Salve a
tutti,
per chi l’avesse
letta, questi sono i due sbirri ignobili di “La notte dei lemming”,
più che mai cinici e politicamente scorretti, data la ricorrenza
natalizia.
Chiaramente, chi
legge sa già, dati i personaggi, che si prenderanno in giro
minoranze, si diranno battute orribili e cose del genere.
Chi non gradisce il
genere può benissimo evitare di leggere, la storia è volutamente
sopra le righe, ha talvolta i toni della commedia dissacrante e non
pretende di essere uno spaccato della società o che altro. Vale
sempre il solito discorso: se qualcuno si sente offeso, sappia che
anch’io mi sento offeso da un sacco di cose, ma non per questo mi
sento in diritto di andare in giro a rompere le balle alla gente.
Semplicemente leggo altro e siamo più felici in due.
Per chi invece
apprezza il genere: enjoy!
NOTTE
D’ARGENTO
Il
direttore dell’albergo abbassò la cornetta e chiese: “Se n’è
accorto qualcuno?”
Il
suo vice scosse la testa. “Nossignore. Gli ospiti sono tranquilli
come sempre.” Fece una breve pausa, quindi col tono pacato di chi
sta gestendo un piccolo inconveniente di nessun conto, soggiunse: “Ho
fatto bloccare l’ascensore che porta alla terrazza con la scusa di
una manutenzione e ho messo un paio di uomini sulle scale.”
“Ah,
molto bene,” approvò l’altro, “molto ben fatto, così nessuno
può capitare là sopra e vedere.” Si alzò e andò alla finestra,
sogguardò all’esterno. Svariati piani più in basso, nel piazzale,
i parcheggiatori stavano discretamente indirizzando una
macchina
della polizia verso una zona poco illuminata.
Tornò
alla scrivania, emise un sospiro e disse: “Ma tu guarda che razza
di sfiga: dopo la faccenda del Mandalay e quella della Stratosphere,
doveva capitare proprio qui, quella svitata?”
L’altro
si strinse nelle spalle.
“E
sotto Natale, poi!” rincarò il primo. “Sotto Natale un problema
del genere non ci voleva proprio. Chi è che le ha dato una stanza, a
quella? Non si sono accorti che era una svitata?”
“Beh,
signore, non è che possiamo chiedere la cartella clinica a tutti
quelli che vogliono stare da noi, non le pare?”
“Certo,”
replicò il direttore in tono velenoso, “e poi ci troviamo con la
squilibrata di turno che vuole farsi fuori saltando dalla terrazza.”
Tra
i due calò un silenzio carico di tensione, rotto solo dal fioco
squillare di qualche telefono nelle profondità dell’area degli
uffici.
Il
direttore pensò agli abeti, alle luminarie, ai babbi natale, alle
renne e alle tonnellate di palline colorate che aveva fatto
acquistare. Aveva voluto fare le cose in grande, eguagliare o magari
superare il leggendario allestimento natalizio del Bellagio, che ogni
anno attirava frotte di visitatori… e proprio mentre aveva la hall
piena di famiglie che scarrozzavano in giro i bambini, arrivava una
pazza con la pretesa di rovinare tutto. Rivolse uno sguardo
sconsolato al piccolo abete che la segretaria gli aveva collocato
all’angolo superiore sinistro del sottomano e sospirò: “Ma che
cazzo ho fatto di male nella vita?”
Il
vice si voltò a guardarlo. “Prego?”
“Dicevo:
che cazzo ho fatto di male, che Dio mi punisce mandandomi questa
stronza in piene festività natalizie del cazzo? Lo sai quanto
perdiamo, se quella riesce a saltare?”
“Non
si preoccupi, signore,” fu la disinvolta risposta, “dalla
centrale di polizia fanno venire due esperti.”
Il
volto del direttore si accese di un barlume di speranza. “Due
esperti?”
“Sì,
signore. Sono quelli che nella faccenda della Stratosphere
catturarono il capo della setta.”
“Meno
male.”
“Sono
due che sanno il fatto loro.”
A
quel punto squillò il telefono interno. Il direttore sollevò la
cornetta. “Sì?”
“Signore,
gli agenti sono arrivati,” annunciò la segretaria.
“Li
porti qui, ma senza dare nell’occhio.”
Di
primo acchito, i due agenti non gli parvero degli esperti, qualunque
cosa significasse. Gli parvero anzi due poliziotti normalissimi: tra
i venticinque e i trenta, ben piantati, uniforme kaki e giubbotto
invernale scuro, pistola, manette.
Ne
aveva visti a decine, di poliziotti del genere.
“Agente
Schneider,” si presentò il più alto dei due, che sembrava anche
il più vecchio. Indicò il collega e aggiunse: “E questo è
l’agente Stevenson.”
“Buona
sera, signore,” salutò in tono professionale il chiamato,
ricevendo in risposta un cenno del capo.
A
quel punto, il primo poliziotto chiese: “Qual è il problema,
signore?”
Il
direttore alzò gli occhi al cielo. “Ho una tizia seduta sul
parapetto della terrazza panoramica. Dice che si vuole buttare.”
“Tipico,”
considerò Schneider senza scomporsi particolarmente.
“Come
vi comportate in questi casi, agente? Mandate gli psicologi? Fate
venire un elicottero?” Il direttore fece una pausa, quindi in tono
di apprensione soggiunse: “Non farete mica transennare la zona,
vero?” E già si immaginava scene di panico, giornalisti che si
aggiravano ovunque, gente che abbandonava il suo albergo in favore di
posti più tranquilli…
La
voce dell’agente interruppe quel fiume di considerazioni
angosciose: “Non ce ne sarà bisogno.”
“Davvero?
Questa è una bellissima notizia.”
Tranquillo
come se stesse parlando del tempo, Schneider disse: “Niente di
tutto questo, signore. Quella gente cerca importanza, altrimenti si
ammazzerebbe senza fare tanto casino, non le pare?”
A
quel punto intervenne l’altro agente: “E quindi, signore, meno
attenzione diamo loro, meno saranno interessati a proseguire la loro
messinscena.”
“Ah,
magnifico,” annuì l’uomo con sollievo. “Si vede proprio che
siete degli esperti.”
La
terrazza era fredda, appena illuminata dal riverbero delle luci
natalizie multicolori. Spirava un vento gelido e carico di umidità.
Accanto
alla porta, con i giacconi invernali sopra le uniformi di servizio,
due cameriere tenevano d’occhio una terza persona, mantenendosi a
rispettosa distanza.
A
bassa voce, una di esse spiegò: “È là immobile, non fa altro che
ascoltare sempre la stessa canzone.”
Indicò
una donna che sedeva sul parapetto, coi piedi penzoloni nel vuoto e
lunghi capelli biondi che le fluttuavano sulle spalle. Portato dal
vento, giunse lo spezzone di una strofa: Here,
lonely and marooned… here, howling at the moon...
“Cos’è
questa lagna?” chiese Stevenson.
Schneider
rispose: “Una che si vuole ammazzare non ascolterà certo Ramalama
Daisy, non ti pare?”
“Si
vede proprio che sei un esperto,” replicò in tono sarcastico il
collega, poi soggiunse: “Sembra carina.”
“Non
farti ingannare: dietro liceo, davanti museo.”
“Dici
che in realtà è una vecchia?”
Schneider
alzò le spalle. “Boh. Non si può mai essere sicuri, al giorno
d’oggi.” Si rivolse al direttore: “Quanti anni ha?”
“Quaranta,”
rispose pronto l’uomo. “Susan Brodd, di Coyote Springs. Ha preso
una stanza questa mattina, se n’è stata in camera tutto il giorno,
e adesso...” La indicò come una massaia avrebbe indicato il gatto
colpevole di aver cagato sul tappeto.
La
canzone frattanto continuava a risuonare: Here,
not a single light. Here, in the darkest night...
“Andiamo
a vedere,” concluse Schneider. Si rialzò il bavero della giacca.
“Freddo del cazzo,” brontolò.
“’Sera,
signora,” salutò l’agente portandosi due dita alla visiera del
berretto. “Si gode il panorama?”
“Non
cerchi di fermarmi,” lo ammonì la donna senza nemmeno voltarsi.
“Chi
se ne frega di fermarla, signora, ma ha notato il casino che sta
combinando?”
Alla
domanda seguirono alcuni secondi di silenzio, poi la donna si voltò
lentamente, rivelando un volto ancora giovane, anche se segnato dal
dolore.
“Ci
sono delle macchine, là sotto, c’è della gente. Ha pensato a cosa
succede se lei decide di fare il volo d’angelo, signora?”
Susan
emise un lungo sospiro. “Succede che smetto di soffrire.”
“Per
quello bastava un treno merci. Si sarebbero accorti di averla
travolta alla stazione successiva, l’avrebbero scrostata via dalla
motrice e tanti saluti a tutti. Così invece mi dà l’idea che lei
non abbia voglia di ammazzarsi, ma di rompere i coglioni.”
La
donna si limitò a rivolgergli una lunga occhiata triste. “Io ho il
cancro,” disse alla fine.
Schneider
rimase impassibile. “E quindi?” Scambiò uno sguardo con il
collega, che alzò le spalle.
“Non
voglio soffrire.”
La
canzone nel frattempo era finita. Ci fu qualche secondo di pausa, poi
ricominciò: Here,
lonely and marooned...
“E
basta con quella lagna,” disse il poliziotto.
La
canzone si interruppe. Sulla terrazza calò un silenzio appena
turbato da una vaga eco di musichette natalizie.
“Vuole
saltare? Vada a farlo di là, signora,” Indicò la parte della
terrazza che dava sulle installazioni di servizio, “oppure vada a
cercarsi un bel treno merci e non rompa i coglioni a chi sta
lavorando.”
“Che
testa di cazzo,” brontolò Schneider.
“Veramente
una stronza,” replicò Stevenson.
La
hall era desolatamente vuota, qualche aiuola di poinsettie era stata
calpestata, i babbi natale di polistirolo erano finiti gambe
all’aria, qua e là rotolavano palline. Da fuori proveniva il
lampeggiare rosso e blu di ambulanze e macchine della polizia.
Schneider
adocchiò una barella coperta da un telo bianco e disse: “Quella è
la classica stronza che vuole morire rompendo i coglioni al prossimo
più che può. Ma un bel treno merci? Una bella pistola in bocca in
mezzo al deserto? No, deve saltare dalla terrazza di un albergo di
Las Vegas nel bel mezzo di tutte le cazzate natalizie. Certa gente
bisognerebbe ammazzarla.”
I
due si imbatterono nel direttore. Schenider assunse un’espressione
da esequie di stato e disse: “Ha visto anche lei: abbiamo tentato
in ogni modo.”
L’altro
annuì. “Certo, agenti. Vi ringrazio per il vostro intervento.”
Scambiarono
ancora qualche convenevole, poi i poliziotti uscirono. Schneider
infilò le mani in tasca. “Freddo del cazzo,” ripeté, “a
momenti non sento più le dita.” Fece girare un’occhiata torva
tutt’intorno, poi brontolò: “Fanculo al Natale. Ormai non fa in
tempo a finire Halloween che cominciano a romperci i coglioni con le
renne e gli abeti del cazzo.”
“Una
merda,” assentì Stevenson. “Che fai la notte del 24?”
“Mi
sono fatto mettere di servizio, almeno potrò prendere a calci
qualche ubriaco per sfogarmi. E tu?”
L’altro
alzò gli occhi al cielo. “Non parlarmene, amico: mi toccano i miei
vecchi, la famiglia, i nipotini del cazzo e tutte le rotture di
palle.”
“Andiamo
a prendere un caffè da Hooters?”
“Sì,
vedere un po’ di tettone fa sempre piacere.”
☺
Accomodato
sullo schedario della sala briefing della Centrale c’era un
orsacchiotto di pezza vestito come un poliziotto, ma con il cappello
da babbo natale e un sacco di iuta sulla spalla. In un angolo c’era
un albero sintetico bianco e blu con un giro di lucette intermittenti
multicolori. Accanto al bricco del caffè, Clerici, un agente
italoamericano, aveva allestito un presepe. La madonna era una barbie
di sua figlia e san Giuseppe un’action figure di He-Man. Al posto
del bambinello c’era un pupazzetto di pezza trovato nell’abitazione
di un gruppo di haitiani clandestini. Prima di metterlo nella
mangiatoia – un bicchiere di Starbucks tagliato a metà per il
lungo – aveva dovuto sfilargli certi strani spilloni, ma riteneva
che facesse comunque un’ottima figura.
Schneider
gettò un’occhiata sprezzante all’allestimento, quindi si
avvicinò al mobiletto sul quale si trovavano le tazze e ne prese una
col logo della polizia di New York, frutto di uno scambio tra
colleghi. La riempì di caffè, la sollevò come per un brindisi e
disse: “Fanculo a tutta la merderia natalizia, addobbi e buoni
sentimenti mi hanno già rotto le palle.” Bevve un sorso, arricciò
il naso e ringhiò: “Cazzo, fa più schifo del solito.”
Stevenson
occhieggiò a sua volta i recipienti, poi disse: “Quella che
piacerebbe a me non viene mai portata dai colleghi in visita.”
“Perché,
come sarebbe quella che piace a te?” gli chiese Schneider.
L’altro
gli rivolse un sorriso compiaciuto e spiegò: “fatta a torso
femminile, con le tette.” Digitò qualcosa sullo smartphone, quindi
girò il display nella sua direzione. “Pere enormi e niente testa:
la donna ideale.”
L’altro
sogghignò. “In effetti...”
A
quel punto entrò nella stanza Clerici, che andò al suo presepe e
affettuosamente sistemò meglio il bambinello nella mangiatoia, poi
passò all’albero e mise a posto anche i festoni luccicanti.
“Quella
roba starebbe meglio in discarica,” lo apostrofò Schneider.
Il
collega si voltò a guardarlo con aria perplessa. “Tra un po’ è
Natale,” gli ricordò. La voce aveva un tono di vaga premura, come
se davvero stesse spiegando a uno Yanomami o a un Bororo il
significato di quegli strani allestimenti.
“E
dove sta scritto che quando arriva il 25 dicembre bisogna
rincretinirsi?” replicò il primo. “Io non ne posso già più di
tutte queste stronzate.”
Clerici
scosse la testa come di fronte a un bambino capriccioso con cui però
ci vuole pazienza, poi disse: “È tradizione. Le tradizioni sono
belle, mantengono in contatto con le proprie radici.”
Schneider
alzò le spalle. “Siamo sbirri, non giardinieri, e tutta questa
paccottiglia rompe solo le palle.”
“A
te non piace il Natale?”
“Mi
fa cagare. Buoni sentimenti posticci, gente che ti regala stronzate
perché deve comunque rifilarti qualcosa, parenti sconosciuti che
vengono a rompere i coglioni dopo che per un anno non si sono fatti
sentire, e che poi non si faranno più sentire per un altro anno. È
la fiera dell’ipocrisia buonista.” A quel punto si girò verso
Stevenson, che stava finendo di bere il suo caffè in una tazza della
Polizei tedesca, e disse: “Andiamo a guadagnarci la paga, prima che
tutta questa melassa mi faccia venire il diabete.”
Alla
guida dell’auto di servizio, Stevenson disse: “Hai ragione,
questa roba fa veramente schifo.” Indicò un albero di Natale alto
almeno cinque metri, grondante di palline brilluccicose, festoni,
lampadine, bastoncini di zucchero filato, caramelle e altra
paccottiglia. Poco lontano c’era un palco sul quale alcune
ballerine in costume vagamente natalizio si producevano in danze a
tema. “Almeno quelle sono fighe,” commentò.
Schneider
dedicò alle ragazze uno sguardo svogliato. “Potremmo andare a
controllare lì intorno,” propose.
Stevenson
mise la freccia e accostò lentamente al marciapiede.
Scesero
tra la folla, che a malapena fece caso a loro, e si avvicinarono al
palco schivando gente che trasportava pacchi regalo e bambini che
correvano strillando. La neve non c’era quasi mai a Las Vegas, ma
più di un negozio aveva allestito file di luci che simulavano la
caduta dei fiocchi o le candele di ghiaccio. Dappertutto c’erano
decorazioni a tema, luminose o semplicemente luccicanti.
Schneider
alzò lo sguardo sulle ballerine e disse: “Almeno quelle si
lasciano guardare.”
“Hanno
le tette piccole,” commentò Stevenson.
“Hai
mai visto una ballerina con le tette grosse?”
“È
per quello che preferisco le cameriere di Hooters.”
Girarono
un po’ lì intorno. Dietro il palco c’era l’ingresso di un
centro commerciale. Entrarono nell’atrio, di nuovo senza
praticamente venire notati nella frenesia di acquisti che ferveva
ovunque.
Da
una parte c’era un villaggio di Babbo Natale. Un omone vestito di
rosso, con una gran barba bianca posticcia, sedeva su una specie di
trono e i bambini facevano la fila per essere presi in braccio da
lui. Genitori orgogliosi riprendevano la scena con il telefonino.
In
un altro angolo della sala era stato allestito un candelabro ebraico
per la festa di Channukkah. Tutt’intorno c’erano tavoli da fiera
con sopra dei vassoi, un tizio con la kippah in testa e un microfono
in mano stava dicendo qualcosa. A ogni frase, gli astanti
rispondevano all’unisono.
Un
barbone era riuscito a infilarsi nella celebrazione e nel generale
raccoglimento stava sbafando a quattro palmenti.
Schneider
si guardò intorno e scosse la testa con disappunto. “Guarda tutti
questi stronzi,” disse al collega. “Normalissimi figli di puttana
tutto l’anno, che però sono pieni d’amore verso il prossimo dal
20 al 25 dicembre.”
Passarono
davanti a un negozio di dischi. In vetrina c’era la foto di quattro
tizi vestiti di nero, con la faccia color ricotta. Una scritta
recitava ‘The Rasmus’.
Here,
lonely and marooned...
risuonava nell’aria.
Stevenson
alzò gli occhi al cielo. “Di nuovo quella lagna,” disse.
Una
donna che reggeva una cassetta per offerte li fermò. Aveva l’aspetto
di una signora bene di mezz’età, di quelle che frequentano
attivamente la loro chiesa. Sul bussolotto c’era scritto qualcosa a
proposito di piccoli africani da salvare.
La
signora esibì un sorriso da madrina buona delle favole, quindi si
rivolse a Schneider e gli chiese: “Agente, le piacciono i bambini?”
Gelido,
il poliziotto rispose: “Dipende da come sono cucinati.”
D’istinto
la signora aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a proferire
parola, perché in un angolo della sala esplose una salva di strilli.
Subito dopo echeggiarono due colpi di pistola, gli strilli si
moltiplicarono, la folla ondeggiò.
“Porca
puttana!” esclamò Schneider, disinteressandosi della signora e
della sua eventuale risentita replica. Estrasse il revolver e si
diresse verso la provenienza dei clamori.
Individuò
subito un Babbo Natale che correva con una borsa sportiva in una mano
e una pistola nell’altra. Dietro di lui correva un pupazzo di neve.
“Polizia!
Fermi!” urlò.
I
due si separarono. Babbo Natale partì a testa bassa verso il suo
omologo sul trono, mandò a rotolare per terra un paio di persone,
travolse e abbatté una scenetta di elfi intenti a impacchettare
regali, fece volare via una renna e si lanciò di corsa verso
l’uscita, spintonando e sgomitando.
Schneider
gli corse dietro. “Polizia!” ripeté.
La
folla intanto si stava disperdendo, la gente si assiepava verso le
porte. “Via tutti!” urlò Schneider, quindi sparò un primo
colpo. In una cacofonia di strilli terrorizzati, il Babbo Natale
cadde, rotolò, si rialzò e riprese a correre.
L’agente
però aveva nel frattempo guadagnato terreno. “Via!” urlò di
nuovo, quindi sparò un altro colpo.
La
testa del tizio esplose come un cocomero, lanciando frammenti e
schizzi tutt’intorno. Si scatenò l’apocalisse: gente che urlava,
che vomitava, che sveniva. Bambini che strillavano, donne in preda a
crisi isteriche.
Un
albero di natale alto come un palo della luce ondeggiò e cadde in
uno sfacelo di palline e candeline, il trono del Babbo Natale
ufficiale si ribaltò, le casette degli elfi collassarono come
castelli di carte.
Schneider
stabilì che il suo rapinatore non era più un problema. Si guardò
intorno alla ricerca del collega e lo vide correre dietro al pupazzo
di neve. Questi si stava dirigendo a tutta velocità verso il
gruppetto intento alla celebrazione ebraica.
“Polizia!
Fermo o sparo!” disse come da regolamento Stevenson. Il barbone si
eclissò come per incanto, non prima di essersi riempito tutte le
tasche con quello che era riuscito ad arraffare, gli altri si
girarono verso la provenienza dei clamori e fecero a loro volta per
andarsene, ma il pupazzo di neve stava già correndo a tutta velocità
verso di loro.
“Tutti
a terra!” urlò l’agente, e tanto per far capire come stavano le
cose sparò un paio di colpi in aria, facendo cadere dal soffitto
stelline, palline e festoni. “A terra!”
Sparò
di nuovo, esplose un lampione vittoriano con finta neve.
“Fermo!”
Altro
colpo, una renna di plastica schizzò contro una vetrina di
pupazzetti di cristallo, che si sfracellò in un casino da fine del
mondo.
Stevenson
vuotò poi il tamburo sparando gli ultimi due colpi in successione.
Il pupazzo di neve fece una capriola in aria, si torse e si abbatté
al suolo, dove dopo due sussulti giacque immobile.
A
quel punto sulla scena calò un silenzio attonito, rotto solo da
qualche singhiozzo qua e là e dalla canzone lagnosa, che
imperterrita continuava a uscire dall’altoparlante del negozio di
musica.
Cominciarono
a farsi udire sirene in lontananza.
“Arrivano
i colleghi,” disse Schneider. Si avvicinò a Stevenson e proseguì:
“Certo che spari proprio di merda, eh.”
L’altro
si voltò verso il pupazzo di neve, che giaceva in una pozza di
sangue in quello che restava del candelabro ebraico e dei tavoli
rovesciati. Dolcetti tipici erano rotolati ovunque.
“Il
tizio l’ho preso, no?”
“Potresti
fare richiesta a Wilkes che invece del revolver ti dia in dotazione
un M-16.”
“Sei
il solito stronzo. Il tuo l’hai steso?”
“Gli
è scoppiata la testa come una zucca, peccato solo non essere a
Halloween.”
A
quel punto le sirene della polizia si erano moltiplicate, da fuori
proveniva già il riflesso di innumerevoli lampeggianti. “Ora
verranno a romperci le palle,” ringhiò Schneider rivolgendo uno
sguardo torvo alle luci rosse e blu.
“Hanno
sempre qualcosa da dire,” brontolò l’altro. “Chissà, magari
avrebbero la pretesa che fermassimo i delinquenti con tanto
amore, convincendoli
che stanno sbagliando.”
Schneider
si guardò intorno, sembrava che nella hall del grande magazzino
fosse passato un tifone. Adocchiò l’unico tavolo che era rimasto
approssimativamente intatto, lo raggiunse e raccolse un dolcetto da
un vassoio. Cominciò a sgranocchiarlo distrattamente.
Stevenson
si avvicinò. “Che roba è?”
L’altro
alzò le spalle. “Boh, non è male. Assaggia.”
Nel
frattempo si stava avvicinando il sergente Wilkes in persona. “Che
cazzo avete combinato, voi due?” li apostrofò da lontano.
Schneider
rimase imperturbabile. Diede un altro morso al dolcetto, quindi
chiese: “Vuole favorire, capo?”
L’altro,
che nel frattempo li aveva raggiunti, a voce più bassa sibilò: “Vi
favorisco un’azione disciplinare, brutti stronzi. Cos’è questo
cazzo di casino che avete combinato?”
L’agente
assunse un’espressione costernata. “Signore, trovandoci
fortunosamente sul posto, abbiamo sventato una pericolosa rapina.”
“Avete
fatto secchi due tizi in mezzo ai bambini che andavano da Babbo
Natale!”
“Non
si sono fermati alle intimazioni.”
“E
i bambini?”
L’espressione
di Schneider divenne quella del virtuoso ingiustamente perseguitato.
“Preferiva che magari ne prendessero qualcuno come ostaggio? E
invece no! Due eroici agenti di polizia hanno evitato che ciò
accadesse.”
“Schneider,
sei uno stronzo. Non te n’è mai fregato un cazzo dei bambini.”
“Se
me ne fosse fregato avrei fatto il maestro in un asilo, non lo
sbirro.”
Wilkes
si limitò a scuotere la testa e ad andarsene brontolando cose
indistinte ma indubbiamente poco gentili.
I
due uscirono fianco a fianco. All’esterno, oltre a un capannello di
curiosi e ad almeno una decina di auto della polizia e mezzi di
soccorso, c’erano anche le macchine di un paio di emittenti locali.
Una
giornalista li vide passare e subito li avvicinò. “Agenti,
permettete alcune domande?”
I
poliziotti si scambiarono un’occhiata, quindi Schneider rispose:
“Tutte quelle che vuole, signorina.”
“Può
dirmi cos’è successo là dentro?”
L’agente
assunse l’espressione di chi è tristemente consapevole di quanto
male ci sia nel mondo. In tono grave dichiarò: “Signorina, io e il
mio collega abbiamo salvato dei bambini.”
☺
L’agente
Foreman si versò una tazza di caffè, quindi chiese: “Allora è
vero che stanotte gli SS non sono insieme?”
“Verissimo,”
gli rispose l’agente Asher, facendosi girare tra le mani la tazza
fumante. “Stevenson ha preso ferie, va dalla famiglia.”
“Ha
una famiglia?” chiese l’agente Parker. “Io credevo che quei
due li avessero fatti in un laboratorio nazista, e che alla fine se
ne fossero liberati perché erano venuti fuori troppo bastardi anche
per i loro standard.” Poi, dopo una pausa: “E comunque, chi è
che fa coppia con Schneider stanotte?”
“Greenberg,”
rispose Foreman.
“Non
lo invidio,” disse Asher.
In
quel momento arrivò Clerici, che per prima cosa andò a sistemare la
sua Natività. Raddrizzò impercettibilmente l’action figure di
He-Man, per l’occasione abbigliata con una specie di saio marrone,
sistemò meglio il bambinello nella culla.
“Quella
è una fottuta bambolina voodoo,” grugnì Parker dopo aver seguito
per un po’ i suoi movimenti, “se non la levi di qui, come minimo
esploderà la centrale.”
Foreman
annuì e aggiunse: “Oppure stanotte Stevenson rientrerà in
servizio assieme a Schneider e succederà qualche casino.”
Clerici
assunse un’espressione pia, sistemò il velo azzurro sulla testa
della barbie e rispose: “È un prodotto di artigianato etnico.
Vuole significare che Gesù è venuto al mondo per tutti.”
Parker
scosse la testa. “Per tutti tranne che per gli SS. Quando vede quei
due, anche Gesù taglia la corda.”
“Avete
sentito il casino che hanno combinato al centro commerciale?”
“Sì,
e poi i due stronzi sono passati da eroi. Quelli che hanno salvato i
bambini. Ma ce li avete presente, quei due, quando hanno a che fare
con i bambini? Per me se li mangiano peggio dei comunisti.”
“I
soliti pezzi di merda paraculi. Anche con la faccenda della
Stratosphere alla fine passarono da eroi.”
“Oh,
sì. Sono gli esperti
di suicidi. In
effetti, come fanno suicidare la gente loro...”
Stevenson
si avvicinò all’auto di servizio e per un po’ rimase a guardare
Schneider che sistemava nel bagagliaio il fucile a pompa, tre diversi
expandable baton,
un taser modificato che invece dei soliti cinquantamila volt era in
grado di erogarne un milione, protezioni antisommossa e un tirapugni
di acciaio cromato che sembrava una tagliola da orsi.
“Vai
in servizio?” gli chiese.
L’altro
smise di sistemare la roba. “Già.”
“Ho
sentito che sei con Greenberg.”
“Affermativo.”
“È…
passa per essere un bravo agente.”
“È
solo per questa notte.”
Schneider
chiuse il bagagliaio con un colpo secco. Stevenson strinse le labbra.
“Comunque, volevo dirti...” cominciò, ma a quel punto gli suonò
il cellulare. Lo tirò fuori dalla tasca. “Merda, è la mia
vecchia,” brontolò. Rispose. “Pronto? Sì, mamma, adesso arrivo…
stavo solo dicendo le ultime cose qui in Centrale… ma sì, ho detto
che arrivo...” Si voltò indietro, Schneider stava salendo al posto
di guida, fece in tempo a intravedere le sue spalle massicce.
Gli
rivolse comunque un cenno di saluto e gli parve di cogliere un
movimento in risposta nel retrovisore, ma quando si sporse per
accertarsene, l’auto si stava già allontanando. “Sì, mamma,”
sospirò nel telefono, “ho detto che arrivo.”
☺
Schneider
guardò l’orologio: le ventidue e trenta. Si voltò verso il
collega, che sedeva al posto del passeggero in religioso silenzio.
Non che lo disturbasse, il fatto che Greenberg non faceva casino.
Nemmeno con Stevenson parlavano molto, ma il loro silenzio era
diverso. Magari gli capitava di guardare qualcosa per la strada, poi
si girava verso di lui e si accorgeva che stava guardando la stessa
cosa. A quel punto si scambiavano un’occhiata ed era come se
avessero fatto una conversazione di mezz’ora.
Greenberg
invece stava zitto e basta, probabilmente pensando ai cazzi suoi e
aspettando che il turno finisse. Anzi, gli venne il sospetto che con
lui non volesse proprio parlare. Sapeva come chiamavano lui e
Stevenson in centrale: SS, un po’ per via delle iniziali dei
cognomi, ma un po’ - un bel
po’ - perché in generale disapprovavano i loro metodi,
considerandoli troppo violenti, sessisti e non rispettosi delle
minoranze. Come le SS dei film, appunto.
Continuò
a guidare lungo la strip in perfetto silenzio, gettando appena uno
sguardo distratto alle onnipresenti decorazioni di natale.
A
un certo punto, dalla radio provenne una chiamata: “Auto ventidue
da centrale.”
Schneider
premette il PTT. “Ventidue, avanti.”
“Ventidue
da centrale, rissa familiare al trenta di Nevso Drive, si richiede il
vostro intervento.”
“Ricevuto,
centrale. Andiamo sul posto.”
Chiuse
la comunicazione e mise i lampeggianti in maniera automatica, senza
nemmeno voltarsi verso il collega.
Quando
arrivarono al trenta di Nevso Drive, la porta dell’abitazione –
una graziosa villetta a due piani – era spalancata. Alcune persone
si aggiravano sul prato con l’aria di essere nella sala d’aspetto
del dentista. La finestra del salotto era sfondata e oggetti di ogni
genere, dai soprammobili ai piatti, erano disseminati a raggiera
tutt’intorno.
Da
dentro la casa provenivano i suoni di alcuni feroci litigi.
“Che
cazzo di casino,” commentò Schneider. Scese dalla macchina, si
guardò intorno, quindi andò al bagagliaio, lo aprì, soppesò i tre
expandable baton
che conteneva e ne scelse uno. Si infilò nel cinturone un flacone di
peperoncino, poi si guardò le mani e grugnì: “Cazzo, ci
vorrebbero un paio di guanti.”
Alle
sue spalle, Greenberg finalmente si fece sentire: “Hai detto
qualcosa?”
“Dicevo
che ci vorrebbero dei guanti, se per caso capitasse di dover fare a
pugni.”
“Usare
la forza è l’ultima soluzione di chi non è capace di usare le
parole.”
“Amen,”
commentò Schneider in tono sarcastico, quindi si diresse verso la
casa. Sebbene la porta fosse aperta, e da essa provenisse una
tremenda cacofonia di urla e oggetti infranti, suonò diligentemente
al campanello.
Dovette
ripetere l’operazione due o tre volte, poi finalmente i clamori si
placarono. “Suonano alla porta,” disse una voce infantile.
Un’altra, che poteva essere quella di un adolescente, soggiunse:
“Merda, sono gli sbirri.”
“Chi
ha chiamato gli sbirri?” volle sapere un’altra voce, forse di una
donna, “Sono stati quegli stronzi dei vicini?”
Schneider
rimase impassibile.
Dopo
qualche secondo, si fece avanti una donna sulla trentina, senza
trucco, con una sottana svolazzante e una maglietta con un unicorno
dalla criniera color arcobaleno. Non portava scarpe.
“È
in casa suo marito, signora?” le chiese in tono professionale.
“Mia
moglie è di là, sta cercando di calmare i bambini.”
L’agente
strinse appena gli occhi. Conosceva ovviamente l’esistenza di froci
e bruca-moquette che si sposavano fra di loro, ma ogni volta gli
piaceva rifare la stessa scenetta. Assunse un’espressione perplessa
e chiese: “Sua moglie,
signora?”
“È
di là,” ripeté la donna. “I nostri bambini sono molto agitati
per colpa di quello che è successo.”
“Bambini
suoi e di sua moglie,
signora?”
“Certo,
perché?”
“Nessun
laboratorio di ricerca genetica ha ancora pensato di farvi rapire?”
L’altra
lo fissò stupefatta. “Ma cosa sta dicendo?”
“Due
donne che figliano insieme sono una specie di miracolo, direi.
Qualsiasi scienziato darebbe un rene per potervi studiare.”
In
tono tagliente, la donna replicò: “Ha mai sentito parlare di
fecondazione assistita, agente?”
Con
aria di perfetta serietà, Schneider rispose: “Certo, la fa spesso
un mio amico. Metta che qualche marito ha le palle un po’ mosce...”
A
quel punto, come normalmente capitava, la tizia lo fissò chiedendosi
se la stesse prendendo in giro o fosse solo scemo, ma lo sguardo
perfettamente neutro dell’agente non le consentì di giungere a una
conclusione.
In
tono professionale, il poliziotto chiese: “Qual è il problema,
signora?”
“Venga,
glielo spiegherà mia moglie.”
Lo
condusse in una sala in cui si trovavano almeno una quindicina di
persone di varie età ed etnie. Vi regnava una confusione
indescrivibile: sembrava che sulla tavola fosse passato un enorme
spazzolone. Cibi, piatti, bicchieri e bottiglie erano per terra
tutt’intorno, mescolati a pot pourri colorati, rami d’abete,
candele e palline. Alcune sedie erano gambe all’aria, una credenza
aveva gli sportelli penzoloni ed era stata svuotata di ogni
contenuto, di una vetrina rimanevano solo le strutture in legno, da
cui pendeva qualche rimasuglio di vetro finto Tiffany.
Non
ci voleva Sherlock Holmes per riconoscere nell’ambiente il teatro
di una rissa furibonda.
Due
mocciosi di sesso incerto, coi dreadlock e la faccia sporca,
frignavano attaccati ai pantaloni camo di quello che sulle prime gli
parve un camionista con problemi di sovrappeso.
“Mel,
tesoro,” flautò quella che aveva aperto la porta, “è arrivata
la polizia.”
Il
camionista a quel punto si raddrizzò, rivelandosi una donna rasata a
zero, con otto buchi a ogni orecchio, tatuata, con le tette a sacco
di farina e una rispettabile pancia. Portava una maglietta bianca con
un pacchetto di sigarette arrotolato in una manica.
“Lo
vedo, porco cazzo,” berciò la tizia. Spinse via i due mocciosi,
quindi si rivolse a Schneider, fissandolo come avrebbe fatto con una
merda su un cuscino di seta. “Prova a toccarmi e ti denuncio per
molestie,” lo ammonì rude.
“Può
stare tranquilla,” le assicurò l’agente, quindi chiese: “Mi
vuole spiegare quello che è successo, signora?”
“Intanto
evita di usare questi termini fallocratici con me.”
Schneider,
che cominciava a perdere la pazienza, si erse in tutta la sua
rispettabile altezza e rispose: “Fino a prova contraria, signora,
lei è registrata all’anagrafe come persona
di sesso femminile, quindi le compete di essere chiamata così. E ora
mi vuole dire cos’è successo, gentilmente?”
Di
fronte alla stazza dell’agente, Mel ritenne opportuno non
replicare. Indicò invece una tizia e disse: “Quella puttana ha
portato in casa mia dei cadaveri!”
Sentendosi
appellare in quel modo, la tizia scattò: “È il piatto preferito
di Toby, ed è Natale!” Si rivolse a Schneider e in tono lamentoso
chiese: “Perché il mio bambino non può avere il suo piatto
preferito a Natale?”
Prima
che l’agente potesse rispondere, la camionista scattò: “Perché
è carne morta, puzza di cadavere. Io vomito quando sento
quell’odore, ok?” Cominciò a mimare conati in modo talmente
realistico che Schneider si fece discretamente indietro, e da una
distanza che reputava di sicurezza si rivolse alla donna accusata di
aver portato cadaveri: “Intanto chi è lei, signora?”
“Marla
Hayes,” rispose quella, “sono la nuova compagna dell’ex marito
di Darlene.”
“Di
chi?”
“La
moglie di Melanie.” Indicò la lesbica camionista, che nel
frattempo aveva interrotto la performance. “Mel!” le disse
quella. “Devi chiamarmi Mel, lo vuoi capire?” Poi, come parlando
fra sé e sé, tra i denti soggiunse: “’Sta stronza
succhiacazzi...”
“Meglio
succhiacazzi che mangia-prato!” la rimbeccò quella.
Mel
partì con un gancio che avrebbe sicuramente steso Marla, se
Greenberg non si fosse precipitato ad agguantarla a mezzo corpo.
“Mi
molesta!” urlò allora la donna. “Darlene, vieni subito qui a
filmare, questo stronzo non deve passarla liscia!” Poi, rivolta
all’agente: “Te ne approfitti perché sei un poliziotto, eh?”
Greenberg
si fece indietro come se d’improvviso si fosse scoperto abbracciato
a un barile di scorie tossiche, poi disse: “Forse lei mi ha
frainteso, signora. Io stavo solo tutelando l’incolumità
dell’altra signora.”
“Qui
non ci sono signore, stronzo! Qui ci sono donne, ok? Nessuna di noi
ha bisogno del vostro riconoscimento fallocratico per essere
consapevole del proprio valore.”
“Ma
certo, sign… ehm… Mel? Posso chiamarti Mel? Ho sentito che è il
tuo nome.”
Visto
che la faccenda minacciava di andare per le lunghe, Schneider si
disinteressò dello scambio e si rivolse alla donna di nome Marla:
“Mi vuole spiegare lei cos’è successo, signora?”
Quella
controllò con una fugace occhiata dove fosse Mel, quindi spiegò:
“Io sono la nuova compagna di Robert,” indicò un tizio alto e
secco, con la barba e una maglietta con la faccia di Che Guevara,
“Darlene ci ha invitati, e sapendo che Robert avrebbe portato anche
Toby, ho pensato di preparare un po’ di pollo fritto.”
Mel,
che sembrava assorta nella conversazione con il suo collega, si girò
invece come un serpente e sbraitò: “Cadaveri! Carne morta! In casa
mia quella roba non deve entrare!”
“Ma
certo, Mel, certamente,” si prodigò Greenberg, “del resto, la
dieta vegana è molto salutare, non è così?”
“È
etica,” fu la risposta.
Schneider
si disinteressò della faccenda e tornò a interrogare Marla: “E
quindi, Robert è il suo ex marito...”
“No
no,” lo interruppe la donna, “è il mio compagno, è l’ex
marito di Darlene. Toby è il figlio che abbiamo avuto io e Robert,
ma vive con Robert.”
“E
lei con chi vive, signora?”
“Oh,
io lavoro lontano, sa...”
“Dove,
di preciso?”
“Gli
altri bambini che vede qui sono Enu e Andile, e sono i figli di
Darlene. La ragazzina, Eyleen, è figlia del primo matrimonio di
Robert.”
“Signora...”
“E
poi c’è Zelda, che è la sorella di Melanie, con i figli che il
suo nuovo compagno ha avuto dal suo precedente matrimonio, Jillian e
Jonathan. Il suo compagno stanotte lavora, e...”
A
quel punto, Schneider sbottò: “Ma che cazzo è questo branco di
scimmie? C’è qualche coppia normale, qui dentro, o chiunque si
accoppia con chiunque altro a seconda dell’istinto?” La donna
fece per replicare, ma lui la fermò con un gesto e proseguì: “Senta
un po’ cosa facciamo, signora: adesso lei raccatta quel che le
compete di questa tribù e se ne va a mangiare cadaveri al KFC.”
“Cosa?
Ma io ho il diritto
di stare qui! Robert è il mio compagno.”
Schneider
alzò gli occhi al cielo. “Signora, faccia la cortesia, si levi
dalle palle o qui facciamo mattina.”
“No,
è una questione di principio. È lei quella che ha sbagliato, quindi
se ne deve andare lei.”
L’agente
inspirò a fondo ed emise il fiato con minacciosa lentezza. “Peccato
che però sia a casa sua,” disse infine.
L’altra
rimase in silenzio.
Schneider
allora a quel punto disse: “Molto bene, adesso vi togliete tutti
dalle palle tranne chi risiede regolarmente al trenta di Nevso Drive.
Via, ‘raus, circolare! Entro cinque minuti qui dentro voglio vedere
il deserto nel Nevada, al posto del branco di scimmie. Se per caso
qualche stronzo rimane qui, si becca una denuncia per rissa e
lesioni.”
Mel,
che stava ancora discutendo con Greenberg, a quel punto abbandonò la
contesa e sbraitò: “Tu non vieni a dettare legge a casa mia,
sbirro di merda!” Partì con un destro.
Schenider,
che non aspettava altro, esclamò: “Violenza contro un agente di
polizia! Greenberg, sei testimone: questa è legittima difesa.”
Subito dopo intercettò la donna con un cazzotto che sanciva la
parità dei sessi ben più di qualsiasi quota rosa.
Melanie,
che evidentemente non era ancora pronta a una così imparziale
uguaglianza, andò giù come un sacco e rimase sul tappeto a pelle
d’orso.
A
quel punto, Schneider fece girare uno sguardo sull’ammutolita
platea e disse: “Avete sentito: tutti fuori dalle palle o finiamo
la notte santa in centrale.”
☺
Stevenson
cercò per l’ennesima volta di digitare un messaggio col
telefonino, ma di nuovo dovette rinunciare. In piedi sulla porta
della cucina, zia Ethel lo stava chiamando.
“Che
c’è zia?” le chiese intascando l’apparecchio.
“Tesoro,
saresti così gentile da portare il punch in salotto?”
“Certo,
zia.”
Raccolse
l’enorme ciotola a semisfera, colma di una bevanda rossa di cui la
donna custodiva gelosamente il segreto, e cercando di non inciampare
nei figli di sua sorella che si azzuffavano sul tappeto la portò
sulla tavola apparecchiata.
In
un angolo del salotto c’era un albero di Natale circondato da
regali. Come da tradizione, era stato anche acceso il caminetto che
scoppiettava allegramente. Nell’aria risuonavano Carol
of the bells e altri
cori festosi.
Si
avvicinò alla finestra e guardò fuori: lungo la strada stava
passando una macchina della polizia. Gli sfuggì un sospiro.
Si
voltò indietro e per prima cosa gli prese una voglia prepotente di
mollare due schiaffi per uno ai mocciosi di merda che continuavano a
correre e a fare casino. Uno di essi inciampò nel contenitore della
legna, lo rovesciò spargendo pezzi ovunque, poi cominciò a
frignare. Zia Betsie mollò quello che stava facendo e corse a
prenderlo in braccio. “Io l’avrei lasciato lì, quell’idiota,”
brontolò fra i denti l’agente. “Anzi, gli avrei fatto
raccogliere tutto.”
A
quel punto suo padre disse: “Vieni, Paul: mamma ha appena portato
in tavola l’arrosto!”
Si
udirono gli strilli dei mocciosi che correvano verso le rispettive
sedie.
Ripensò
all’episodio del grande magazzino, con la danarosa dama della
carità che chiedeva a Schneider se gli piacevano i bambini. “Dipende
da come sono cucinati,” disse fra sé e sé, e non poté evitare un
sorriso.
Tirò
fuori il telefonino. Si avvicinò alla tavola imbandita e disse: “Mi
hanno appena chiamato dalla centrale: devo andare in servizio.”
Si
udì un coro di espressioni di disappunto. “Ma come?” protestò
sua madre, “Stiamo per cominciare a cenare.”
“Io
non ho sentito nessuna suoneria,” gracchiò Arabella, una
tredicenne brufolosa figlia di qualche suo cugino.
Stevenson
ghignò. “L’ho silenziata per non disturbare, principessa, ma un
agente è sempre reperibile.”
“La
mia compagna di classe, che è figlia di un poliziotto, dice che non
è vero.”
“La
tua compagna di classe spara cazzate, tesoro,” replicò serafico
Stevenson, quindi staccò il giaccone dall’attaccapanni e si
eclissò.
☺
Schneider
e Greenberg sedevano l’uno accanto all’altro al bancone di un
vecchio bar. Il posto era deserto, a parte loro e una cameriera di
mezz’età con il berretto da Babbo Natale.
“Altro
caffè?” chiese la donna.
Schneider
spinse il bicchiere nella sua direzione, ella lo riempì fino
all’orlo.
Il
poliziotto recuperò il recipiente e bevve un sorso. Al solito,
Greenberg stava zitto.
“Vi
spiace se ascolto un po’ di musica?” chiese la cameriera. Senza
attendere risposta accese la radio.
There’s
footprints in the snow… I’ll follow wherever you go...
Schneider
guardò la superficie del caffè, su cui si riflettevano le luci
intermittenti che ornavano la porta del bar.
Here,
lonely and marooned, I will wait in silence, silence, silence...
“È
una bella merda,” commentò, senza staccare lo sguardo dal
bicchiere di carta, e non sapeva neanche lui a cosa si stesse
riferendo. A tutto? A quella notte stupida, in cui la gente credeva
che succedesse chissà che cosa e invece era sempre la solita merda?
Al fatto che Stevenson l’aveva mollato con una merda di collega per
passare la serata in famiglia?
Prestò
un orecchio distratto alla canzone e si chiese se in quella notte,
che d’argento aveva ben poco, a qualcuno potesse venire in mente di
cercare le sue tracce nella neve.
E
subito dopo si diede dello stronzo, quasi vergognandosi di aver
formulato pensieri così melensi.
A
quel punto, il cellulare di Greenberg squillò. Egli rispose, scambiò
due frasi a bassa voce, quindi disse: “Esco per telefonare. Tu
finisci con calma e poi raggiungimi in macchina.”
“Ok,”
rispose Schneider, senza nemmeno voltarsi.
I’ll
follow you wherever you go… in the silver night.
Notte
d’argento un cazzo, pensò. Finì il caffè, lasciò la mancia alla
donna e uscì.
Rabbrividì
nell’aria fredda, si rialzò il bavero e infilò le mani in tasca
masticando un’imprecazione. Era mezzanotte, per strada non c’era
nessuno. Intravide un agente di spalle accanto alla macchina e
immaginò che fosse il collega, ancora impegnato nella sua
telefonata.
Si
avvicinò. “Ehi, Greenberg, è ora di rientrare in servizio.”
L’altro
si girò. “Che si dice, bello?”
Schneider
aggrottò le sopracciglia. “Stevenson? Che ci fai qui?”
“Troppo
casino dai miei vecchi. Mocciosi, canzoncine stupide, i soliti
parenti che si fanno vivi solo per Natale e poi scompaiono…
insomma, volevo starmene in pace e
ho telefonato a quel cazzo moscio di Greenberg per fare cambio con
lui.” Fece
una risatina. “Non gli è parso vero, a quello stronzo.”
“Ok,”
disse semplicemente l’altro, dopo
alcuni secondi di un silenzio meditativo.
“La pausa è finita, salta in macchina che andiamo.”
Entrarono
nell’auto, Stevenson si guardò fugacemente intorno, ma la strada
rimaneva deserta. Anche se non nevicava, c’era comunque un gran
silenzio. Tirò fuori dalla tasca del giaccone un piccolo involto
realizzato con un foglio della fotocopiatrice e ingentilito con
qualche pagliuzza luccicante. “Per te,” disse porgendolo al
collega.
Questi
si fece indietro come se l’altro gli stesse offrendo una bomba a
mano senza sicura. “Cos’è?” chiese, fissando diffidente il
pacchettino.
“È
per te,” si limitò a ripetere Stevenson.
“Cosa
sarebbe?”
“Guardalo,
no?”
Schneider
lo prese con la disinvoltura con cui avrebbe maneggiato una fiala di
antrace. Se lo rigirò fra le mani con le sopracciglia aggrottate.
“Che cos’è questa cazzata?” borbottò.
“Se
non ti vanno li posso cambiare.”
A
quel punto, l’agente aprì il pacchetto. “Guanti?”
“Con
le nocche rinforzate in kevlar. Ci puoi sfondare una vetrata senza
problemi.” Stevenson fece una pausa, quindi soggiunse: “E poi
tengono caldo.”
“Che
significa?” chiese Schneider.
L’altro
alzò le spalle, nel buio si colse solo il baluginio delle luci
esterne sulle sue mostrine. “Non ti aspettare una richiesta di
fidanzamento,” ghignò. “Ero solo stufo di sentirti ripetere che
hai freddo alle mani.”
Tra
i due calò il silenzio.
“Andiamo?”
propose alla fine Stevenson.
“Apri
il cassetto,” replicò l’altro.
“Il
cassetto? Perché?”
“Tu
aprilo.”
Stevenson
fece scattare il meccanismo e aprì il piccolo vano. Ne trasse un
involto irregolare ma di forma vagamente rotondeggiante, avvolto in
carta da regali azzurra decorata con orsetti in pigiama, chiuso da
alcuni giri di nastro adesivo. “E questo cos’è?” chiese.
“Niente,
una cazzata.” Schneider si voltò verso il finestrino con l’aria
di disinteressarsi completamente della faccenda.
“Cos’è?”
ripeté il collega.
“Se
non ti piace la posso cambiare.”
Stevenson
strappò con qualche difficoltà la carta: ne emerse un torso
femminile con due grandi tette lucide di ceramica. “La donna
ideale!” esclamò.
“È
per il caffè,” disse il collega, sempre ostinatamente rivolto
all’esterno.
“Grazie,
Rolf, è proprio la tazza
che volevo.”
L’altro
a quel punto si girò a fissarlo. Rimase in silenzio per qualche
secondo, poi disse: “Ora provo questi guanti, ok?”
“Se
non ti vanno li cambio.”
“Per
me vanno bene.”
A
quel punto, la radio si attivò: “Auto ventidue da centrale.”
Schneider
premette il PTT. “Ventidue, avanti.”
“Auto
ventidue, si richiede un intervento al numero trenta di Nevso Drive.”
L’agente
aggrottò le sopracciglia. “Centrale, conferma trenta di Nevso
Drive?”
Dall’altra
parte giunse la risposta: “Ventidue, c’è una rissa in corso, si
segnala un principio di incendio. Altre due unità stanno convergendo
sul posto assieme a un’ambulanza e ai vigili del fuoco.”
“Centrale
da ventidue: ci attiviamo immediatamente.”
Schneider
chiuse la comunicazione, poi si voltò verso il collega e
semplicemente disse: “Figata.”
“Che
cosa?” chiese l’altro.
“Famiglia
arcobaleno, due bruca-moquette vegane con bambini di sesso incerto e
una tribù di parenti. Siamo già andati sul posto con Greenberg, ma
quel cazzo moscio non è come noi. Garantito che stavolta li
imbarchiamo tutti e li portiamo in centrale, mocciosi compresi, così
imparano a rompere i coglioni!”
Stevenson
sorrise beato. “Una famiglia arcobaleno? Cazzo, lassù qualcuno ci
ama. Metti le sirene, non voglio rischiare di perdermi la festa!”
“Puoi
scommetterci, bello.”
La
macchina scattò in avanti ululando nella notte, le gomme stridettero
nella curva. I lampeggianti rossi e blu parvero ai due la più bella
delle luminarie.
“Dà
gas, Schneider!” lo incitò il collega.
“Tranquillo.
E quando abbiamo finito con quel branco di stronzi, una bella
colazione da Hooters. Le tradizioni vanno rispettate.”
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