I’m
Nobody’s but
Yours
Di
quella sera ricordo che mi gettai sul divano, con la sensazione di non
riposarmi
realmente da giorni.
Era
ormai novembre inoltrato e presto sarei avanzato di un altro anno.
«Hai
programmi per il tuo compleanno?» sentii gridare Den
dall’altra stanza.
Un
sorriso spontaneo mi si dipinse sulle labbra.
«Prima
dimmi perché mi devi sempre parlare con
l’asciugacapelli acceso» sbraitai di
rimando, irritato e allo stesso tempo divertito da quella sua strana
abitudine.
Den
pareva a tratti la mia controfigura, ma più spesso si
comportava nel modo
esattamente contrario a come avrei agito io: quest’amalgama
di somiglianze e
differenze mi faceva sorridere.
«Perché
non ho niente da fare, è il momento perfetto per fare
conversazione».
Comparve
improvvisamente in salotto con la chioma perfettamente asciugata,
osservandomi
con espressione stranita.
Era
chiaro quanto per lui quei gesti fossero del tutto naturali.
Gli
sorrisi, invitandolo ad accomodarsi accanto a me, osservandolo
attentamente negli
occhi: «Dimmi che quella camicia non è
tua» affermai in tono serio.
Lo
vidi voltarsi candidamente, totalmente estraniato dalla situazione.
«Perché?».
«È
oscena, diamine!» risi di gusto, abbandonandomi sui cuscini
posti dietro la mia
schiena.
Mi
raggelò con lo sguardo ancor prima che poggiassi i piedi
sulle sue gambe.
«Solo
perché c’è disegnato
Pikachu?» borbottò, solleticandomi nel contempo la
pianta
dei piedi.
Quei
momenti mi facevano riflettere su quanto fossi fortunato: avevo accanto
a me
una persona che aveva dovuto imparare a prendere la vita come veniva,
ridendoci
su.
Stare
con Den era come prendere una boccata d’aria fresca a pieni
polmoni: d’un
tratto ci si sentiva rinvigoriti, proprio come mi sentivo io in quel
momento.
La
stanchezza era divenuta d’improvviso un lontano ricordo.
«Comunque
mi hai rubato il posto, furfante!» mi lamentai, tentando di
distrarlo.
«Non
hai risposto alla mia domanda, comunque».
Mi
rivolse un sorriso lascivo, mentre un mio piede scivolava proprio sul
cavallo
dei pantaloni.
Non
dissi nulla, ma non potei fare a meno di constatare che non indossasse
la
biancheria intima.
«Ti
ho mai raccontato di quando Sindy organizzò una festa di
compleanno per me?».
Un
genuino sorriso mi sfiorò involontariamente le labbra.
«È
stato forse il compleanno più bello…»
continuai, con lo sguardo perso nella
memoria.
Nonostante
il modo in cui era terminata la serata, la festa era stata decisamente
emozionante.
Poi
lo vidi sollevarsi di scatto, dirigendosi verso la cucina.
Avrei
voluto raccontargli tutto nei minimi dettagli: Sindy aveva organizzato
a mia
insaputa una festa su una pista di pattinaggio, riuscendo a trascinare
sul
ghiaccio perfino me; la cura che ci aveva dedicato era evidente e,
nonostante
riuscissi a malapena a reggermi in piedi, pattinare accanto a lei
è senz’altro una
delle esperienze che conservo tuttora più gelosamente.
Le
mani calde mi tenevano stretto, facendo scivolare le lame sul terreno
gelato con
la scioltezza di un campione.
Non
vedendolo tornare, decisi di seguirlo, trovandolo accoccolato al
cucinino,
intento a preparare ciò che sembrava del tè.
Lo
strinsi da dietro, facendo scivolare le mani sullo sterno, infilando il
viso
nell’incavo di una spalla fasciata dal tessuto soffice.
«Che
cosa c’è?» mormorai, pensando
rapidamente a che cosa avessi potuto dire o fare
di sbagliato.
Lui
si divincolò, scolando il liquido scuro in una tazza color
lampone.
Vidi
qualche foglia scivolarci all’interno, poi spostai lo sguardo
sul suo viso.
L’espressione
seria dipinta in volto lasciava trasparire un velo di amarezza, forse
invisibile
a un occhio qualsiasi, ma sicuramente lampante per chiunque lo avesse
amato quanto
me.
Che
cosa sarebbe successo, semmai avessi inavvertitamente compiuto un gesto
tanto
tremendo da allontanarlo da me?
Senza
la sua presenza, la mia esistenza sarebbe difficilmente tornata ad
essere piena
di colori.
Tutti
i sapori sarebbero tornati ad essere scialbi; alcun paesaggio sarebbe
più stato
evocativo quanto lo è quando condiviso.
Per
di più, Sindy era lontana e, da quanto ne sapevo, aveva
fatto interessanti
conoscenze.
Gli
ripetei la domanda, osservandolo sorseggiare pigramente la bevanda
bollente.
Poi,
finalmente, puntò le iridi infuocate dritte nelle mie.
«Sindy,
Sindy! Parli sempre di lei, ma non ti sei mai disturbato a spiegarmi di
chi si
tratta!» irruppe, urtando la tazza e facendo scivolare
qualche sorsata di tè
nel lavello.
«Era
la tua ragazza? Ci hai scopato?» continuò, in tono
furioso.
Scoppiai
a ridere sguaiatamente. Non riuscii a trattenermi: non riuscivo a
credere che
Den avesse frainteso tutto. Solamente ipotizzare che io e Sindy
avessimo avuto
dei rapporti intimi mi pareva genuinamente assurdo.
Soprattutto
perché, in fondo, ne ero sempre stato consapevole anche io:
il genere femminile
non mi aveva mai attratto.
«Che
cosa c’è di divertente? Mi prendi in giro
ora?» lo sentii gridare, dirigendosi
verso il salotto.
Lo
seguii, accoccolandomi accanto a lui sul sofà.
«Non
capisco se tu stia mettendo in dubbio la mia sessualità o il
mio rapporto con
Sindy» risposi, guardandolo in viso.
«Io
voglio solo sapere la verità» mormorò,
«penso di averne il diritto» asserì,
giocherellando con il laccio dei pantaloni.
Passammo
qualche minuto in silenzio, fino a quando non presi le sue mani tra le
mie,
cominciando a parlare: «Sindy è come una sorella
per me. A volte dubito non sia
mia sorella di sangue».
Nuovamente,
le memorie dei tempi andati mi travolsero con tutta l’energia
di cui erano dotati.
«Sindy
è nell’aria che respiro» mormorai
istintivamente.
«Lei
è ovunque, pur non essendo fisicamente qui. Funziona
così quando una persona ti
entra nel cuore».
Poi
lo guardai in viso, osservando i suoi occhi lucenti. Pareva sul punto
di
scoppiare in lacrime.
«Mi
manca molto» aggiunsi.
Solo
tempo dopo mi accorsi di essere stato forse troppo diretto; tuttavia,
in quel
momento non potei impedire alle parole di fluire dalle mie labbra.
Den
doveva aver intuito chiaramente la sincerità nella mia voce:
sbatté le palpebre
un paio di volte, come se gli fosse appena passato per la mente un
ricordo
confuso.
«Ti
ha fatto finire in coma, Rickard» asseverò,
«forse non è una persona così bella
come la dipingi».
Mi
irrigidii. La voce tremante mi fece intendere non avesse alcuna
intenzione
maligna, ma non avrei permesso a nessuno, nemmeno a Den, di parlare
male di
Sindy.
«Non
dire così» dissi perentorio, «sai come
sono andate le cose, lei mi ha salvato».
Abbandonai
le sue mani per rifugiarmi in un angolo del divano, improvvisamente
infreddolito.
«Non
conosci la sua storia» continuai.
Den
mi osservò in viso, spalancando la bocca per dire qualcosa,
per poi richiuderla
subito dopo, riprendendo a giocare con i nastri dei pantaloni.
Passarono
minuti interminabili. Le parole che avevo mormorato roteavano tra le
mie
sinapsi fino a farmi girare la testa.
«Scusami»
sussurrai dopo svariati minuti di silenzio.
Fu
un mormorio quasi intelligibile, ma ero certo lo avesse percepito
ugualmente.
Poi
mi avvicinai cautamente: le guance erano solcate da grandi lacrime
silenziose,
che Den non si preoccupò di asciugare.
La
sua espressione sofferente mi procurò un urto al cuore, come
se, nel battere,
si fosse improvvisamente imbattuto in un gigantesco ostacolo.
D’istinto,
gli presi il volto tra le mani, poggiandolo sul mio petto; infilai le
dita tra
i capelli morbidi e puliti, tuffando il viso nella chioma color
caramello,
inspirandone intensamente il profumo.
«Lo
sai che ti amo» sussurrai, per poi sollevargli il mento e
posargli un tenero
bacio a fior di labbra, a cui seguirono altri cento, fino a quando non
mi ritrovai
nuovamente con il dorso contro i cuscini.
Feci
scivolare le mani sotto la camicia, carezzando il costato, sfiorando la
pelle
infuocata.
Stringerlo
tra le braccia mi procurava una sensazione di sicurezza che raramente
avevo
provato prima.
«Se
sapessi quanto ti amo non avresti dubbi» mormorai, con le
labbra contro il suo
collo.
Non
parve affatto colpito dalle mie parole.
«Prima
pensavo a una cosa» sussurrò in tono stranito.
Poi
si tirò a sedere.
«Conoscevo
una bambina di nome Sindy».
Per
un istante, mi persi nelle sue iridi verde foresta.
«Mi
hai detto che veniamo dalla stessa città, giusto?».
Ci
riflettei un attimo: effettivamente, ero rimasto molto stupito dal
fatto che
sia Den sia Sindy fossero nati nello stesso luogo.
Feci
un cenno col capo.
Den
rimase a lungo in silenzio, forse confuso, deluso, o probabilmente solo
stanco.
«Ho
tante cose da raccontarti, Rickard» lo sentii mormorare.
«Forse
questa Sindy ha fatto parte anche della mia vita».
Mi
misi seduto. Forse era pronto a parlarmi del proprio passato, e io ero
disposto
ad ascoltarlo.
A
mia insaputa, un nuovo capitolo della nostra storia stava per avere
inizio.
Disclaimer:
Per questa storia, devo ringraziare la cara Soul Dolmayan, senza la quale non mi sarei mai discostata dalla mia comfort zone e non avrei mai provato a scrivere in prima persona.
A questo proposito, spero il risultato sia apprezzabile.
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