Il Cacciatore

di Vipal
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Fra la moltitudine di persone che passeggiavano in via Roma, un ragazzo in particolar modo calamitò la sua attenzione: bell’aspetto, curato nel vestire, andatura sicura.
Il cacciatore sapeva distinguere a fiuto la sua preda: quando questa gli passava vicino una miriade di informazioni lo investivano. Di primo acchito la conformazione fisica, poi la postura e il modo di camminare.
Non si ricordava quando aveva acquisito la capacità di leggere le persone dentro, completamente svelate. Ci era nato, ma lui se ne accorse quando cominciò a frequentare gli altri bambini: alle volte quello che i suoi amici dicevano o facevano non corrispondeva con quello che lui vedeva o sentiva. Col tempo si era convinto che ciò fosse normale: normale ascoltare in profondità oltre alle parole dette, normale sentire la sofferenza degli altri celata dietro a una maschera di sorrisi, normale capire quando il suo interlocutore stesse mentendo. Sì, tutto normale fino a quando aveva capito: capito che i suoi compagni di scuola non riuscivano a vedere in profondità; capito che le persone non erano in grado di sentire la sofferenza celata; capito che il mondo intero non era come lui. Fu così che si era scoperto diverso.
«Mi scusi signore!».
«Sì, mi dica».
Quando Il cacciatore comprendeva che la persona potesse essere quella giusta la avvicinava e con una scusa ne entrava in contatto, ci scambiava quattro parole e se a quel punto gli scattava la certezza, partiva con il suo attacco:
«Se lei morisse in questo momento, mettiamo che io la uccidessi! Vede? In tasca ho una pistola».
«Eh! C-cosa vuoi da me? Ecco, ecco il mio portafoglio».
«No, senti! Non voglio rapinarti, ti stavo cercando, sono venuto per aiutarti».
Naturalmente il tipo di approccio con le sue vittime non era sempre il medesimo, molto dipendeva da ciò che Il cacciatore sentiva e vedeva dentro di loro.
Quel giorno in via Roma Giuseppe si vide affiancare da un signore sulla cinquantina, indossava un Borsalino ed impugnava un bastone da passeggio. Quando lo fermò per una domanda il suo tono era chiaro e gentile; quando continuò minacciandolo di morte il suo tono era chiaro e gentile. Quando gli chiese cosa avrebbe rimpianto ora che sarebbe morto lui rispose:
«Rimpiango di non avere vissuto la mia vita, ma quella degli altri; di non essere riuscito ad esprimere i miei talenti, ma aver scelto sempre la strada più facile anche se questa mi avrebbe condotto lontano da loro».
Le parole gli uscivano lisce e giuste, non aveva idea da dove provenissero, stentava a riconoscere la voce che le pronunciava: eppure era lui.
Il cacciatore già sapeva tutto, glielo aveva letto dentro, ed ora ne era venuto a conoscenza anche Giuseppe.
Aveva quindici anni Il cacciatore quando si era presentato sulla sua strada il Maestro, il quale gli aveva spiegato che il suo dono era come un diamante grezzo andava tagliato e pulito.
«Ragazzo non sentirti diverso! La tua è una benedizione, sei speciale! Io sono come te, ti vedo». Gli aveva detto quell’uomo che gli si era avvicinato per strada.
Fu così che intraprese un lungo viaggio con il suo mentore che lo iniziò all’arte della caccia alle persone.
«Chi sei tu?», Giuseppe sudava, sentiva un formicolio alle mani ed il cuore pompava all’impazzata. «Perché ti ho detto queste cose?».
«Vieni sediamoci in questo bar, io e te dobbiamo parlare.
Vedi…», Il cacciatore rimase in sospeso aggrottando le sopracciglia».
«Giuseppe, mi chiamo Giuseppe».
«Vedi Giuseppe, io so molto di te, so cose che tu non conosci ancora. In parte le hai tirate fuori grazie all’agguato che ti ho teso poc'anzi, ma molte altre ti risiedono ancora dentro celate da sovrastrutture e maschere delle quali ti hanno e ti sei vestito».
Dopo trent’anni di onorata carriera il cacciatore era diventato veramente bravo a scovare la sua preda, ormai la riconosceva fra mille e soprattutto abbatteva il suo ego al primo colpo. Non era sempre stato così. Ai suoi esordi, dopo i cinque anni di apprendistato con il suo maestro, doveva cercare la persona giusta per giorni, a volte anche mesi e poi trovata non sempre riusciva ad entrarne in contatto.
«Cos’è che ti sveglia la notte? Cosa ti lascia un impersonale e nero vuoto al termine di ogni tua azione?».
Giuseppe spalancò gli occhi, un leggero tremolio gli partì dalla mascella inferiore, articolò alcune risposte confuse che gli scaturirono a singhiozzo.
«No, Giuseppe, non mi aspetto da te delle risposte, ma una richiesta».
Il cacciatore aveva fiutato il pensiero ricorrente che accompagnava Giuseppe ormai da anni. Dal giorno in cui l’ombra e l’angoscia lo avevano imprigionato in una esistenza amorfa e senza alcuna sfumatura; quando si era chiuso definitivamente privo di sentimenti e vuoto di amore; da ché quel piccolo fuoco con il quale il bimbo si era presentato al “Mondo” invece che essere alimentato da colei che più avrebbe dovuto amarlo, presto si era estinto soffocato dall’ indifferenza della madre e dal “Nulla”.
Così gli affiorò la “Richiesta”, l’unica che avesse mai desiderato, ma che mai espresse:
«Sì! Ho bisogno di aiuto, tu vuoi?».
«Aiutarti? Certo, sono qui per te».
«Ma... qual è il tuo nome».
«Angelo, voi mi chiamate Angelo».




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