Stimatissimi
lettori,
questa
è una storia su una grave forma di dipendenza, ovvero di Disturbo
Patologico da Gioco d’Azzardo, DGA in termini tecnici.
Avrei
voluto far partecipare la storia al contest di Soul Dolmayan, ma tra
tempo scarso, necessità di studio (per scrivere questa storia) e
ispirazione sempre ubriaca non ce l’ho fatta. La posto qui,
sperando che possa interessarvi e ringrazio Soul per avermi fornito
questo bellissimo spunto di scrittura.
Un
paio di notizie folkloristiche: per scrivere questa storia ho
interpellato operatori del settore, ho letto tonnellate di dispense e
sono riuscito anche a infilarmi in un corso di aggiornamento per
operatori del Ser.T.
Grazie
a tutti coloro che vorranno passare per di qui e buona lettura!^^
LA
VITA VERA
Capitolo
1
Alessandro
Rizzelli, agente immobiliare della Diamond House, si guardò intorno
per controllare che non ci fosse il titolare in giro, quindi aprì il
browser e digitò la parola ‘Mercedes’ sul motore di ricerca.
Comparvero decine di indirizzi: il sito ufficiale, una sfilza di
concessionari, qualche forum dedicato.
L’uomo
andò alla sezione immagini e selezionò la foto di un roadster color
argento che sfrecciava su uno sfondo di grattacieli illuminati. La
ingrandì fino a che essa non occupò tutto lo schermo.
A
quel punto, lo sguardo sempre incollato alla macchina, si adagiò
sullo schienale della poltrona girevole in pelle, allungò le gambe
davanti a sé e mise le braccia dietro la nuca. “Da seghe,”
mormorò con aria sognante.
Dalla
porta provenne una voce: “Hai detto qualcosa, Ale?”
“Guarda
che bestia,” disse Rizzelli per tutta risposta.
La
voce prese un tono vagamente allarmato. “C’è una bestia?”
“Ma
no, idiota. Mercedes-AMG GT Roadster, cinquecento cavalli,
quattromila di cilindrata, da zero a cento in meno di quattro
secondi: è questa la bestia.”
L’altro
lo raggiunse, si piegò verso il monitor e osservò la potente
vettura. “Vuoi cambiare macchina?” s'informò.
Rizzelli
emise un sospiro. “Eh, magari. Chi me li dà i soldi per questa?”
“Perché,
quanto costa?”
“Come
l’appartamento che hai venduto ai Borghi.”
Il
collega emise un fischio di meraviglia.
“Senza
contare che è un due posti secco. Dove le metto le figlie?”
“Non
hai detto che l’anno prossimo vanno a studiare all’estero?
Aspetti che partano e poi la compri per te e tua moglie.”
“E
bravo,” replicò sarcastico Rizzelli. “E poi come gliela pago
l’Università in America a quelle due?” Scosse la testa con fare
sconsolato. “Lascia perdere, è un gatto che si morde la coda.”
Mimò il gesto di contare i soldi e soggiunse: “Senza questi,
niente macchina. “
“Tua
moglie?” azzardò l’altro.
Il
primo alzò le spalle. “A parte che Laura con quel suo negozietto
tanto prende e tanto spende, le serve giusto per pagarsi gli sfizi, e
poi non le piacciono le sportive, dice che non ci sta niente, quindi
figurati se le interessa comprarla.” Si voltò di nuovo verso il
monitor, che però era entrato in risparmio energetico e mostrava
solo il logo della Diamond House che scorreva. “Dovrei prenderla
come seconda macchina, ma chi ce li ha tutti quei soldi?”
“Non
ne avete già due?”
“Intendevo
seconda macchina mia.”
“Quanto
paga di bollo quell’affare?”
“Eh,
siamo sempre lì,” replicò amareggiato Rizzelli. “Soldi. Servono
più soldi.”
“Mia
nonna diceva che i soldi sono l’acqua del mare: più ne bevi e più
hai sete.”
Per
tutta risposta, Rizzelli canticchiò: “Mare mare mare, voglio
annegare...”
Lo
squillo del telefono interruppe l'esibizione canora. L'uomo volse lo
sguardo all'apparecchio, alzò le sopracciglia e disse: “Cazzo, è
quello della SoverData!” Istintivamente si raddrizzò sulla sedia e
si sistemò il nodo della cravatta, quindi sollevò la cornetta e in
tono professionale disse: “Diamond House, buongiorno. Sono il
dottor Rizzelli.”
Rizzelli
abbassò pensoso la cornetta. Si passò una mano fra i capelli, di
nuovo si sistemò il nodo della cravatta, quindi aprì il browser e
digitò la parola 'casinò'. Gli apparve una sfilza di siti sui
casinò on line, perlopiù infarciti di termini come 'Super Bonus' o
'200 spin gratis', poi qualcosa su Casino Royale e Las Vegas. Gli
unici dati che in ogni sito ricorrevano erano cifre in denaro:
milletrecento euro vinti, mille euro di bonus, duecento euro
gratis...
Alzò
la testa e si voltò verso la porta. “Robbi!” chiamò.
Si
udì un tramestio, poi il collega si affacciò. “Che c'è?”
“Roberto,
sei mai stato in un casinò?”
L'altro
corrugò la fronte. “Eh?”
“Non
un casino,” precisò Rizzelli con un sorrisetto. “Intendo proprio
un casinò. Roulette, black Jack... quella roba lì, insomma.”
L'altro
scosse la testa. “Perché?” chiese poi.
“Il
tizio della SoverData vuole che ci vada con lui. Per discutere
l'affare, ha detto.”
“Al
casinò?”
Rizzelli
alzò le spalle. “Per il rustico di Montorsi, l'affare l'ho
discusso dentro e fuori da un pollaio, mentre il proprietario dava il
becchime alle galline.”
“E
quando sei tornato in sede hai sparso merda di pollo dappertutto.”
“Ho
anche sparso un bel po' di soldi nel conto della Diamond
House, se è per questo,” ribatté Rizzelli piccato. Tacque per
qualche istante, scorrendo di nuovo con lo sguardo l'elenco di casinò
on line che il motore di ricerca proponeva, poi quasi parlando fra sé
e sé disse: “Ma si vince, poi?”
Alle
sue spalle, Roberto disse: “Dubito che i casinò siano associazioni
filantropiche.”
Rizzelli
si voltò a fissarlo. “In che senso?”
“In
che senso?” ripeté l'altro, imitando la celebre battuta di
Verdone. “Nel senso che se esistono è per guadagnarci, non per
regalare soldi in giro, non ti pare?”
“Ma
qualcuno vincerà, no?”
“Fidati,
Ale: quel qualcuno non sei tu.”
L'altro
assunse di nuovo l'espressione piccata. “E perché non dovrei
essere io?”
“Lo
sai quante sono le probabilità di fare una grossa vincita al casinò?
Le stesse che ho io di andare a letto con Miss Mondo.”
“Così
poche?”
“Vaffanculo,
Ale.”
$
Sulla
via di casa, al volante di una berlina che mai come quel giorno gli
pareva un tristo esempio di 'vorrei ma non posso', Alessandro
Rizzelli rifletteva sui casinò. Nonostante le parole del collega,
l'unico mantra che continuava a risuonargli in mente era: soldi,
molti soldi, soldi facili. Bastava mettere un po' di fiche
nella casella giusta, ed ecco che le avrebbe viste crescere
magicamente, come la mitica pianta di fagioli della favola.
Montagne
di fiche, e quindi montagne di soldi.
Fece
scorrere lo sguardo sulla finta radica del cruscotto, sulla plastica
cromata delle finiture, che qua e là stava cominciando a perdere il
lucido, e sulla valigetta 24 ore che si trovava sul sedile del
passeggero, piena essenzialmente di soldi altrui, che lui poteva solo
vedersi passare sotto il naso.
“Mare
mare mare, voglio annegare...” canticchiò di nuovo.
Azionò
il telecomando, sul cancello di una villetta a schiera cominciò a
lampeggiare una luce gialla. Rizzelli fissò l'edificio come il più
critico dei suoi colleghi avrebbe potuto guardare un tugurio
d'anteguerra spacciato per 'suggestivo appartamento in stile con
atmosfera d'antan'.
“Bella
merda,” borbottò. Ripensò alla proprietà per cui era in
trattative con la SoverData: una villa del settecento di più di
mille metri quadri, con tre ettari di parco all'inglese, piscina e
spa. I pavimenti erano tutti di marmo, su molti dei soffitti c'erano
affreschi. Il più merdoso dei mobili di quel posto costava da solo
come tutti quelli che c'erano in casa sua.
Sospirò.
Aveva intrapreso la professione di agente immobiliare con l'idea che
dopo aver smerciato un po' di quelle lussuose dimore sarebbe stato in
grado di comprarne una per sé. Per un po' era andata anche bene: i
soldi arrivavano ed erano molti, tant'è che aveva potuto acquistare
se non proprio una villa, almeno una villetta a schiera di
duecentocinquanta metri quadrati, di testa, con finiture di pregio,
garage, cantina e un bel giardino. Ognuna delle sue figlie aveva una
camera tutta per sé, in taverna c'era l'home theatre, sua moglie
aveva allestito in mansarda un laboratorio di roba da donne, tipo
découpage e pasta di sale, dove si trovava con le sue amiche.
C'erano la lavanderia, la dispensa e anche il barbecue per l'estate.
Mentre
il basculante del garage si alzava, rivelando la monovolume di Laura
già parcheggiata, egli ricominciò a canticchiare la canzone di
Battiato.
In
cucina la tavola era apparecchiata, nell'aria c'era odore di sugo
alla pizzaiola. Rizzelli ripensò al ristorante stellato dove aveva
pranzato con un cliente il giorno prima. Si accertò che sua moglie
fosse girata di spalle, quindi arricciò il naso con espressione
schifata. “Ciao, amore,” salutò poi in tono da marito delle
pubblicità. “Com'è andata in negozio?”
Laura
si girò asciugandosi le mani sul grembiule. Scosse la testa per
gettare i capelli all'indietro e rispose: “Ah, come al solito.
Entrano, guardano e poi dicono che ci penseranno.” Crollò poi il
capo con fare critico e soggiunse: “Ma non si possono certo pagare
il lusso e l’eleganza come la roba dei cinesi, non ti pare? Se
sanno di non avere i soldi, è inutile che entrino.” Raccolse dal
piano del mobile il mucchiettino scintillante dei gioielli, che
regolarmente si toglieva per fare le faccende, e prese a indossarli
con gesti disinvolti. “E a te com'è andata, tesoro?”
“Tutto
bene,” rispose l'uomo, quindi si guardò intorno e chiese: “Chiara
e Serena dove sono?”
“Sono
andate a mangiare la pizza con le altre ragazze della danza.”
Laura
frattanto aveva finito di infilarsi i numerosi anelli e si stava
agganciando al polso un braccialetto fatto con quei brillantini di
cui non gli era mai riuscito di pronunciare il nome, ma che
sembravano far impazzire sia lei che le ragazze.
“Starò
via per qualche giorno,” le annunciò.
La
donna sollevò lo sguardo dal monile e lo fissò nel suo. “Dove
vai?” gli chiese.
“È
per lavoro. Ho un grosso affare in ballo e non posso scontentare il
cliente. Anzi, non è che domani mi porteresti in lavanderia il
completo che avevo al matrimonio di Anna e Fabio?”
L’altra
sollevò le sopracciglia meravigliata. “Dov’è che devi andare,
dal Presidente della Repubblica?”
Rizzelli
fece un sorrisetto. “Molto meglio: andiamo a Portorose.”
“Sarebbe?”
“Al
casinò.”
“Oh,
al casinò,” ripeté estasiata la moglie.
“Niente
male, eh?”
“Vorrei
venirci anch’io, dev’essere stupendo. Ci saranno un sacco di
donne con vestiti da sera bellissimi.”
Di
nuovo Rizzelli sorrise. “Se l’affare va in porto, ti prometto che
ci torniamo insieme.”
Gli
occhi di Laura si illuminarono. “Allora mi devo comprare un abito
lungo! E naturalmente anche le scarpe e la borsa.” Si guardò le
mani. “Mi servirà anche qualcosa di più elegante...”
“Piano,
piano,” la fermò l’uomo, che di richieste del genere se ne
sentiva rivolgere a ogni occasione che si discostasse appena dalla
quotidianità, “prima devo concludere l’affare.”
“Quanto
frutterà?” chiese Laura.
Rizzelli
colse la sua espressione attenta e pensò che le mancavano solo gli
occhi fatti a dollaro. “È una grande proprietà,” disse, stando
ben attento a mantenersi sul generico. “Sicuramente la Diamond
House ne ricaverà un bel gruzzolo.”
“E
quanto sarà la nostra… la tua parte?”
“Ancora
non lo so,” tagliò corto Rizzelli, “dipende da quello che
riuscirò a spuntare da quelli della SoverData.”
“Fa’
una giocata alla roulette per noi due,” gli suggerì allora Laura,
abbassando il tono della voce a un mormorio complice.
“Non
so se ne avrò l’occasione,” si difese l’uomo, ma l’altra,
imperterrita, proseguì: “Gioca il giorno del nostro matrimonio,
sul rosso.” La voce si abbassò ulteriormente, gli occhi ebbero un
brillio malizioso. “Il colore della passione.”
“Laura...”
“Le
ragazze torneranno fra qualche ora, abbiamo tutta la casa per noi...”
$
Alessandro
Rizzelli uscì dalla Limousine del titolare della SoverData e si
trovò di fronte al casinò di Portorose. Una volta saputo che ci
sarebbe andato, l’aveva studiato ben bene in internet, ma
ugualmente guardandolo provò una sorta di strana esaltazione. Era
ormai buio, ma l’edificio era illuminato praticamente a giorno. A
lato della porta di entrata si trovava un usciere in livrea, che
apriva l’anta al passaggio degli ospiti. Nella hall, in stile
moderno, coperta di moquette a colori vivaci e con lampadari enormi
che pendevano dal soffitto, vide sfilare due ragazze. Una era bionda,
magra, col seno piccolo e sodo come piaceva a lui. Portava una
minigonna argentata, dalla quale uscivano gambe lunghissime e snelle.
Ancheggiava lieve sui tacchi alti.
L’altra
era mora, più bassa ma più formosa, ed era fasciata in un abito
nero lungo fino ai piedi, che ondeggiava tutto quando lei camminava,
mettendo in risalto le sue curve.
Fece
mente locale e realizzò che donne così belle ne aveva viste sui
giornali e sui cartelloni pubblicitari, ma mai dal vero. Si chiese se
fossero delle top model.
Un
rombo attirò la sua attenzione. Si girò e vide sfrecciare sul viale
un bolide rosso. Ebbe un tuffo al cuore: Mercedes-AMG GT.
Alla
vettura si accodò una Porsche Turbo nera ed entrambe guizzarono via
come squali, mentre le luci si riflettevano sulle carrozzerie a
specchio e il rumore dei potenti motori faceva tremare l’aria.
Immaginò
se stesso a bordo della Mercedes, magari con la bionda accanto.
“Fantastico,”
disse fra sé e sé.
“Le
piace?” chiese una voce al suo fianco.
Rizzelli
quasi trasalì. “Mi scusi, dottor Clerici,” disse in fretta,
obbligandosi a distogliere l’attenzione dalle macchine sportive e a
riportarla sul titolare della SoverData. “Certo che mi piace, è
tutto molto bello.”
“Non
era mai stato in un posto del genere?”
L’agente
immobiliare tentennò. Cosa sarebbe stato opportuno rispondere? La
verità, ovvero che non ci aveva mai messo piede, oppure una menzogna
che in qualche modo lo facesse apparire vagamente simile a un uomo di
mondo?
“Il
lavoro ha sempre assorbito tutte le mie energie,” si decise a dire,
“quando torno a casa sono così stanco che mi rilasso un po’ con
la mia famiglia e vado subito a letto.”
Clerici,
un uomo alto e imponente, con un completo di sartoria e l’aria
genericamente danarosa, sorrise con fare indulgente, gli batté una
mano sulla spalla e disse: “Non sia sempre così ligio, carissimo.
Un uomo si deve anche divertire ogni tanto, non le pare?”
Rizzelli
non fece nemmeno troppa fatica a mostrarsi accondiscendente. “Certo,
dottor Clerici,” confermò.
“Allora
venga, entriamo. La SoverData le offre cinquecento euro di fiche.
Cosa preferisce, roulette, black Jack, chemin de fer, baccarat,
poker?”
“Ecco,
veramente...”
“Ah
già, dimenticavo: non è mai stato al casinò. Ma non si preoccupi:
le spiegherò tutto io. Le farò da cicerone.” Si mosse risoluto
verso l’entrata, Rizzelli notò che l’usciere gli stava già
tenendo aperta la porta.
“Buona
sera, dottor Clerici,” disse l’uomo al loro passaggio, rivolgendo
a entrambi un deferente inchino del busto.
“Caro
Stjepan, come va? Tutto bene a casa?”
“Sì,
grazie, dottore.”
Clerici
trasse dal taschino una banconota che nel guizzare dei neon colorati
parve a Rizzelli da cinquanta euro. La piegò in due e la tese
all’usciere, che nuovamente si inchinò.
“Andiamo,”
disse poi disinvolto, “i tavoli da gioco ci aspettano.”
Entrare
nella sala principale fu per Rizzelli come essere catapultato in un
altro mondo. Un mondo più bello, per la precisione, un mondo pieno
di lusso e ricchezza. Il soffitto era piuttosto basso, nero,
punteggiato qua e là di luci come una specie di cielo stellato. Per
terra c’era una moquette a disegni tipo damasco gialli e rossi,
lungo le pareti baluginavano i monitor delle slot e delle VLT. Nella
parte centrale dell’enorme locale vi erano tavoli verdi intorno ai
quali si assiepavano uomini e donne elegantemente vestiti.
Sul
discreto cicaleccio che aleggiava ovunque riconobbe, più che altro
per averlo sentito in qualche film, il ticchettio della pallina di
una roulette, e si trovò a trattenere il respiro con aspettativa.
Rivide,
o gli parve di rivedere, le due ragazze di prima.
Notò
poi una giovane donna di colore altissima e snella, con un abitino
azzurro pallido e bracciali d’oro che risaltavano sulla pelle
scura. Si muoveva lenta e sinuosa.
“Quella
è la nostra Naomi Campbell,” disse alle sue spalle Clerici. Poi, a
voce più alta: “Ciao, Opeyemi.”
Senza
fermarsi, la ragazza gli rivolse un languido cenno di saluto. “Ciao,
‘Tonio,” rispose, la voce appesantita dall’accento straniero.
Sorrise facendo baluginare i denti bianchissimi.
“Ciao,
cara, ciao,” disse Clerici agitando a sua volta la mano, poi si
voltò verso Rizzelli. “Una puttana,” spiegò disinvolto. “È
piuttosto costosa, ma li vale tutti.”
L’agente
immobiliare tossicchiò imbarazzato. “Immagino,” borbottò, più
che mai certo di star facendo la figura del borghesuccio provinciale.
Apparentemente
insensibile al suo disagio, Clerici lo sospinse in avanti. “Ma
venga, venga, carissimo. La notte è ancora giovane, non è così che
si dice?”
“Immagino
di sì.”
L’uomo
fece una risata. “Lei immagina troppo, mio caro. È ora di dare una
nota di concretezza alla serata: andiamo a prendere le fiche.”
Rizzelli
soppesò le proprie fiche: dieci pile da cinque che sembravano
quelle di zio Paperone. Era buffo pensare che quei cinquanta
dischetti di plastica fossero il corrispettivo di cinquecento euro.
Visti così avevano l’aria inoffensiva, sembravano quasi i giochi
dei bambini.
Eppure,
gli sussurrò una vocina, proprio quegli innocenti balocchi –
posseduti in quantità sufficiente – gli avrebbero dato la
possibilità di comprarsi quello che voleva: la Mercedes, ad esempio,
e magari anche la bionda da mettere sul sedile del passeggero.
Raccolse
una delle dieci pile, se la sparse nel palmo della mano. Il
clicchettio dei dischetti di plastica gli parve un suono inebriante,
magico. Era il suono della libertà, perché chi è ricco fa quel che
vuole e non deve rendere conto a nessuno.
Volse
lo sguardo verso Clerici, che stava prendendo in consegna una
quantità considerevolmente maggiore di fiche. Osservò che le
sue erano più grandi e anche di colore diverso. Notando che le
guardava, l’uomo gli disse: “Queste sono da cento euro. Mi
sarebbe dispiaciuto fargliene avere solo cinque, per cui ho ordinato
per lei quelle da dieci euro.” Gli rivolse un sorriso che aveva una
vaga nota di complicità, quindi gli chiese: “Danno una bella
sensazione, vero?”
“Indubbiamente,”
ammise Rizzelli.
Clerici
a quel punto in tono dotto recitò: “Per quanto sia ridicolo che io
mi aspetti tanto dalla roulette, mi sembra ancora più ridicola
l’opinione corrente, da tutti accettata, che è assurdo e stupido
aspettarsi qualcosa dal gioco. Perché il gioco dovrebbe essere
peggiore di qualsiasi altro mezzo per fare quattrini come, per
esempio, il commercio? Vero è che su cento, uno solo vince, ma a me
che importa?” Fece una pausa. “Sa chi lo disse?”
“Veramente
no.”
“Ma
Dostoevskij, mio caro. Non ha mai sentito parlare di Dostoevskij?
Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, ma soprattutto Il giocatore.
L’ha mai letto, lei, Il giocatore?”
“Veramente
no, dottor Clerici,” rispose Rizzelli, augurandosi che il suo
potenziale acquirente non fosse un fanatico della letteratura che
concludeva gli affari a seconda della cultura della controparte.
“Beh,
non fa niente,” replicò con suo sollievo l’altro, sospingendolo
in avanti con una pacca sulla spalla. “Siamo qui per divertirci,
non per fare un’interrogazione, dico bene? Ce le ha le sue fiche?”
“Sì,
certo.”
“Molto
bene, carissimo, allora andiamo. Roulette, giusto?”
Il
croupier gettò la pallina all’interno della roulette in movimento.
La piccola sfera si incuneò immediatamente nel binario e lì prese a
scorrere velocissima.
Rizzelli
trattenne il fiato. Tentò anche, per quanto poteva, di seguirne i
movimenti, ma essi erano così rapidi che quasi subito ne ricavò una
specie di vaga nausea.
La
roulette cominciò a rallentare, la pallina abbandonò il binario,
scese, rimbalzò su una losanga e cadde nell’anello dei numeri.
L’uomo
puntò le mani sul panno verde come per alzarsi. Tese tutti i muscoli
della schiena.
La
pallina fece qualche altro rimbalzo, saltò da una casella all’altra
e infine esaurì la sua energia in una di esse.
“Sette
rosso!” annunciò il croupier.
Ci
furono mormorii di disappunto, qualche esclamazione, una contenuta
manifestazione di gioia da parte di qualcuno che aveva puntato sulla
prima dozzina.
Rizzelli
si rilassò sulla sedia, rendendosi conto che per tutta la corsa
della pallina aveva trattenuto il fiato.
La
voce di Clerici lo distrasse: “Beh, che ne dice? È bello, vero?”
“Bellissimo,”
esalò l’agente immobiliare, realizzando subito dopo che nemmeno
quando aveva fatto l’amore per la prima volta aveva provato
un’emozione del genere. Gettò un’occhiata al croupier che
raccoglieva le puntate di chi non aveva vinto, quindi anche la sua, e
gli parve che fosse una cosa di poca importanza, un prezzo tutto
sommato equo, per l’esperienza che aveva appena vissuto.
Inspirò
un paio di volte socchiudendo gli occhi, quindi rivolse lo sguardo al
panno verde e cominciò a disporre fiche nelle varie caselle.
Eccitazione e aspettativa crescevano di attimo in attimo,
l’adrenalina gli dava la sensazione che una corrente elettrica gli
percorresse le membra. Si rese conto che le dita gli formicolavano.
Pensò
fugacemente alla richiesta di Laura, ma non gli riuscì di ricordare
la data del loro matrimonio. Puntò sui numeri che gli piacevano di
più.
“Rien
ne va plus!” annunciò il croupier, “Les jeux sont faits.”
Azionò la roulette e vi fece cadere la pallina, che subito si inserì
nel binario e prese a girare così veloce da risultare alla vista
solo come una sbiadita pennellata bianca.
“Una
scelta vintage,” apprezzò Clerici.
Rizzelli
si voltò a fissarlo. “Domando scusa, dottore?”
“Quelle
frasi ormai si sentono solo nei film. È come dire 'passo e chiudo'
nelle comunicazioni radio.”
L'agente
immobiliare non rispose. Comunicare via radio significava avere a che
fare con navi o aerei: di sicuro quel Clerici aveva uno yacht, o
magari anche più d'uno. Fissò di nuovo lo sguardo sulla pallina: se
fosse caduta nella casella giusta, le sue fiche sarebbero
raddoppiate o triplicate – non aveva ancora capito come
funzionassero le vincite – senza alcuna fatica da parte sua, se non
sopportare un po' di adrenalina, che poi alla fine era anche
piacevole.
“Dieci
nero,” annunciò il croupier.
Rizzelli
sentì il cuore saltare un battito: aveva giocato il suo giorno di
nascita, con il colore che gli sarebbe piaciuto per la Mercedes, ed
era uscito!
In
un generale mormorio di sorpresa, il croupier spinse verso di lui una
montagna di fiche.
Clerici
annuì compiaciuto e commentò: “Che fortunello!”
“Sono
tutte mie?” chiese Rizzelli stupefatto.
“Ma
certo. Lei ha fatto en plein: vince trentacinque volte la
somma puntata.”
L'altro
rimase per un po' a fissare come ipnotizzato quel mucchio di
dischetti colorati. Ne aveva messi tre sulla casella, il suo numero
fortunato, quindi in pratica ne aveva ricevuti indietro altri
centocinque. Il che significava che in un quarto d'ora di svago aveva
raddoppiato il capitale in suo possesso. Ah,
se avessi puntato di
più, non poté fare a meno di pensare. Ed elencò mentalmente
tutto quello che avrebbe potuto permettersi con quei soldi
inaspettati.
La
voce di Clerici lo distrasse dalle sue meditazioni: “Beh, che fa,
vuole smettere?”
Rizzelli
accarezzò il mucchio di fiche che aveva vinto e d'impulso
rispose: “No di certo.”
“Così
mi piace!” apprezzò il titolare della SoverData. “Lei è uno che
ama il rischio, è uno che ha fegato.” Si interruppe brevemente,
poi in tono critico soggiunse: “Di solito, la gente che porto qui
se ne scappa appena è riuscita a raggranellare un gruzzoletto.”
“Non
capisco perché,” mormorò Rizzelli, mentre in una specie di trance
faceva scorrere lo sguardo sul tavolo. Si chiese se ci fosse qualcosa
come un fluido, o qualche misteriosa capacità divinatoria
alla quale si potesse fare ricorso per indovinare le puntate. Il
dieci nero era stato un caso, oppure nell'operare quella scelta aveva
inconsapevolmente messo in atto capacità che avrebbe potuto
riconoscere e affinare per future vincite?
Si
concentrò, gli parve che qualcosa lo attirasse verso il
sedici rosso. Spostò un bel mucchietto di gettoni colorati su quella
casella.
“Les
jeux sont fait,” annunciò neutro il croupier, facendolo quasi
trasalire.
La
pallina scese nella roulette, fece due rimbalzi, subito si inserì
nel binario. Rizzelli deglutì, strinse i denti mentre il cuore gli
martellava nel petto. Se avesse vinto, si sarebbe beccato settecento
fiche, quindi settemila euro, quindi quella famosa vacanza
alle Seychelles che voleva fare da tanto, oppure quel televisore da
sessantacinque pollici...
“Ventidue
nero,” proclamò il croupier.
Rizzelli
trasalì e quasi ebbe la sensazione di essere stato in qualche modo
fregato, anche se non sapeva bene come e da chi. Cosa era andato
storto? Perché il fluido stavolta non aveva funzionato?
Masticò
un'imprecazione, poi di nuovo abbassò gli occhi sul proprio
capitale: in fin dei conti aveva perso solo venti fiche, aveva
tutte le possibilità di rifarsi.
“Eh,
la roulette è così,” osservò Clerici con fare filosofico, mentre
si dirigevano all'uscita. “Si vince tanto, ma si perde anche tanto.
È riuscito a conservare qualcosa?”
“Due
fiche,” rispose Rizzelli. Dal palmo della mano i dischetti
sembravano fissarlo come occhi. Egli pensò che avevano
un'espressione impertinente, come di un monello che ha appena fatto
uno scherzo ben riuscito, ma anche carica di promesse. “Chi non
risica non rosica,” udì se stesso dire.
“Così
mi piace,” apprezzò Clerici. “Un uomo che sia un uomo deve saper
rischiare. Quanto ha detto che chiede la Diamond House per quella
proprietà?”
Rizzelli
snocciolò l'importo. L'altro annuì con l'aria di chi considera il
prezzo tutto sommato equo.
Sempre
parlando fra loro si diressero al banco delle fiche e l'agente
immobiliare si trovò con una banconota da venti euro in mano. A quel
punto, il fluido ricominciò a farsi sentire.
Indicò
una VLT. “Come funzionano quelle, dottor Clerici?”
L'uomo
glielo spiegò.
Egli
si avvicinò al terminale, fece scivolare nell'apposita fessura i
venti euro, quindi spinse un tasto su cui era scritto 'Play'.
Immagini di ispirazione egizia presero a combinarsi in vario modo
sullo schermo, ma non successe molto altro.
Premette
di nuovo il tasto, le figure scorsero dall'alto verso il basso
imitando i rulli di una slot machine.
Ancora
niente. Qualche musichetta, i soliti disegni di occhi di Ra e
scarabei sacri.
Play.
Niente.
Play.
Niente.
“Ultima
giocata,” lo avvisò Clerici, che in piedi dietro di lui stava
seguendo la partita.
Rizzelli
premette il tasto, le figure scorsero e si combinarono, si creò un
disegno diverso da tutti i precedenti. La macchina si illuminò più
intensamente, cominciò a emettere suoni e jingle, sullo schermo
comparve una cifra che cominciò a crescere.
“Ma
guarda un po'!” esclamò Clerici.
Rizzelli
si girò verso di lui. “Che succede?”
“Ha
vinto, carissimo.” Si sporse verso il monitor. “La Fortuna le ha
ridato quello che le aveva preso con la roulette.”
I
numeri avevano smesso di aumentare e la cifra stava lampeggiando al
centro del display: novecentocinquanta euro.
“Che
fa, prosegue?”
Lo
sguardo fisso sulla somma, l'agente immobiliare scosse la testa.
Clerici
premette un altro pulsante, la macchina emise un talloncino stampato.
“Con questo va alla cassa,” spiegò l'uomo.
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“Grandi
notizie!” lo accolse Roberto al suo rientro in sede, “La
SoverData compra!”
“Davvero?”
“Ha
telefonato uno poco fa: si pigliano Villa Arzilla e tutto il parco,
al prezzo che chiedevamo. Il titolare non ci voleva credere.
Complimenti, Ale!”
Rizzelli
rimase in silenzio, più che altro perché stava calcolando la
commissione che gli sarebbe spettata alla vendita del prestigioso
immobile: era un bel gruzzolo.
Bello,
sì, ma di certo nulla che fosse in grado di cambiare la sua vita. E
poi ci avrebbe immediatamente messo su le grinfie Laura, e allora
rinnova di qua, sistema di là, compra su e compra giù... come al
solito si sarebbe dovuto accontentare delle briciole.
Sorrise
fra sé e sé: quando era rientrato da Portorose era stato ben
attento a non fare parola dei novecentocinquanta euro. Sulle prime
perché gli era venuta l'idea di far una sorpresa a sua moglie,
qualcosa tipo un week end romantico in qualche località di sogno, e
poi semplicemente perché quei soldi erano suoi. Li aveva
vinti lui, erano un regalo che la Fortuna aveva voluto elargirgli.
A
lui, non a chiunque avesse voglia di attingervi.
Era
stato anche bello ottenerli: ricordava ancora il brivido,
l'aspettativa, il cuore che andava a mille...
Si
era sentito vivo, potente.
Tirò
fuori il telefonino – non era bene che certe cronologie rimanessero
salvate nel server della ditta – e cercò le sale giochi in zona.
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