attenzione.
«Puoi chiamarmi dopo
domani, va bene? Sempre a quest’ora, cercherò di esserci.»
James riesce a sentirlo
di nuovo: sulle labbra, timido e quasi invisibile a chi non sa cosa
cercare, nasce un sorriso.
«Va bene.»
- - -
I due giorni passano
stranamente lenti.
Non può mettersi in
contatto con gli uomini che gli hanno affiancato finché non gli
verrà dato il via libera. Da solo, ha ricontrollato il percorso, le
vie di fuga, le zone per l’appostamento e ha lasciato nascosta in un
posto sicuro, lungo il percorso, una delle armi di marca russa,
qualora rimanesse disarmato prima della fine della missione e della
sua estrazione.
Qualcosa si muove sul
corridoio fuori dalla sua porta.
Seduto a gambe
incrociate sul letto, scatta dritto con la schiena e infila la mano
sotto al cuscino.
Qualcuno bussa alla
porta. «Uborshchitsa[4].»
Si rilassa quando
riconosce il tono laconico della donna delle pulizie.
«Net, dvigaysya dal'she[5]»
risponde, il russo privo di accenti.
Aspetta che si sia
allontanata, con gli occhi che non abbandonano la porta e la mano
che rimane stretta al calcio dell’arma.
Conta mentalmente alla
rovescia da venti, prima in russo, poi in inglese e infine lascia
lentamente la presa alla pistola.
È l’occhiata
all’orologio a rilassarlo davvero. Le spalle mantengono una linea
dritta, tesa, ma sul volto si fa largo un’espressione meno compunta.
Quando compone il
numero sul telefono, è sicuro che non passino nemmeno due secondi
prima che rispondano con una risata nervosa e un insulto rivolto a
qualcuno che non è James.
È confuso. In qualche
modo devono saperlo anche dall’altra parte perché tossiscono,
cercando di darsi contegno.
«Scusa. Cioè,
pronto? Sono Steve, sei tu, vero?»
È La Voce ad aver preso
parola.
Sullo sfondo, James
riesce a sentire qualcuno urlare qualcosa come “l’appuntamento delle
due!” in tono allusivo. Dà per scontato che si tratti di Padrone di
casa.
«Sono io.» conferma,
anche se “io” è una definizione vaga.
«Bene. Allora eccomi
qui.»
In nessuna delle
missioni di James sono mai state necessarie le chiacchiere. Conosce
al tatto almeno un centinaio di tipi di arma, può maneggiare pugnali
e coltelli da cucina allo stesso modo ed è in grado di uccidere un
uomo a mani nude. Parlare, se non strettamente necessario, non
rientra tra le sue mansioni.
È un’arma, a nessuno
interessa cos’abbia da dire una pistola, un missile sottomarino o un
carro armato, solo che faccia ciò per cui è stata creata.
Il lungo silenzio che
ne deriva deve aver messo La Voce a disagio, perché è lui il primo a
spezzarlo.
«Posso farti una
domanda? Da dove chiami? Ogni volta che ti sento respirare c’è una
scarica rumorosa che mi assorda e per un momento la linea va via.»
«Non sono in America se
è quello che vuoi sapere.»
«Davvero? Ma sei
americano, giusto? Perché parli bene la mia lingua.»
«No.»
«No, non sei
americano?»
«No, non puoi farmi una
domanda.»
La Voce ride. Ha una
risata soffice e anche se James capisce che non lo fa per prenderlo
in giro, ma perché è stato preso in contropiede, si affretta a
scusarsi di nuovo.
Aggrotta la fronte.
Preferirebbe non lo facesse, non è sicuro di meritare le sue scuse.
«Allora di cosa vuoi
parlare? Puoi dirmi almeno come hai avuto questo numero? Sono
abbastanza sicuro che Howard non sia sull’elenco telefonico.»
«Ero svenuto e quando
mi sono svegliato ho sentito la tua voce.»
La linea viene
attraversata dal rumore statico. La Voce non parla più e il silenzio
improvviso mette James in allarme. Ha detto troppo? Era tutta una
farsa per scoprire se avrebbe ceduto? L’Hydra ha intercettato la
telefonata e lo puniranno?
Quando La Voce riprende
parola, il cuore gli è salito alle orecchie e il battito rende più
difficile capire cosa stia dicendo. Gli ha chiesto qualcosa sul
giorno in cui è svenuto, gli ha chiesto se fosse lui che ha sentito
cadere e altro che non ha capito.
James si aggrappa con
entrambe le mani alla cornetta.
«Sì.»
E chiude gli occhi,
aspettando di sentire ordini in russo fuori dalla porta che urlano
di catturare l’Asset, cancellargli la memoria e metterlo sotto
ghiaccio.
Invece accade qualcosa
di straordinario: la Voce sospira di sollievo e nel tono c’è
qualcosa di simile alla contentezza.
«Allora eri tu; mi
fa piacere sapere che tu sia ancora vivo. Ma come hai fatto a
rintracciare questo numero, cercavi di chiamare il 911? O qualsiasi
sia il vostro equivalente?»
«Circa.»
«Ora stai bene?»
«Sì. Ti sei
preoccupato?»
«Ovvio. Tu sarai
anche svenuto, ma io ho sentito il tonfo e non è stato un bel suono; ho seriamente pensato ti fossi rotto qualche osso. Ti ho anche
sentito mormorare qualcosa, ma probabilmente eri già privo di
sensi.»
«Cosa dicevo?»
La Voce inspira piano e
quando esala lo fa sussurrando, quasi avesse paura di farsi sentire
dallo stesso James. «…aiutami.»
Se non fosse
programmato per non sentire niente (non è davvero così, ma se smette
di crederci finirà in pezzi), forse James sarebbe arrossito.
Eppure china il capo,
respirando direttamente nella cornetta e agitando labbra da cui non
esce alcuna parola. Non sa cosa dire.
«Hey, va tutto bene.
Adesso è passato, no?»
«Sì.»
«Bene. Allora dimmi,
che cosa stavi facendo? Posso chiedertelo?»
«Mi stavo preparando.»
«A cosa?»
«A chiamarti.»
Nel balbettio poco
comprensibile che le interferenze si mangiano, percepisce la
sfumatura imbarazzata.
Nella propria mente,
James spennella di rosso zigomi alti, li inserisce in un ovale,
arrotonda il mento e marca la mascella per rendere il volto più
virile – ma rimane la bozza di un uomo immaginario.
«Sei un tipo strano,
te l’ha mai detto nessuno?»
«No.» E forse gli piace
che sia lui il primo (l’unico) a dirglielo.
«Che ore sono lì?»
«È tardi. Non posso
dirti di più.»
«Perché no?»
«Perché sembri uno che
sa fare di calcolo e potresti scoprire dove sono in base al mio fuso
orario.»
«Che lavoro hai
detto che fai, per essere così paranoico?»
Tace e La Voce deve
aver capito l’antifona, perché gli sembra di sentirlo scuotere la
testa, arrendendosi al fatto che non sarà così facile estorcergli
informazioni.
James scivola
lentamente sdraiato sul letto.
«Devo chiudere.»
E nonostante sia stato
lui ad annunciarlo, è il primo a faticare per accettarlo. Vorrebbe
poter continuare la chiamata per sempre, si accontenterebbe di
ascoltare anche solo il respiro della Voce attraverso la sabbia
bianca della linea disturbata per tutta la notte e lo troverebbe
comunque rilassante.
«Aspetta, prima
dimmi solo un’altra cosa: hai intenzione di chiamare anche domani?»
Tira un’occhiata al
muro accanto alla porta; mancano quattro giorni alla X rossa
tracciata sul calendario.
Si lecca le labbra, la
lingua che rimane accoccolata sul labbro inferiore per qualche lungo
secondo, mentre assapora l’idea. Sta già tirando troppo la corda… ma
perché no.
Per la sedia!,
urla il cervello, ma con un grugnito, James lo mette a tacere.
«Ti dà fastidio?»
«No, non volevo dire
questo. È solo… niente. Cercherò di esserci anche domani,
d’accordo?»
«D’accordo.»
«Allora buonanotte.
Si adatta come saluto?»
«Sì, è adatto.»
«Bene. Buonanotte.»
Anche se non può vederlo, riesce a sentirglielo nella voce il
sorriso.
Quando la telefonata si
chiude James sente di poter dormire più serenamente.
- - -
Il minuscolo tavolino
sgangherato ospita i resti della sua cena: chicchi ancora duri di un
plov poco cotto e ancor meno condito e una bottiglia
calda e semivuota di kvass[6]
comprata nel pomeriggio.
È uscito
a sgranchirsi le gambe. Con un fiddler[7]
calcato in testa si è assicurato di passare inosservato, ha vagato
per le strade secondarie di Mosca, si è infilato in un minimarket e
ha comprato qualcosa da mangiare che non avesse il sapore di merda
della minestra acquosa che servono alla mensa dell’ostello.
Quando è ora, prende
posto al bordo del letto, le mani che già ruotano il disco del
telefono, componendo lo stesso numero americano delle sere passate.
«Ohi?»
«Cerco Steve.»
«Certo che cerchi
Steve, a chi importa che questa sia casa mia e che voi due
piccioncini stiate approfittando della mia generosità?»
Tace. Ha già capito che
basta il silenzio perché Padrone di casa smetta di dargli contro.
«Ok, Tùpiem,
vado a vedere che fine ha fatto.»
«Tùpiem?»
«Visto che qualcuno
fa tutto il misterioso e si rifiuta di dare il proprio nome, mi
tocca trovare un altro modo con cui chiamarti. Non si accettano
lamentele.»
Se Padrone di casa si
aspettava un commento, ne rimane deluso.
James incassa con
silenzioso disinteresse e rimane in attesa, finché non sente l’uomo
allontanarsi.
Spinge i sensi
all’estremo, stampa con forza la cornetta all’orecchio e concentra
ogni sforzo sull’udito.
Scariche sfrigolanti,
rumore di passi e coloriti rimbrotti distanti di Padrone di casa che
ancora si lamenta di chi ha preso casa sua per un dannato
centralino. Ad ammansirlo la solita voce inglese con la proposta
di preparare tea per tutti, a cui Padrone di casa rilancia chiedendo
che gli sia portato caffè nero e il suo taglia-sigari.
Infine il rumore della
plastica che struscia sul legno è così vicino che quasi esplode
nelle orecchie di James, costringendolo ad allontanare la cornetta.
«Scusa se ti ho
fatto aspettare.» La Voce parla con affanno.
«Hai corso?»
«Più o meno.»
una mezza risata, bassa, imbarazzata. «Ho perso tempo a togliermi
la divisa e cambiarmi.»
«Quale divisa?»
Dall’altro lato riesce
a sentire il suono del dubbio. La Voce sta decidendo se rispondere.
Come rispondere.
«Sono un soldato.»
E James non potrebbe
esserne più stupito.
Più preoccupato.
Più deluso.
Più fottuto.
Non c’è nulla di peggio
di un soldato americano. Non c’è nulla di peggio di un soldato
americano lasciato in vita.
«Ti piace?»
«Mi fa sentire
utile, è come se finalmente la mia vita avesse uno scopo che prima
potevo solo intravedere.»
James serra i denti e
deglutisce a vuoto. Da un angolo della mente, il Soldato d’Inverno
gli elenca ogni modo possibile in cui poter uccidere la Voce –
dovrai farlo prima o poi. Lo ucciderai come hai ucciso tutti gli
altri. Hail Hydra. Hail Hydra. Hail Hydra…
«Non hai la voce di uno
che ama uccidere.»
«Infatti non ne
traggo alcun piacere. Non mi sono arruolato per uccidere, l’ho fatto
per difendere gli oppressi e proteggere tutto quello che mi è caro,
che sia la libertà della mia nazione o le persone che vi vivono.»
«Suona come un
manifesto di reclutamento.»
«Davvero?»
La Voce ride – una
risata calda, una risata che James ingoia mordendo la base della
cornetta – e il fatto che siano nemici ai due lati di una scacchiera
perde nuovamente ogni importanza.
Tra qualche giorno
dimenticherà perfino che sia esistito un soldato americano con la
voce più calda e dolce che abbia mai sentito.
«Scusa. Non sto
cercando di arruolarti.»
«Perché no?»
«Perché non spetta a
me, né a dire il vero a nessun altro. La scelta dovrebbe essere tua
e tua soltanto.» una pausa, poi, con un tono curioso «È il
primo argomento che ti fa parlare più del solito. È un problema se
sono un soldato?»
«Non lo so. Spero di
no.»
«Lo spero anche io.
E spero anche che Howard non ti abbia dato troppo filo da torcere
prima. È piuttosto nervoso oggi.»
Padrone di Casa si
inserisce nel discorso, gridando da quello che sembra l’altro angolo
di una stanza piuttosto ampia e James riesce a sentire a malapena
qualcosa sull’importanza di mandare avanti un’industria che porta il
suo nome.
La Voce ride.
James no, ma in
un’altra vita lo avrebbe fatto.
Parlano a lungo questa
volta, parlano di cose innocenti, di cani, di caffè, di donne
perfino, anche se quest’ultimo argomento si chiude in fretta e
nessuno dei due ne appare particolarmente interessato.
Quando chiude la
chiamata, James fissa il soffitto, dipinge orli sbiaditi di un volto
e gli chiede di fargli visita nel sonno. Non crede in Dio, Dio lo ha
abbandonato tanti anni fa e al suo posto si è fatta avanti l’Hydra –
l’Hydra è il suo dio, il suo credo, la sua chiamata. Ma se
solo esistesse un altro dio, allora che gli lasci trovare La Voce
nei suoi sogni.
«Steve…»
- - -
L’illusione è terminata
troppo presto.
Non sa che ore siano
quando gli incubi lo ributtano alla realtà.
Urla, afferra il
pugnale legato alla cinta e, cieco nel buio, lo scaglia contro il
muro. La lama penetra per sette centimetri nella parete.
Affannato, James ne
osserva il profilo, tenendo fisso lo sguardo sul manico, quasi ad
aspettarsi la mano di qualcuno che lo sfili e glielo punti contro.
È solo in quella
stanza. Solo con scartoffie di una missione alla cui fine mancano
meno di un centinaio di ore. Solo col pensiero che cancelleranno di
nuovo la sua esistenza dal mondo, che lo ripuliranno di ciò che non
è necessario, lo metteranno a dormire nel ghiaccio e, una volta
prigioniero della criogenesi, La Voce non potrà più raggiungerlo.
Sta solo rimandando
l’inevitabile.
Sta solo coprendo con
un cerotto una ferita già infetta.
- - -
James non mette più
mano al telefono della stanza né il giorno dopo, né quello dopo, né
quello dopo ancora.
Al quarto giorno, un
telegramma viene consegnato alla sua porta.
Commando Missione
conferma l’eliminazione del target in giornata e le coordinate in
cui dovrà recarsi per riunirsi al resto della squadra.
Ha un paio d’ore per
prepararsi, ma gli bastano dieci minuti per raccattare la propria
roba.
Una volta sistemato
tutto nell’unico borsone con cui è arrivato, si siede al letto.
Dritto, gambe piegate a novanta gradi, schiena stirata, braccia
contro i fianchi, occhi alla porta.
Nella coda dell’occhio
rientra la curva bianco sporco del telefono a dischi sul comodino.
Non capiterà di nuovo.
Non ricorderà più nulla
la prossima volta che lo rimetteranno in pista.
Non sentirà più la
sua voce…
- - -
Ha composto il numero
quasi tremando, cercando di convincersi a buttare giù prima di
ricevere risposta.
La prima cosa che sente
attraverso il ronzio della linea disturbata, sono le blue note
di un sassofono e una canzone registrata su un 45 giri.
Poi di colpo, gli
esplode nell’orecchio l’accento newyorkese di Padrone di casa.
«Ti prego amico,
dimmi che sei l’uomo del mistero e metti fine alle mie sofferenze.
Sono un padre di famiglia, ormai, non ho bisogno di stare ad
ascoltare anche il pianto di Capt… ah. Ma sei tu, vero? Ti riconosco
dalla linea oscenamente disturbata.»
James, stordito, sbatte
le palpebre e mette insieme l’unica parola che gli serve
pronunciare. Steve.
«Sempre di poche
parole, pal. Te lo passo, te lo passo. Ma ti prego non spezzargli
così il cuore dandoti alla macchia e saltando le vostre chiacchierate
amorose, diventa una pena guardarlo.»
James non coglie
l’ironia, né si preoccupa di interpretarla.
Come al solito, aspetta
paziente che Padrone di casa passi la cornetta e quando La Voce
risponde, il petto gli viene liberato da un peso che non sapeva di
avere fino a quel momento.
«Credevo non avresti
più –»
«È l’ultima volta.»
«Come hai detto?»
«Volevo sentire la tua
voce per l’ultima volta.»
«Perché? Cos’è
successo? Sei forse in pericolo? Posso aiutarti.»
«No, non puoi.»
«Ti assicuro che –»
«No.»
«Bucky, ti prego!»
«Chi è Bucky?»
La Voce si spegne di
colpo. È come se finora fosse stata alimentata da una fiamma e
all’improvviso qualcuno vi avesse soffiato sopra, spegnendola,
lasciandoli entrambi al buio.
James schiaccia la
cornetta contro l’orecchio.
«Steve.»
A quel punto è sicuro
di aver appena sentito il debole suono di un singhiozzo.
La Voce… Steve, sta
piangendo.
È qualcosa che sente a
malapena, è più che altro una sensazione e James è quasi sicuro non
ci siano lacrime sul volto dell’uomo, eppure saperlo lo strazia e
fissa il telefono ad occhi spalancati, senza sapere cosa fare o cosa
dire affinché La Voce (Steve, Steve, Steve, non dimenticare che
si chiama Steve) smetta di piangere.
«Non volevo.»
«Non… non hai fatto
niente. Scusa. Sono… è… non è colpa tua, ok? Su questo devi
credermi.»
«Ok.»
«È solo che mi
ricordi una persona, si chiamava come te.»
James si trattiene dal
dirgli che non si chiama Bucky, ma Steve lo precede: «James…»
Allora lo aveva
sentito.
«È morto qualche
anno fa… È morto perché non sono riuscito a salvarlo.»
«Eravate legati?»
«Più di quanto
chiunque potesse immaginare.»
«E ora vorresti salvare
me?»
«Potresti almeno
lasciarmi provare.»
«Non c’è niente da
salvare.»
James chiude gli occhi,
cerca di immaginare come sia essere legati a qualcuno. In un certo
senso lo è anche lui, è incatenato all’Hydra, inchiodato a padroni
che possono disporre di lui nel modo che più aggrada loro.
Sa che non è la stessa
cosa, ma non si permette di fantasticare di poter essere quel James,
di essere legato a un uomo dalla voce calda che piange per lui.
Sarebbe troppo doloroso. Anche se, in fondo, chi meglio di lui
conosce il dolore?
«Se fossi lui, cosa gli
diresti?»
Steve non ha nemmeno
bisogno di rifletterci quando si pronuncia con voce tremante, tra
singhiozzi masticati e male ingoiati che rendono le pause ancora più
lunghe.
«Perdonami.
Perdonami. Perdonami. Perdonami. Perdonami. Perdonami. Oh Dio, Buck,
ti prego perdonami.»
James si passa il
braccio sugli occhi.
Il kohl che li imbratta
per nascondere ogni dettaglio che la maschera non copre, gli macchia
la manica del giaccone.
«Devo andare.»
Non vorrebbe, ma se
rimane finirebbe per chiedergli dove si trova, qual è il suo nome
completo, come può rintracciarlo, dove possono incontrarsi…
Se rimane, finirebbe
per aggrapparsi alla stupida, futile idea di poter essere salvato.
L’Hydra lo punirebbe
per aver osato tanto e ucciderebbe Steve davanti ai suoi occhi per
insegnargli a non desiderare, non volere, non essere.
«Steve?»
«Sono… sono qui.»
Appoggia la parte
superiore della cornetta alla fronte, e la bocca preme contro la
parte inferiore. La tiene di fronte a sé e ad occhi chiusi dipinge
un volto: occhi azzurro cielo, capelli dorati come il grano e una
bocca morbida e sottile contro cui posa la propria.
«Ti perdono.»
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