Martedì,
3 gennaio 2012
“Mi
piace tantissimo Beatrice! Anche Iris..., e Laura!”. Michelle e
Cecilia stanno parlando di nomi per bambini, sedute sul divano
accanto a me, mentre Vero è affacciata alla finestra a fumare,
e gli altri si stanno sfidando alla Play.
Io
non ho voglia né di parlare (tantomeno di piscioni), né
di giocare, né di beccarmi del fumo passivo, e me ne sto sulle
mie. Siamo a casa di Riccardo, in taverna, e io a dirla tutta non ci
volevo nemmeno venire. Volevo starmene a casa con la mamma, e invece
lei mi ha praticamente costretto ad uscire. Come promesso, ieri dopo
la chemio è tornata a casa, e ha pure controllato i miei
compiti di latino (erano pieni di errori, però almeno ho fatto
tutti gli esercizi), ma poi se n'è stata a letto per tutto il
tempo e non ha nemmeno cenato con noi. Anzi, non ha cenato proprio. E
anche oggi non sta bene: la gialla l'ha ridotta uno straccio
ed è stata per tutta la mattina sul divano, alzandosi però
di continuo per andare a vomitare.
Io
ho provato a rendermi utile in qualche modo, ma lei mi ha detto che
voleva starsene da sola e che ero più utile se uscivo con i
miei amici, che lo sapeva che si riunivano tutti da Riccardo. Non so
come l'abbia saputo o da chi. Da Boccaccia Larga, probabilmente. Da
chi altri sennò? Io ho insistito per restare a casa con lei,
ma a quel punto ha perso la pazienza e ha detto che se non mi
toglievo di torno, piuttosto si faceva ricoverare in ospedale, così
almeno là poteva starsene tranquilla. E così alla fine
sono uscito e sono venuto qua, ma non ne avevo per niente voglia, e
mi girano le palle a elica.
“A
me piace Ginevra” dice Cecilia con aria sognante, abbracciando
un cuscino. “Come la regina di Artù.”
“Ginevra
era una spaccapalle!” si intromette Vero, buttando fuori dalla
finestra il mozzicone di sigaretta. “Morgana sì che era
una gran figa, ma gli uomini non capiscono mai un cazzo.”
“Mattia,
hai sentito?!” gli domanda Alberto ridendo, mentre Vero chiude
la finestra e viene a sedersi in braccio a me; io le appoggio una
mano sulla vita e l'accarezzo distrattamente. “Pare che avrai
una figlia spaccapalle!”
“Eh?!”
chiede lui che è concentrato a giocare a Fifa. “Cazzo!
Mi hai fatto sbagliare!”.
Daniele
ride e gli dà una gomitata. “C'è qualcosa che non
sappiamo?”
“E
piantatela, su!”.
Di
solito mi divertono quando fanno i coglioni, anzi, diciamo che mi
diverto a fare il coglione pure io, ma oggi mi danno solo fastidio e
non mi viene per niente da ridere.
“Ci
fai diventare tutti zii?!” esclama Riccardo dandogli uno
scappellotto.
“È
più facile che lo faccio io!” ribatte Daniele ridendo.
“Fidati!”
“Ma
smettetela che siete tutti vergini!” dice Vero togliendosi le
scarpe.
“Perché,
tu no?” le chiede lui con un sorriso malizioso.
“Chissà...”
risponde lei facendo battere il piercing contro ai denti; poi si gira
verso di me, appoggiando i piedi sul divano, e mi bacia, ma ha
l'alito che sa di sigaretta, e mi dà fastidio.
“Sai
di fumo” le dico spostando la testa per non baciarla.
“Mamma
che palle!” sbuffa lei alzando gli occhi al cielo, poi cerca
una cicca alla menta nella sua borsetta, se la mette in bocca, e dopo
qualche secondo si avvicina di nuovo per baciarmi. Io la bacio, però
non sono molto coinvolto, ho altro per la testa e interrompo il bacio
quasi subito, allontanandola con una mano.
“Lasciami
stare Vero, non mi va.”
“Oh,
ma ché ti sei svegliato male?!”
“Non
ci badare, lui si sveglia male un giorno sì e uno no!”
esclama Daniele ridendo come un idiota. “Io se vuoi mi sono
svegliato bene!”
“Dai
non fare lo stronzo” gli dice Alberto girandosi verso di lui.
“È così per sua madre, no?”.
“Ma
andate a fanculo tutti e due, va'!” sbotto io a voce parecchio
alta, alzandomi dal divano di scatto, facendo quasi cadere Vero che
era ancora seduta sopra di me.
“Tu
tacere, mai, eh?!” sento dire a Mattia, mentre esco sbattendo
la porta.
Me
ne sto nel viottolo d'ingresso, seduto sul bordo di una grossa
fioriera di pietra che adesso è vuota, senza sapere che fare
né dove andare. La verità è che vorrei tornare a
casa, dalla mamma, ma so che lei non ne sarebbe contenta, e questa
cosa mi fa sentire uno schifo.
Sento
aprire e poi chiudere la porta d'ingresso, e i passi di qualcuno che
si avvicina. Che palle! Non ho voglia di vedere nessuno, tantomeno
Vero o Alberto che peggiorerebbero di sicuro la situazione. Mi giro
appena per vedere chi è, e riconosco Mattia col mio giubbotto
in mano. “Tieni, che sennò ti ammali di nuovo” mi
dice porgendomelo, per poi sedersi su un'altra fioriera, di fronte a
me. “Non fare caso a Boccaccia Larga!” mi dice mentre io
indosso il giubbotto. “Lo sai che gli piace dare aria alla
bocca!”
“Sì
lo so.”
“E
lo sai che a Daniele piace rompere!”
“Sì
lo so” dico tenendo lo sguardo basso sulla ghiaia e muovendola
col piede. “Che poi... sono due coglioni ma non ce l'ho con
loro per davvero, è che...”
“Sì
lo so”; sollevo lo sguardo su di lui, che accenna un sorriso.
“Dovresti andare da lei.”
“Da
Vero?”
“No.
Lo sai.”
“Sì
lo so”; e stavolta sorridiamo insieme.
“E
vai allora, no?”
“No.
Mi ha praticamente sbattuto fuori casa.”
“Ah.
L'hai fatta incazzare?”
“Ma
no...! È che non sta bene, e non vuole nessuno intorno.”
“Nemmeno
te?”
“Nessuno.
Nemmeno mio padre. Fa sempre così. Ormai lo so che fa così,
ma ci sto di merda lo stesso.”
“È
orgogliosa.”
“Troppo.”
“E
testarda.”
“Da
far schifo.”
“È
come te”; io lo guardo male, ma lui mi sorride. “No?”.
Io
sospiro e mi passo una mano in mezzo a capelli. “Sì.”
“E
come te magari ha bisogno che qualcuno ogni tanto se ne freghi di
quello che vuole lei, o di quello che crede di volere, e
faccia di testa sua.”
“Ma
quand'è che sei diventato così saggio?” gli
domando alzandomi.
“Io
sono nato saggio” risponde lui alzandosi a sua volta.
“Io
dico che è stata la paternità!” esclamo ridendo.
“Che nome scegli allora? Ginevra o Morgana?”.
Ride
anche lui e scuote la testa: “Quello sarebbe proprio un
miracolo, perché al momento la casa base non la vedo neanche
col binocolo!”
“Dai,
che entro fine anno qualche speranza ce l'hai!”
“Seee...
al massimo arrivo in seconda... o ad essere ottimisti in terza!”
“Beh,
non sarebbe male nemmeno quella, no?”
“Ah
no! Non sarebbe proprio male!”
“Vabbè...”
dico sospirando. “Vado a casa allora”. Lui annuisce
sorridendo e ci stringiamo la mano, con le braccia sollevate. “Grazie
fratello!”
“Di
niente.”
“Però
se mia mamma mi butta fuori a calci, stasera mi ospiti tu, eh?!”
gli dico ridendo, e poi me ne vado.
Entro
in casa richiudendo piano la porta, per non disturbare la mamma nel
caso che stia dormendo. Non è sul divano, c'è solo la
coperta lasciata lì alla rinfusa; la tv è spenta, ma
quando ci passo davanti si accende su uno di quei canali di
polizieschi che guarda sempre lei; a quanto pare era in stand-by.
Vado nella sua camera, ma non è nemmeno lì.
“Mamma,
sei in bagno?” le chiedo mentre percorro il corridoio, e mi
pare di sentirle rispondere di sì, anche se non ci giurerei.
La porta del bagno è aperta, e lei è lì, seduta
per terra, con la schiena appoggiata alla parete del box doccia.
“Mamma!”
“Ciao
Leo” sospira lei alzando gli occhi al cielo.
“Ma
che fai lì per terra?”
“Guardo
il mondo da un'altra prospettiva” mi risponde con un sorriso
sarcastico. Mi avvicino e vedo che ha i pantaloni della tuta
arrotolati, ed entrambe le ginocchia sbucciate.
“Ma
sei caduta?!” esclamo inginocchiandomi davanti a lei.
“Sì.”
“Oddio!
Ma sei svenuta?”
“No.
Mi sono alzata dopo aver vomitato, e le gambe non mi hanno retto.”
“Ah...”;
piego le labbra in una smorfia, mentre fisso le sue ginocchia
sanguinanti. “Ma perché sei ancora qui per terra?”
“Ce
l'hai una domanda più intelligente?”
“Ok,
scusa...”; domanda idiota, in effetti. Se è ancora per
terra vuol dire che non riesce ad alzarsi, no? “Dai, ti aiuto”;
mi alzo in piedi e le porgo le mani, lei le afferra, ma non riesce a
tirarsi su.
“Non
riesco, Leo. Ho zero forze.”
“Ok...”
mormoro mentre mi si appannano gli occhi di lacrime. Non ce la faccio
a vederla ridotta così, e ancora peggio è il modo in
cui mi guarda lei, perché l'ultima cosa al mondo che vorrebbe
è che io la vedessi in queste condizioni. “Dai, ti
prendo in braccio” le dico chinandomi verso di lei.
“No”
mi risponde con tono secco. “Non c'è bisogno. Vedrai che
tra poco ce la faccio da sola”. E a me viene da piangere
ancora, perché tutti e due sappiamo benissimo che la
situazione non migliorerà tra poco, e non migliorerà
nemmeno domani, o tra una settimana, e forse non migliorerà
mai!
“Stai
prendendo freddo, hai le mani gelate” le dico con la voce che
mi trema. “Dai, lascia che ti aiuti.”
“Ti
ho detto che non c'è bisogno!” ribadisce lei alzando la
voce. “Non voglio il tuo aiuto! Resto qui finché non ce
la faccio da sola!”.
La
capisco, ma mi ferisce, e mi fa anche incazzare. “Ma di', sei
scema?!”
“Prego?!”.
Cazzarola... Non solo le ho appena dato della scema, ma ho anche
urlato, e adesso lei mi sta guardando in un modo che mi mortifica e
che mi fa sentire piccolo e insignificante.
“Scusa...”
sussurro accarezzandole i capelli.
“Non
ti permetto di...”
“Lo
so, lo so. Scusa. Non dovevo”; appoggio la mia fronte contro
alla sua e mi accorgo che scotta. “Scusa... Scusa... Non mi
mandare via però”; e poi scoppio a piangere come un
bambino. “Non mi mandare via” le dico singhiozzando. “Non
mi mandare via.”
“Oh
amore mio...” sospira lei accarezzandomi piano i capelli, e poi
mi abbraccia; sento le sue braccia attorno a me, leggere, deboli,
quasi senza presa. “Non ti mando via. Promesso, non ti mando
via. Ti tengo qua. Qua”; mi fa appoggiare la testa sul suo
petto, e io l'abbraccio stretta, come lei non può fare, tanto
da sentire quel maledetto port attraverso i vestiti.
L'abbraccio
stretta, come se questo servisse a trattenerla a me.
L'abbraccio
stretta come se questo potesse guarirla.
L'abbraccio
stretta come se questo potesse davvero proteggerla, come se potesse
impedire che le accada qualcosa di brutto.
Non
riesco a smettere di piangere, e non so per quanto tempo ce ne stiamo
così.
Tanto.
Fino
a che io non ho male alle ginocchia e mi alzo. Mi siedo sul water
chiuso, prendo la carta igienica per asciugarmi la faccia e soffiarmi
il naso, mentre lei mi guarda in silenzio. Quando finalmente mi
ricompongo e il mio respiro ritorna regolare, torno di nuovo da lei.
“Non puoi startene ancora lì. Fa freddo, e hai la
febbre.”
“Riproviamo”
mi lei dice porgendomi le mani. Ma anche stavolta non ce la fa, e
allora faccio di testa mia e la prendo in braccio. “Leo!”
protesta lei. “Ti avevo detto...”
“Sì
sì, ok”; è leggera. Troppo. Mi sconcerta quanto
sia leggera. “E adesso mettimi pure in punizione, se vuoi”
dico appoggiandola sul divano, ma lei cambia discorso.
“Vai
a prendermi un paio di cerotti per favore. E anche il disinfettante,
e le salviette umide. Grazie”. Io vado a prendere quello che mi
ha chiesto e mi siedo vicino a lei. “Faccio da sola” mi
dice prendendomi di mano il pacco di salviette; ne prende una e
comincia a ripulirsi le gambe; poi si disinfetta le sbucciature, si
incerotta, appoggia tutto sul tavolino vicino al divano, e si sdraia.
Io le metto addosso una coperta, e mi siedo in fondo, facendole
appoggiare i piedi sulle mie gambe. “Perdonami” mi dice a
un certo punto; e il suo tono è così doloroso e
straziante, e
pure i suoi occhi lo sono.
“Smettila”
rispondo io distogliendo lo sguardo perché non riesco a
sostenere il suo.
“Ti
faccio stare tanto male.”
“Smettila.”
“È
così, Leo.”
“Non
è certo colpa tua. Smettila”.
Lei
sospira e chiude gli occhi. “Eh... un po' sì”; che
palle, mi viene di nuovo da piangere. Stringo forte le labbra e
abbandono la testa contro alla spalliera del divano, sperando di
riuscire a trattenermi. “Leo...”
“Dimmi”
le rispondo restando fermo, con gli occhi chiusi.
“Mi
prepari qualcosa da mangiare?”
“Vuoi
mangiare?!” le chiedo sorpreso aprendo gli occhi e guardandola.
“Sì.
Non ho pranzato, ma adesso ho fame.”
“Certo!”
esclamo alzandomi in piedi. “Cosa vorresti?”
“Del
pane tostato col burro..., e una spremuta d'arancia.”
“Praticamente
vuoi fare colazione!” le dico ridendo. “Non vuoi
approfittare del grande cuoco?!”
“Io
approfitterei volentieri, ma non sarebbe carino verso il grande
cuoco, vomitare poi tutte le sue prelibatezze!”
“Ok,
vada per pane e spremuta!”; lei annuisce sorridendo, ed io mi
fiondo in cucina.
Quando
papà rientra dalla caserma, è buio già da un
pezzo. Io sono rimasto vicino alla mamma per tutto il pomeriggio,
anche quando lei si è addormentata; sono rimasto qui, con i
suoi piedi addosso, a studiare storia con la sola luce dell'albero di
Natale. Inutile dire che di studiare proprio non ne avessi voglia, ma
questa è stata la sua condizione per permettermi di restarle
vicino. “E non vale fare finta, eh?! Perché dopo me la
ripeti!”. E così ho studiato per davvero. Ho pure tolto
la suoneria al telefono per non disturbarla, e non l'ho guardato
nemmeno una volta, ché non avevo voglia di sapere niente di
nessuno.
“Sei
già rientrato?!” mi chiede papà sorpreso, a bassa
voce.
“No,
sono un ologramma!”
“E
stai studiando?!”
“Sì...”
gli rispondo sospirando.
“Mi
devo preoccupare? Stai bene?”
“Ma
sì!” esclamo sforzandomi di non alzare la voce. “Non
ti va mai bene niente!”
“Hai
ragione, scusa” mi dice scompigliandomi i capelli. “E lei
come sta? È da tanto che dorme?”
“Da
un'ora e mezza, più o meno...”
“Ha
mangiato?” mi domanda notando il piatto e il bicchiere vuoti
sul tavolino.
“Sì...
qualcosa” gli rispondo annuendo, e lui si illumina in un
sorriso. A dire il vero, delle quattro fette di pane tostato col
burro che le ho preparato, è riuscita a mangiarne solo due, e
le altre due le ho mangiate io, aggiungendoci la marmellata di
albicocche.
Lui
si inginocchia accanto a lei e le sposta delicatamente i capelli dal
viso; resta a guardarla, come in contemplazione, e io mi sento
stringere il petto in una morsa dolorosa. Non ci penso mai, a quanto
dev'essere dura pure per lui. La sta guardando come se non volesse
perderne nemmeno un dettaglio, nemmeno un attimo, nemmeno un respiro.
Le da un bacio leggero sulla fronte, poi si gira verso di me. “È
calda...”
“Sì,
ha la febbre.”
“Alta?”
“No,
non tanto...” gli rispondo stringendomi nelle spalle. “Meno
di 38”.
Lui
sospira e appoggia la testa vicino a lei, sullo stesso cuscino, ed io
mi sento di troppo.
“Vado
un po' in camera mia...” dico alzandomi, e papà annuisce
in silenzio.
Mi
volto a guardarli di nuovo, e li vedo così indifesi, così
vulnerabili.
Forse
lui ancor più di lei.
Dormiva
così profondamente che non lo ha sentito rientrare; chissà
da quanto se ne sta lì, con la testa così vicina alla
sua che ne sente il fiato contro il viso.
“Dormi?”
gli chiede in un sussurro, e Matteo apre gli occhi e le sorride.
“No,
ti ascoltavo respirare” le dice accarezzando i capelli. “Come
ti senti?”
“Meglio”
risponde lei mettendosi seduta. “Ho avuto un ottimo
infermiere.”
“Non
ti ha fatta stancare?” le domanda sedendosele accanto.
“No.
È stato molto bravo”.
E
lei ripensa al suo pianto straziato e alla sua supplica lacerante.
Non
mi mandare via.
Non
mi mandare via.
Non
mi mandare via.
“L'ho
trovato che studiava, pensa!” esclama Matteo con una nota di
stupore nel tono della voce.
“Vedi?!
Dobbiamo avere fiducia in lui” dice lei sorridendo, anche se sa
benissimo che Leo ha studiato solo perché quella era la sua
condizione per poterle stare vicino.
“Per
la matematica però mi sa che non c'è niente da fare...”
“Ah
no! Per quella mi sa di no!”
“Dobbiamo
mandarlo a lezione.”
“Sì.
Non riesce nemmeno a corrompere la prof, come fa con gli altri!”
esclama ridendo, ma viene interrotta da un attacco di tosse. Matteo
le porta subito dell'acqua, che lei beve lentamente finché la
tosse passa, ma è passata anche l'atmosfera leggera che c'era
fino a poco fa. “Oggi l'ho visto così fragile..., così
spaventato. Soffre tanto. Ed è orribile sapere di esserne la
causa.”
“Irene...”
mormora lui prendendole piano la testa tra le mani e dandole un bacio
sulla tempia. “Irene non devi sentirti in colpa...”.
Irene.
È sempre stata Irene per lui. Così come lui per lei è
sempre stato Matteo. Nessun vezzeggiativo per loro. Nessun
soprannome. Nessun diminutivo. Mai. Non li hanno mai sopportati.
Quando era nata Asia, avevano scelto quel nome proprio perché
era tra i pochi a non prestarsi ad essere storpiato, oltre al fatto
che suonava così esotico, così misterioso, così
affascinante. E poi con Leo, invece, c'erano cascati. Lei aveva
voluto chiamarlo Leone, come suo padre, e Matteo era stato d'accordo.
Poi però, chissà come, era diventato Leo. Fin da
subito. Fin da quando i loro occhi si erano incontrati in sala parto.
Era appena nato, e già contravveniva alle regole.
“Odio
farlo soffrire così. Odio farvi soffrire così.”
“Lo
so” le dice Matteo dandole un altro bacio. “Lo sappiamo.”
“Ma
lui è il mio bambino. È il mio Leone coraggioso, ma è
anche il mio bambino...”. Da quando ha saputo di essersi
ammalata, ha sempre creduto che se non fosse riuscita a venirne
fuori, Leo sarebbe stato quello più forte di tutti, quello che
avrebbe aiutato Matteo e Asia a restare a galla. Ma oggi..., oggi si
è resa conto che le ha fatto comodo credere così. Che
era più facile per lei illudersi che fosse così.
“Vorrei tanto proteggerlo”.
Ed
è dura accettare il fatto che per quanto si sforzi di farlo,
non può.
Non
fino in fondo.
E
che anzi, a volte, nel tentativo di proteggerlo lo allontana,
facendogli ancora più male.
Era
così facile quando era piccolo: le bastava stringerlo tra le
braccia, tenerlo a sé, fargli sentire tutto il suo amore,
perché lui si sentisse al sicuro e protetto.
E
adesso, invece, quando lo tiene tra le braccia senza più
nemmeno riuscire a stringerlo, sente quanto maledettamente lui la
ami, e come proprio questo stesso amore potrebbe annientarlo.
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