1. Il Peccato dell'Evocatrice
- «Nergal
eroe eccelso,
- vorresti
tu aprire una fessura negli Inferi,
- affinché
lo spirito di Endiku possa uscire dagli Inferi
- ed
egli possa informare suo fratello Gilgamesh
- sull'ordinamento
degli Inferi?
- Nergal
l'eroe eccelso, ubbidì,
- e
non appena egli ebbe aperto una fessura negli Inferi,
- lo
spirito di Endiku, come una folata di vento, uscì fuori dagli
Inferi.»
- ~
Tavola XII, Epopea
di Gilgameš
◊
Dominique
fissava gli zampilli d'acqua della fontana con l'unico occhio sano
che le era rimasto. Il parco, nonostante l'approssimarsi della sera,
era deserto, la causa era da imputare alle plumbee nuvole che
incombevano sulla città, gonfie, pesanti e scure come le piume di
una cornacchia grigia, promettevano una potente tempesta di lì a
breve.
L'occhio
destro, dall'iride scura quanto l'ebano, iniziò ad osservare la
spazio circostante, catturando il dolce ciondolare dei rami, il
fremere delle fragili foglie bronzo rossastre e qualsiasi movimento
fuori posto. L'occhio sinistro si spostava simultaneamente con il
gemello, malgrado fosse completamente inutile: l'iride di un bianco
lattiginoso mostrava senza vergogna la sua cecità. Nonostante
fossero passati sette anni da quel terribile giorno, c'erano volte in
cui l'occhio sinistro quasi le prudeva per la sensazione di
fastidiosa precarietà che le causava. Le dita le tremavano e
l'insicurezza la ghermiva paralizzandola e la distanza fra lei e il
resto del mondo si faceva fosca ed incerta.
Un
sospiro pesante abbandonò le sue labbra grandi e carnose, tinte di
un acceso rosso, poco pareva importarle che in quel modo evidenziasse
la sottile cicatrice che le segnava il labbro superiore, anch'essa a
perenne memoria del peccato da lei commesso.
Sette
anni addietro, il giorno del suo diciottesimo compleanno, Dominique
de Azara sfidò, con tutta l'impudenza della giovane età, il più
sacro tabù imposto al suo potere.
Ricordava
benissimo quel giorno quasi l'avesse vissuto l'attimo precedente,
quella era stata anche la prima volta che aveva effettuato la
catabasi, senza però la volontà di farla, trascinata negli
Inferi per espiare con la vita.
La
ragazza si passò una mano attorno al collo per scaldarselo, nel
farlo le lunghe e numerose collane tintinnarono delicatamente
nell'aria gravida di umidità.
Aveva
diciotto anni, scapestrata e testarda, con l'immensa voglia di
esaudire il suo più grande desiderio: conoscere sua madre.
Letha
de Azara era morta, dandola alla luce in quello stesso giorno di
diciotto anni prima. Nello stesso momento in cui sua madre chiudeva
gli occhi per non riaprirli mai più, Dominique apriva i suoi,
acquosi e innocenti, mentre sul suo piccolo e paffuto dorso sinistro
della mano, compariva un disegno oscuro così disgustosamente in
contrasto con la candida pelle. Il simbolo del suo potere, del suo
essere. La morte della madre l'aveva consacrata necromante.
L'uroboro,
il serpente che si mangia la coda, simbolo del ciclo di vita e morte,
era il segno distintivo di alchimisti e necromanti, il cui potere era
in grado di richiamare gli spiriti dall'aldilà e perfino evocare
demoni e legarli a sé.
Dominique
quel giorno si sentiva pronta, percepiva il fluire della sua forza
vitale e spirituale, quelle due forze che unite le permettevano di
fare qualcosa di sibillino, oscuro ma prodigioso.
Si
incise il palmo della mano sinistra, gocce di sangue, linfa di vita e
sacrificio, caddero sulla piccola statua in argilla raffigurante una
creatura angelica, realizzata dalla stessa Dominique come tributo da
donare allo spirito. Alcune parole, enunciate in una lingua
inascoltabile all'orecchio umano, scivolarono lente e profonde fra le
sue labbra, non c'era incertezza, il nome della madre lo pronunciò a
voce alta con sollievo e venerazione.
«Letha
de Azara»
Lo
spirito comparve, etereo quasi iridescente ma estremamente limpido;
Letha de Azara era ad un passo dalla figlia, più meravigliosa che
nelle fotografie.
Fu
il tempo di un respiro; sua madre ebbe appena il tempo di un barlume
di consapevolezza e lei nemmeno quello per pronunciare quella parola
- che mai in tutta la sua vita avrebbe usato - “Mamma”. Qualcosa
di oscuro e mostruoso attraversò Letha, le cui labbra si aprirono in
un'espressione a metà fra la sorpresa e l'avvertimento. Un braccio
che non possedeva nulla di umano e terreno afferrò il volto di
Dominique, troppo incredula per reagire e la trascinò a fondo ad una
velocità folle, risucchiata in un vortice invisibile ma
ineluttabile.
Si
ritrovò in ginocchio, febbricitante mentre conati di vomito le
scuotevano le viscere e il corpo. Boccheggiò, facendo fatica a
respirare, poiché l'aria, si rese conto, era rarefatta e pesante
irrorata di un odore talmente dolce da risultare nauseante.
Una
voce cavernosa e ruggente come quella di un leone, le raggiunse le
orecchie perforandogliele, un sacro terrore si impadronì di lei;
quella lingua era la lingua degli inferi, la stessa che usava lei per
aprire una fessura nella Soglia.
Alzò
lo sguardo e la paura più viscerale la paralizzò. Un uomo che uomo
non era, la fissava con occhi di brace ardente, terribili ma
bellissimi, il corpo di un essere umano ma braccia e gambe di un
drago con artigli affilati come lame, pericolosi e bramosi di lei,
sulla schiena ali forti ed enormi dalla membrana opalescente,
proiettavano un'ombra su quasi tutta la terra che li circondava.
Dominique
tremò nuovamente davanti a quel demone, l'oscurità che emanava la
schiacciava a terra, su quella sabbia dal colore indefinito che però
le penetrava nelle narici bruciandole le vie respiratorie, le feriva
la pelle, strappandole le vesti ricoprendo l'incarnato di pagliuzze
luccicanti.
Con
uno sforzo disumano si guardò attorno e non riconobbe quel luogo, ma
sapeva perfettamente dov'era: negli Inferi e nella parte più oscura
di essi. Aveva appena fatto una catabasi, ma in un modo che non si
sarebbe mai aspettata.
A
quel punto, la paura si attenuò leggermente e un pensiero luminoso
ma angosciante le sovvenne;
«Dov'è
mia madre?» chiese nella lingua inascoltabile per orecchio umano. La
voce le tremava e non riusciva ad alzare lo sguardo su quegli occhi
feroci e ultraterreni, limitandosi a posarlo sul petto bronzeo.
Il
demone assottigliò lo sguardo mentre le sue ali di drago si tesero
alla loro massima ampiezza per incuterle nuovo timore, di certo non
si aspettava che quell'umana dall'aspetto così fragile potesse anche
solo porgli una simile domanda.
«Tu
osi chiedere qualcosa a me? Tu sai perché sei qui, insulsa umana?»
la sua voce era terribile e le fece battere i denti per il terrore.
«Tu
hai peccato! Nessun necromante può evocare spiriti a cui è legato
da un vincolo di sangue o da un sentimento profondo. È proibito» il
suo tono ora era severo come una condanna e duro come una pietra
millenaria.
Dominique
fu schiacciata ancora una volta a terra da quel potere intenso, quasi
l'aria stessa ne fosse impregnata.
«La
tua condanna è di vagare negli Inferi per il resto della tua
miserabile vita, provando i morsi della fame con le labbra arse per
la sete senza mai poterle soddisfare» sentenziò. Fra i suoi artigli
si rigirò la piccola ma graziosa statuetta raffigurante l'angelo.
Nel vederla Dominique si agitò, l'aveva creata pensando a sua madre,
ammirandone la figura attraverso le fotografie, l'aveva scolpita per
lei ed era l'unico legame che era riuscita a creare. Il demone la
frantumò con una pressione minima e qualcosa nel petto della
necromante si spezzò brutalmente. Urlò di rabbia, di dolore, con
una forza disperata si sollevò e come una Furia, senza nemmeno
pensare a cosa stesse facendo, alla sua vita, alle conseguenze si
gettò contro il demone col solo desiderio violento di procurargli
dolore ad animarla.
Per
un misero, imperfetto istante il demone rimase seriamente e per la
prima volta colpito, ma l'attimo successivo l'aveva atterrata con la
sola potenza di uno sguardo.
Dominique
si contorse a terra, urlando, scalciando e battendo i pugni, cercando
di ribellarsi a quella potenza, come fosse una fiera selvatica, e il
demone nel vedere la scintilla della vita sgorgare così impunemente
da quella giovane umana, il suo rifiuto per l'autorità, i suoi
sentimenti così genuinamente, quasi selvaggiamente espressi, scoppiò
in una risata che alle sue orecchie giunse come una melodia antica
quasi nostalgica.
Il
demone la bloccò a terra sovrastandola col proprio corpo, accostò
le labbra peccaminose al suo orecchio, il suo sussurrò fu qualcosa
di talmente sommesso e angelico che le fece salire le lacrime agli
occhi d'un colpo.
«Ho
cambiato idea, giovane En-dor*. Ma sappi che pagherai per il
tuo peccato, nessuno lascia gli Inferi senza aver perso qualcosa.
Ricordalo Dominique de Azara, ricorda sempre qual è il tuo peccato».
Il
palmo mostruoso del demone si posò lieve e delicato, come un battito
d'ali di farfalla, sul suo occhio sinistro. All'inizio non avvertì
nulla, l'espressione di incredula stupidità, poi un dolore
lancinante ed impietoso la colpì violentemente al volto.
Urlando
disperata si ritrovò sul il duro parquet della sua stanza, tenendosi
il viso che le pareva andasse a fuoco. Il resto fu confuso, si
ricordava vagamente di suo padre e suo fratello che accorrevano da
lei. Lei che urlava, urlava chiamando sua madre, maledicendo quel
demone, Astaroth, la voce le sarebbe andata via per giorni, svenne.
Al suo risveglio l'occhio sinistro era completamente cieco.
Dominique
tornò presente a se stessa, distaccandosi con stizza da quei vividi
ricordi.
Guardò
l'ora, il suo cliente sarebbe giunto tra pochi minuti, un rombo fece
vibrare l'aria ormai satura ma Dominique continuò a non curarsene,
con un gesto secco si scostò i lunghi capelli tinti di platino e si
alzò in piedi, il corpo teso a causa di quello che aveva appena
rivissuto nella sua mente. Astaroth le aveva sì tolto parte della
vista ma non l'aveva privata di qualcosa di infinitamente di più
importante: il ricordo di sua madre. Se anche solo per una manciata
di istanti madre e figlia si erano incontrate e riconosciute.
L'avrebbe rifatto, senza esitare e avrebbe sputato in faccia al
principe degli Inferi, perché il sacrificio di un occhio per lo
sguardo di sua madre finalmente posato su di lei, valeva più di
tutto.
La
pioggia finalmente fece la sua entrata in scena, con uno scroscio
cadde su ogni cosa, mutandone i contorni, tutto era così caliginoso
e grigio ma Dominique non aveva tempo per badarci, il suo cliente era
arrivato. Era una donna elegante con l'ombrello che le copriva appena
il volto; lei invece non aveva niente per ripararsi, ma certe cose
non le aveva mai ritenute necessarie, o forse era solamente troppo
pigra per portarsi dietro qualcosa di più di se stessa con anelli e
collane.
«Vuole
favorire?» la donna educatamente sporse l'ombrello per coprire anche
lei.
«Oh
beh grazie, senta è lei la mia cliente?» il suo tono era alto, lo
era sempre stato. La sua voce era chiara e decisa come se dovesse
ogni volta sovrastare qualsiasi altro rumore, o semplicemente
cancellare il silenzio, chi aveva fatto della morte la propria
sorella sapeva bene cosa significava quella solitudine meditativa che
volente o nolente ti accompagnava per tutta la vita.
«Precisamente»
replicò composta;
«Chi
ha bisogno che evochi?» chiese lei spiccia, a volte questo suo modo
di porsi feriva molti suoi clienti. La morte non era mai un tema
facile da affrontare, lei lo sapeva meglio di chiunque altro e
proprio per questo a volte la trattava in modo quasi dissacrante, pur
di non restare ferita a sua volta.
«Oh
non voglio assumerla per questo. C'è qualcosa di ben più urgente e
oscuro e spero che lei sia la persona giusta per trattare una
questione così delicata».
Ah,
quello non se lo aspettava.
«Cosa
esattam-?»
«Lei
cosa sa di uno dei principi degli Inferi, Astaroth?»
Merda.
◊
“I'll
survive.
Somehow
I always do”
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*Strega
di En-dor: necromante che per volontà di re Saul evoca lo
spirito del profeta Samuele. Bibbia, primo libro di Samuele.