Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Salve a tutti,
ecco che per la prima volta nella
mia vita mi cimento con tre flashfic, spero che il risultato non
verrà troppo indecente.
Mi sono ispirato alla celebre
incisione di Albrecht Dürer, Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo,
immaginando la stessa vicenda dal punto di vista di questi tre
signori.
Per chi fosse curioso,
l’incisione è questa:
https://it.wikipedia.org/wiki/Il_cavaliere,_la_morte_e_il_diavolo#/media/File:Albrecht_D%C3%BCrer_-_Knight,_Death_and_the_Devil.jpg
Nella storia si fa riferimento a
un cane, Guinefort. Il nome è un omaggio all’unico Santo Cane
della Chiesa, qui trovate notizie su di lui:
https://it.wikipedia.org/wiki/San_Guinefort
Per il resto, spero che queste
brevi storielle vi piaceranno. Buona lettura!
IL CAVALIERE
Il Cavaliere uscì dalla locanda
in cui aveva passato la notte. La luce rosata dell’alba tingeva la
facciata di un colore caldo, dandole un aspetto quasi grazioso.
Un cane – un buffo bastardo che
l’aveva seguito fin lì – sgattaiolò fuori dalla stalla e gli si
avvicinò scodinzolando.
“Ehilà,” gli disse il
Cavaliere. “Ehilà...” Esitò alla ricerca di un nome. Il cane
gli rivolse lo sguardo ambrato. “Guinefort?”
Altro scodinzolio.
“Guinefort,” ripeté l’uomo.
Sorrise. “È un nome santo.”
Si chinò ad accarezzare il dorso
della bestia. “Sei come me,” disse poi rialzandosi, con qualche
difficoltà per via dell’armatura completa. “Anche tu sei in
cerca di un padrone, non è vero?”
Emise un sospiro. Il suo signore
era morto di recente, gli eredi non avevano ritenuto di avvalersi
oltre dei suoi servigi.
“E così,” gli disse,
frugando la bisaccia per trovare qualcosa da offrirgli, “ora sono
solo un cavaliere errante, alla ricerca di un signore da servire.”
Estrasse finalmente un pezzetto di salsiccia e lo lasciò cadere a
terra. Il cane scodinzolò di nuovo.
Giunse il garzone di stalla con
il suo destriero. Una bella bestia, forte e robusta. Gli eredi del
suo signore l’avevano considerato l’indennizzo per i suoi anni di
servizio.
Gli batté una pacca sulla
groppa, si assicurò che il sottopancia fosse stretto a dovere e con
la disinvoltura dell’abitudine montò in sella.
Fece un cenno di saluto al
ragazzo, staccò dal muro la lancia e se la bilanciò sulla spalla,
poi si mise in cammino.
Il cane gli trotterellò dietro.
Abbandonò il centro abitato. Il
bosco era spoglio, sul sentiero scrocchiavano le foglie secche. Tra i
rami si intravedeva, in cima alla collina, un paese arroccato, irto
di torri.
Il Cavaliere lo fissò: correva
voce che il signore di quel posto fosse generoso, forse l’avrebbe
preso come uomo d’arme.
Era immerso in quelle
considerazioni quando d’un tratto si irrigidì, rinserrando
d’istinto la presa su redini e lancia. Si girò alla propria destra
in preda a un’indefinita sensazione di allarme e un refolo
ghiacciato lo fece rabbrividire. Udì un tinnire vago e d’un tratto
si vide morto, le mani disseccate, le ossa che biancheggiavano
spuntando dalle giunture, le orbite vuote. Scrollò la testa come per
scacciare l’orrenda visione.
Tese a quel punto l’orecchio,
gli parve che altri zoccoli seguissero quelli del suo destriero. Un
passo stentato e irregolare, accompagnato da un ansare rauco.
Si girò sulla sella, ma dietro
di lui si allungavano solo i rami spogli degli alberi. Radi arbusti
frusciavano appena.
Ebbe però l’impressione che
l’aria fredda portasse con sé un vago sentore di zolfo.
Una strana paura indefinita,
sottile, gli fece irrigidire i muscoli.
“Guinefort?” mormorò.
Il cane batté appena la coda,
come per dirgli che poteva andare avanti, che non sarebbe successo
niente di male. Che il buon signore del paese in cima alla collina lo
stava aspettando e avrebbe senz’altro trovato utile ingaggiare un
bravo cavaliere, il suo cavallo e il suo cane.
Sereno e impavido, il Cavaliere
proseguì.
LA
MORTE
La Morte rizzò la testa così
bruscamente che la serpe arrotolata alla sua corona emise un sibilo
di disappunto. Fece scorrere lo sguardo sull’uomo disteso nel
letto, sulla moglie inginocchiata accanto a lui, sui figli che
piangevano.
Percepiva la vita di ognuno di
loro. Fiammelle, alcune vive e brillanti, altre fioche, stentate,
quasi spente.
Si fece indietro. Volse le orbite
vuote alla finestra, da cui penetrava la luce rosata dell’alba, e
la percezione di un’altra fiamma attrasse la sua attenzione.
Una fiamma vigorosa, pura, che
aveva inseguito a lungo, sempre sperando di ghermirla, mai
riuscendovi.
Guardò la clessidra: gli ultimi
grani si stavano incamminando verso la strozzatura centrale. La donna
pregava, i bambini continuavano a piangere.
Se ne andò senza curarsi più di
estinguere quella lucetta fioca, lasciandosi dietro gente che gridava
al miracolo.
La cosa la lasciò indifferente.
Sarebbe ripassata: la Morte è fedele come un cane.
Volse lo sguardo alla locanda,
colse il baluginare dei primi raggi sull’armatura lustra del
Cavaliere. Guardò la clessidra, che ora era piena per metà. La
sabbia scendeva alacre, in un flusso silenzioso e regolare.
Lo raggiunse e si apprestò ad
accompagnarlo. La Morte di un Cavaliere cavalca, ed essa montò su
una stentata buscalfana, corrotta parodia di destriero. La bestia
portava un campanello al collo, perché la Morte dà sempre qualche
segno di sé quando è vicina.
Gli si mise alla destra, come un
vecchio compagno d’arme, come il Figlio di Dio. Sollevò la
clessidra, ma essa rimaneva piena per metà di una sabbia bianca e
fine. “Cavaliere,” gli sussurrò all’orecchio. Il campanello
del ronzino tintinnò lieve.
L’uomo si girò, la Morte lo
vide impallidire, rinserrare la presa su armi che non l’avrebbero
aiutato.
Di nuovo lo chiamò suadente.
Un’altra presenza attirò
allora la sua attenzione: giungeva arrancando su piedi caprini, gli
artigli serrati su una rozza lancia rugginosa, un essere zoppo e
cornuto, alato, zannuto. Occhi di bragia ardevano in una testa che
non apparteneva a nessun animale e al tempo stesso a tutti.
“È mia quest’anima?”
sibilò. Tese una grinfia verso il Cavaliere, che subito si girò
sulla sella, scrutando attento dietro di sé.
“Lo vedi anche tu,” disse la
Morte mostrandogli la clessidra, “il suo tempo non è giunto.”
“Posso tentarlo,” replicò il
Diavolo, “posso spingerlo a uccidersi.”
“Non ti darebbe ascolto. In più
ora c’è quel cane, vedi?”
“Che c’entra il cane?”
“Gli dà speranza, e la
speranza è mia nemica.” I serpenti che le avvolgevano il collo
sibilarono rabbiosi.
“Posso suscitargli odio per
quel rognoso,” replicò il Diavolo, “posso spingerlo a ucciderlo
con le sue mani e poi a macerarsi nella colpa così tanto da
desiderare di uccidersi a sua volta. Io posso, lo sai.”
La Morte scosse la testa. “Non
ti darà ascolto. Parlerà col cane, piuttosto, ora vedrai.”
Con voce esitante, il Cavaliere
mormorò: “Guinefort?”
Il cane diede due colpi di coda.
L’uomo si raddrizzò sulla sella, fissò in avanti uno sguardo
chiaro e sicuro.
Alla Morte non rimase che
accompagnarlo silenziosa.
IL
DIAVOLO
Appollaiato
sul tetto della
locanda, il Diavolo scrutava nelle stanze. Vide una delle serve
staccare una collana di salsicce da un trave e poi passarla al suo
uomo, appostato fuori dalla finestra. Il padrone nel frattempo si
stava intrattenendo con l’altra serva.
Nella
scuderia, il garzone stava
usando dei dadi truccati per derubare un ignaro viaggiatore degli
ultimi soldi.
Fregandosi
le grinfie
soddisfatto, si sentì un contadino che guarda le messi imbiondire.
Un gallo
cantò e un baluginare
metallico attirò la sua attenzione.
Socchiuse
gli occhi. Avrebbe
ghignato, se il suo grugno gliel’avesse consentito, ma il Diavolo
ha le fattezze che la gente gli attribuisce, e se a Costantinopoli
poteva permettersi i lineamenti aggraziati di un angelo caduto, in
quella sperduta regione della Germania gli toccava un orrendo ibrido
composto da parti di ogni animale della foresta.
Poco male,
avrebbe ottenuto
ugualmente quello che voleva.
Fissò lo
sguardo sul Cavaliere.
Poteva leggere i suoi pensieri come un libro, poteva addentrarsi
nelle pieghe più riposte della sua anima, in quelle zone d’ombra
che nemmeno un Padre Confessore aveva mai visto.
Perché
tutti avevano zone
d’ombra, lo sapeva bene. Persino i santi anelavano al peccato.
Abbandonò
il tetto
dell’edificio.
Fissò lo
sguardo sulla lancia
che il Cavaliere si stava bilanciando sulla spalla e lesse sulla sua
lama l’identità di tutte le creature cui essa aveva tolto la vita,
compresa la volpe di cui il Cavaliere conservava ancora la coda.
“Il sangue
pesa più del ferro,
non è vero?” suggerì mellifluo.
Il
Cavaliere però parve non
dargli ascolto.
Il Diavolo
vide che avevano la
prevalenza pensieri prosaici, che avevano a che fare con la scarsella
che si andava vuotando, con il signore che non c’era più e con un
nuovo signore che forse l’avrebbe accettato come uomo d’arme.
Valutò se
andare da quel nuovo
signore – un noioso bigotto – e instillargli l’idea di
sbatterlo in cella con qualche scusa non appena si fosse presentato
alla sua porta.
Sarebbe
stato divertente.
Lo
raggiunse saltellando sui
piedi caprini e vide che al suo fianco cavalcava la Morte.
“È mia
quest’anima?”
sibilò.
Tese una
grinfia verso il
Cavaliere ed ebbe la soddisfazione di vederlo sobbalzare e girarsi
allarmato. Sapeva che non avrebbe potuto vederlo, ma gli mostrò
comunque le zanne.
La Morte
però alzò la
clessidra, e in tono solenne disse: “Lo vedi anche tu, il suo tempo
non è giunto.”
Il Diavolo
sbuffò noncurante:
inezie. “Posso tentarlo,” disse. “Posso spingerlo a uccidersi.”
La Morte
farneticò stupidaggini
sul potere benefico del cane.
“Posso
suscitargli odio per
quel rognoso. Posso spingerlo a ucciderlo con le sue mani e poi a
macerarsi nella colpa così tanto da desiderare di uccidersi a sua
volta. Io posso, lo sai.”
La Morte
scosse la testa. “Non
ti darà ascolto. Parlerà col cane, piuttosto. Ora vedrai.”
Il
Cavaliere infatti mormorò:
“Guinefort?”
Il Diavolo
riprovò a entrargli
nell’anima, ma dovette stringere gli occhi per la troppa luce. La
abbandonò.
“Bastardo
pulcioso,” imprecò,
e rimase ad arrancargli dietro assieme alla Morte.
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