Gente
mia,
una
piccola mappazza tanto per non perdere l’abitudine. Si tratta di un
delirio germanofilo (e anche un po’ androfilo), quindi i lettori
sono avvertiti: da leggere solo se piace il genere.
Grazie
in anticipo a chi deciderà di passare da queste parti^^
GIOVANE
GERMANIA
Albrecht Kellermann, pittore di
Heidelberg, alzò il bicchiere e solennemente disse: “Brindo alla
giovane Germania!”
Altri giovani artisti, che
condividevano con lui il tavolo della taverna, levarono a loro volta
i bicchieri. “Sì, evviva!” esclamarono, “Evviva la giovane
Germania, evviva l’Imperatore!”
Uno di essi posò il bicchiere e
si rivolse a Kellermann: “Di’ un po’, da quando sei così
patriottico?”
“Ora la Germania è unita,”
disse l’altro per tutta risposta. Bevve un sorso di vino della
Mosella.
“Oppure stai brindando al
lavoro che ti hanno commissionato?”
Kellermann assentì. “Anche.”
Di nuovo levò il bicchiere in un muto brindisi, ma con un gesto più
intimo, rivolto solo all’amico. “A Monaco, von Werner sta
dipingendo la ‘Proclamazione dell’Impero Tedesco’,” disse, “a
me invece tocca un compito ben più difficile: ritrarre la giovane
Germania.” Assunse un’aria assorta, vagamente velata di una
preoccupazione che non sfuggì all’altro. “Qualcosa non va?”
chiese infatti questi.
Per tutta risposta, Kellermann
disse: “Tu come la immagini, la Germania, Escher? La giovane
Germania libera e forte?”
L’amico si guardò intorno. “In
che senso, come la immagino?”
“Se dovessi darle un volto,
trovare una figura che la rappresenti, che racchiuda in sé la storia
del popolo tedesco, le sue tradizioni, la sua anima,
ma sia al tempo stesso in grado di dare anche l’idea della sua
nuova potenza, del suo rigore e del suo valore guerriero.”
L’altro fece per rispondere, ma
Kellermann proseguì: “E non tirarmi fuori le solite donne
guerriere, tipo i quadri di Veit o Clasen: non se ne può più di
queste emule di Brunilde dalle forme prosperose e dalle chiome
svolazzanti.”
“E allora cosa proponi, una
donna magra? Niente armi?” Assunse un’aria ironica. “Magari un
ritratto di Ildegarda di Bingen?”
Kellermann scosse la testa. “No,
tutto il rispetto per la Badessa di Rupertsberg, ma non è lei la
Germania.”
“E allora chi?” Escher indicò
una cameriera dalle trecce bionde, giovane e fresca, che stava
passando con cinque boccali di birra per mano. “È lei la Germania,
forse?”
L’altro crollò nuovamente il
capo.
“Davvero non capisco cos’hai
in mente,” sospirò allora l’amico.
Il pittore strinse appena gli
occhi, poi fissò lo sguardo lontano, come assorto in pensieri
profondi. Per un po’ rimase immobile, sembrava stesse contemplando
immagini visibili solo a lui.
Bevve un sorso di vino, poi posò
il bicchiere. Alla luce calda delle candele, il suo contenuto prese
un colore sontuoso, dorato, come di topazio.
Infine, egli disse: “Non è una
donna l’immagine che la giovane Germania mi evoca.”
“Allora un’aquila?” propose
Escher. “Oppure una solida quercia, secolare ma ancora vigorosa?”
Aprì le braccia come per simulare i rami della pianta, quindi
soggiunse: “Un albero nodoso, possente, dalla scorza ruvida, che
reca su di sé i segni delle tempeste e del gelo, ma che ha foglie
verdi innumerevoli, e ovunque giovani germogli. Sfida i venti con le
sue alte chiome e offre riparo e nutrimento a tutti gli animali della
foresta.” Tacque, come spossato dall’aver creato una così
complessa immagine, quindi soggiunse: “Questa è la Germania, non
ti pare?”
Kellermann scosse la testa. “No.”
L’altro lo fissò stupito.
“No?”
Il primo bevve un altro lungo
sorso di vino, riempì nuovamente il bicchiere e disse: “Pensaci:
quale immagine assomma in sé tutti ciò che consideriamo Germania?
Dove coesistono eroismo, sacrificio, misticismo, fedeltà
incrollabile, forza e vigore? A chi appartengono la profondità delle
radici, il valore delle tradizioni e la volontà di potenza?”
“Ora parli per enigmi,” si
arrese l’amico.
Kellermann annuì grave.
Raddrizzò appena le spalle, inspirò lentamente. Infine disse: “la
Germania è un giovane cavaliere teutonico in armi, con la spada in
pugno e la croce nera sul petto. I suoi capelli hanno il colore
dell’oro, i suoi occhi sono tra il grigio e l’azzurro, a
simboleggiare forza e regalità. Il volto è di nobile pallore. Suoi
compagni sono l’aquila e un magnifico destriero. Accanto a lui
sorge una quercia possente, cui è appoggiato lo scudo imperiale. Lo
stendardo con i colori nazionali garrisce al vento e un raggio di
sole fa brillare le gemme della corona del Sacro Romano Impero,
posata su una roccia ai piedi dell’albero. Sullo sfondo c’è il
castello di Marienburg.”
Escher rimase in silenzio per
qualche secondo, quasi stesse contemplando l’immagine che l’amico
aveva così vividamente descritto, quindi rispose: “Beh, che
aspetti a dipingere questo componimento, se ce l’hai così chiaro
in mente?”
Kellermann prese un’aria
afflitta. “Non trovo il volto del cavaliere.”
“Non trovi il modello?”
L’altro scosse la testa, poi
rispose: “È come se avessi un’immagine nella testa, ma non
riesco a trovare il suo riscontro nella realtà.”
“Non puoi dipingere il
cavaliere sulla base di ciò che hai in mente?”
Kellermann sospirò. “Lo sai
che riesco a lavorare solo se ho un modello davanti. E poi il volto
che immagino è più che altro un’idea, un insieme di
caratteristiche che fatico a concretizzare in un volto reale.” Fece
una pausa, quindi soggiunse: “Dovrei vederlo, e allora mi direi:
ecco, è lui. Finalmente me lo trovo davanti.”
“Hai provato con Rossignol?”
“Chi, il modello francese?”
“È biondo, no?”
Kellerman scosse la testa. “Non
somiglia nemmeno lontanamente a un giovane cavaliere teutonico. Al
massimo può fare il Ganimede o l’Endimione.”
“Janusz Kowalczyk?”
“No, troppo volgare. Ha i
lineamenti grossolani, va bene per fare l’Ercole.”
“Però è biondo anche lui.”
“Non comunica nessuna idea di
misticismo. Solo forza bruta, solidità da bove.”
“Qualche tedesco? Anton Hofer,
ad esempio?”
Kellerman scosse la testa
sconsolato. “No no, non ci siamo. Non è lui.”
“Ma se sembra Sigfrido!”
“No, non è lui, lo sento.
Gli manca qualcosa.”
“Cosa, di grazia?”
Il pittore si prese la testa fra
le mani. “Non lo so. Non lo so, maledizione. Se lo sapessi, starei
già dipingendo giorno e notte, perché ho come un fuoco dentro: devo
trasferire sulla tela quello che ho nella mente e nell’anima,
quest’immagine che mi sta ossessionando.” Bevve di nuovo,
vuotando il bicchiere. “Non lo so,” ripeté. “Ho fatto
innumerevoli bozzetti e poi li ho bruciati tutti: nessuno è venuto
come volevo. È come se ce l’avessi davanti agli occhi, ma lo
stessi guardando attraverso un vetro opaco. So che c’è, so com’è
fatto, però non riesco a vederlo con chiarezza, e la cosa mi fa
impazzire.”
§
Giungendo a casa, Albrecht
s’imbatté nel personale di servizio che stava ornando la porta
d’ingresso con nastri rossi e rami d’abete. Sua madre stava
supervisionando l’allestimento.
“Più rami!” ordinò la
signora Kellermann, “Più pigne e agrifoglio. Non vorremo essere la
casa più misera della strada, non è vero?”
“Nossignora,” rispose la
cameriera.
“Allora più agrifoglio, cara,
e anche i nastri rossi, che simboleggiano amore e gioia. Dov’è la
corona da appendere?”
“Qui, signora.” La ragazza
indicò un sontuoso cercine di foglie, mele lustre, semi d’anice
stellato, stecche di cannella e palline dorate. Appese a nastrini
colorati, tintinnavano lievi delle campanelle.
“Molto bene,” approvò la
donna. “Fissatelo con cura, non vorrei che qualcuno lo rubasse.”
“Sì, signora.”
A quel punto la donna fece
qualche passo indietro per contemplare l’insieme e si accorse del
figlio in arrivo. “Albrecht!” esclamò. “Albrecht caro, guarda:
stiamo addobbando per il Natale. Che te ne pare?”
“Bellissimo, mamma.”
“Davvero? Se lo dici tu mi
fido, conosco il tuo senso artistico.”
“È tutto molto bello.”
“Dici che ci vorrebbe più
agrifoglio?”
Kellermann scosse la testa, più
che altro per risparmiare alle cameriere pericolose ascensioni sulla
scala a pioli, poi disse: “No, appesantirebbe troppo. Così è più
sobrio.”
“Oh, ma certo. Come ho fatto a
non pensarci?” La signora Kellermann sfoderò una lorgnette e
contemplò l’insieme. “Così è molto più sobrio. Grazie, caro.”
“Dov’è papà?”
“È nel suo studio che lavora.
Accompagnami in casa, caro, vuoi? Fa un po’ freddo.” La donna si
strinse lo scialle sul petto.
I due si spostarono nell’ingresso
e da lì passarono al salotto, dove l’alta stufa di ceramica
diffondeva un piacevole calore. La signora Kellermann emise un
sospiro di soddisfazione, poi proclamò: “Quest’anno a Natale
faremo un’opera buona.”
Evitando di farsi notare,
Albrecht alzò gli occhi al cielo. “Che opera buona, mamma?”
“Il colonnello von
Pfaffenhofen, che è un buon amico della famiglia Altenburger, dice
che ogni anno molti giovani soldati sono costretti a trascorrere il
pranzo di Natale in caserma, perché magari abitano troppo lontano e
non hanno mezzi per tornare a casa.” La donna fece una pausa, forse
aspettandosi una replica, che però Albrecht si guardò bene dal
pronunciare. “Rimangono là da soli, poverini,” proseguì allora,
“senza il calore di una famiglia. Abbandonati.”
“Beh, mamma...” cominciò il
giovane, ma subito la signora lo interruppe: “So cosa vuoi dire:
sono soldati, svolgono il loro dovere per la Patria e sicuramente
anche fra camerati staranno bene, ma io sentirei di aver veramente
interpretato il messaggio del Natale, se invitassimo qui uno di quei
bravi ragazzi.”
“Ma mamma, è un estraneo,”
tentò Albrecht. “Non è del nostro ambiente, si sentirà a
disagio. Sarà una pena per lui e per noi.”
“Sarà una gioia, vorrai dire,”
replicò la donna con veemenza. “Daremo a un povero ragazzo il
calore di una famiglia. Che ne dici, forse sarà il caso di ordinare
uno Stollen più grande? O magari due, uno al cioccolato e uno
normale.”
Il pittore emise un sospiro
sconsolato. “Perché magari non gli paghiamo il viaggio a casa?”
tentò. “Sarà di sicuro più felice di vedere i suoi, piuttosto
che una famiglia di estranei. Ti sarà molto grato.”
La signora scosse la testa. “Oh,
no. È impossibile. Come fa un poverino, partendo da qui, ad arrivare
fino alla Prussia Orientale? Deve attraversare tutta la Germania, ci
vuole tanto tempo.”
“Mamma, seriamente: non mi
sembra una buona idea,” tentò di nuovo il giovane, ma la signora
si erse in tutta la sua altezza, lo scrutò con sussiego attraverso
la lorgnette e disse: “È inutile, Albrecht, ho già deciso, e tuo
padre è d'accordo. Lo fanno tutti, quest'anno: lo fanno gli Hausser,
gli Altenburger, i Giesler e anche i von Schlieffen. Non vorremo
essere gli unici egoisti, spero.”
Albrecht rinunciò a insistere.
Di certo sua madre immaginava quell’ipotetico soldatino come un
simpatico, grazioso animaletto al quale allungare una ciotola di
latte mentre fuori nevicava.
Qualcosa da tenersi davanti al
caminetto su un tappetino, qualcosa di piccolo e dolce, magari con
grandi occhi colmi di gratitudine per il sontuoso pranzo…
Si chiese se la signora
Kellermann avesse mai visto dal vero un soldato., se ci avesse mai
interagito in qualche modo, a parte ascoltare la banda che la
domenica mattina suonava nel parco del castello.
Probabilmente sarebbe arrivato un
tanghero puzzolente e mal rasato, che avrebbe ingozzato tutto quello
che poteva gettando la tavolata nell’imbarazzo coi suoi modi, si
sarebbe ubriacato, avrebbe palpeggiato le cameriere e magari
intascato anche qualche cucchiaino d’argento.
Fino a quel momento in casa loro
non erano mai entrati militari, a parte il colonnello von
Pfaffenhofen, che comunque vi aveva messo piede solo una volta.
Sua madre non poteva avere idea
di come fosse un soldato veramente.
Non che lui ne avesse una molto
più precisa, in verità, ma di sicuro conosceva i giovani uomini
molto meglio di sua madre. Li conosceva nei loro divertimenti, per la
precisione, e li vedeva quando non c’erano in giro signore che
potessero scandalizzarsi. Immaginava che i soldati, che perlopiù
provenivano dal popolo, fossero così o peggio, quindi decisamente
inadatti al pranzo di Natale a casa loro.
Si disse che perlomeno, dopo la
visita del povero
soldatino lontano dalla famiglia,
sua madre avrebbe smesso con certe stravaganze.
§
La mattina di Natale, Albrecht si
era rintanato in camera sua, in parte perché sperava che con tutta
la confusione che regnava in casa si sarebbero dimenticati di lui, ma
in parte perché l’idea della Giovane Germania, quel volto nobile e
severo di cavaliere in armi, che nonostante ogni suo sforzo gli
sfuggiva, continuava a tormentarlo. Fissò critico l’ultimo
bozzetto che aveva realizzato, scosse la testa, lo appallottolò e lo
buttò nel camino. Preparò un altro foglio bianco, ma a quel punto
udì un bussare discreto alla porta.
“Avanti,” disse a malincuore,
appoggiando da una parte il carboncino.
Comparve sulla soglia Imma, la
più giovane delle cameriere, che con un inchino ancora un po’
goffo annunciò che il pranzo stava per essere servito.
Dalla porta aperta proveniva il
chiasso della famiglia riunita. Voci acute di ragazzine, franche
risate maschili, il chiacchierare fitto di sua madre con le sorelle.
Tese l’orecchio, ma tutto gli
sembrava come al solito, non vi erano particolari suoni di meraviglia
o curiosità.
Sperò che sua madre avesse
infine seguito il suo consiglio, ovvero pagare il viaggio al soldato
invece di trascinarselo a casa.
Scese le scale, raggiunse la sala
da pranzo apparecchiata col servizio buono. La candida tovaglia di
fiandra arrivava quasi fino a terra, l’argenteria brillava alla
luce di innumerevoli candele. I calici di cristallo scintillavano
come diamanti.
Una delle sue cugine, gli pareva
che si trattasse di Hermine, sedeva con adolescenziale sussiego al
pianoforte e strimpellava un Lied di Schubert.
Nell’aria aleggiava l’odore
di vivande appetitose, di spezie e di vino caldo.
Si guardò intorno, ma non gli
parve di adocchiare giubbe blu da nessuna parte. Sospirò sollevato.
Poi udì sua sorella Eugenia
chiedere: “Quando arriva, mamma?”
Subito giunse la risposta: “Ho
mandato Karl a prenderlo con la carrozza, sarà qui a momenti.”
“Mangerà con noi o con la
servitù?”
Il tono della signora Kellermann
assunse un tono sdegnato. “Con noi, ovviamente, e guai a te se ti
azzarderai a farlo sentire in imbarazzo.”
Sua sorella Hildegard chiese:
“Mamma, è vero che i contadini della Prussia Orientale a tavola
hanno solo un cucchiaio per il servizio e poi mangiano tutto con le
mani?”
“Chi ti ha detto una
sciocchezza simile?” replicò la donna. Poi, a voce più alta,
evidentemente rivolta a tutti: “Ve lo ripeto: quel povero ragazzo è
solo e senza la sua famiglia, voglio che lo facciate sentire a suo
agio, sono stata chiara?”
“Ma sa parlare tedesco?”
“Eugenia!”
Albrecht alzò gli occhi al
cielo.
In quel momento una cameriera si
avvicinò alla signora Kellermann e le disse qualcosa a bassa voce.
“Eccolo!” esclamò la donna.
“Ora vado a prenderlo. Hermine! Hermine, cara, attacca quel pezzo.”
La ragazza sbuffò e cominciò
un’esecuzione decisamente scolastica di Heil
dir im Siegerkranz.[1]
Trascorse forse un mezzo minuto,
poi si udirono dei passi in avvicinamento e la voce della signora
Kellermann che in tono affettuoso diceva: “Avete fatto buon
viaggio, mio caro? Siete affamato? Spero che lo siate, ho fatto
preparare gli Spätzle e l’arrosto con le cipolle apposta per voi.
Avete freddo, forse? Vi faccio portare un bicchiere di vino caldo?”
Una giovane voce maschile tentò
di arginare tutte quelle premure, ma fu subissata in un attimo da
nuove offerte di cibo, bevande e calore.
Albrecht emise un sospiro.
“Sta arrivando,” disse
Eugenia. Allacciò le mani dietro la schiena e rivolse alla porta lo
sguardo a metà fra la curiosità e l’aspettativa che avrebbe
potuto dedicare al tendone di un circo.
Suo padre si fece avanti per fare
gli onori di casa. In quanto figlio maggiore, egli si spostò al suo
fianco per accogliere l’ospite.
E poi rimase senza fiato.
Si accorse confusamente che il
signor Kellermann si faceva avanti tendendo la mano, udì qualche
gridolino e qualche bisbiglio di sorelle e cugine, ma lui stesso non
riusciva a emettere una parola.
Riusciva solo a fissare il
soldato.
Una figura alta, snella, dal
portamento elegante. Lineamenti regolari, delicati eppure pieni di
forza, occhi fra il grigio e l’azzurro, profondi e trasparenti.
Capelli d’oro pallido.
Nonostante vestisse la semplice
giubba blu della fanteria, pur imbarazzato e forse intimidito dalla
situazione, manteneva un atteggiamento di naturale nobiltà, di
composta riservatezza che poche volte aveva visto in una persona così
giovane.
La lastra di vetro opaco che per
mesi aveva offuscato le fattezze adamantine della Giovane Germania
era appena andata in frantumi.
Egli era lì, di fronte a lui, di
carne e sangue, le guance appena velate di rossore, gli occhi
luminosi e attenti.
Fece un passo avanti, il giovane
si voltò verso di lui. “Soldato Erich Dierschke,” si presentò,
accennando una posizione di attenti.
“Molto piacere di conoscervi,”
riuscì a balbettare il pittore, e più lo guardava, più si faceva
precisa la sensazione di contemplare l’Ideale di giovane in armi
che per mesi l’aveva tormentato. “Molto piacere,” ripeté, “il
mio nome è Albrecht Kellermann.” Tese la mano.
“Onorato di conoscervi,
signore,” rispose il giovane. Abbassò lo sguardo sulla sua mano,
poi di nuovo lo rialzò a fissarlo in volto: pareva che gli stesse
domandando il permesso di stringerla.
Egli la mantenne ferma.
“Benvenuto, signor Dierschke,” gli disse in tono incoraggiante.
“È un piacere avervi fra noi.”
“Vi ringrazio, signore,”
rispose il giovane, e finalmente si decise a stringergliela.
Aveva una presa gentile ma
solida, che comunicava una sensazione di tranquilla forza, di serena
inamovibilità. Unita al suo sguardo limpido, gli evocò il verso di
Max Schneckenburger: Sta
salda e fedele la guardia al Reno.
La voce della signora Kellermann
lo distrasse dalle sue considerazioni: “Vogliamo andate a tavola?
Voi, caro signor Dierschke, avrete la bontà di sedervi accanto a me,
non è vero?”
“Come volete, signora.”
La donna si spinse addirittura a
prenderlo gentilmente sottobraccio e a guidarlo verso il posto
assegnato. Ad Albrecht non sfuggì l’impaccio con cui il giovane
soldato si muoveva sui tappeti cinesi, indeciso se fosse consentito
calpestarli o no. Si accorse che Eugenia stava dicendo qualcosa
nell’orecchio a Hermine, che ridacchiava.
Raggiunse la madre. “Io siederò
accanto al nostro ospite,” disse in tono che non ammetteva
repliche.
Lo vide accomodarsi come sui
carboni ardenti e gettare fugaci occhiate intorno come alla ricerca
di ispirazione: ai lati di ogni piatto c’erano più posate di
quante probabilmente quel ragazzo ne avesse mai viste tutte insieme,
i bicchieri erano quattro, di forme e dimensioni diverse.
Lo fissò fino a che egli non gli
restituì lo sguardo, a quel punto prese il tovagliolo e se lo mise
sulle ginocchia. Il ragazzo lo imitò.
Passò Agnes, la più anziana
delle loro cameriere, con una zuppiera fumante che aveva
l’inconfondibile profumo della minestra di patate. Seguiva Imma,
con i cubetti di pane fritti nel burro e la panna montata da
aggiungere a ogni piatto.
Il soldato le fissò stupefatto,
poi rivolse una fugace occhiata ad Albrecht. Questi scosse
impercettibilmente la testa, come per fargli capire che non avrebbe
dovuto preoccuparsi. Il giovane gli rivolse un lieve sorriso come di
gratitudine.
A quel punto prese la parola il
signor Kellermann: “Ebbene, giovanotto, voi che siete un militare,
cosa ne pensate della nostra Germania unita?”
Suo zio Oswald intervenne:
“Credete che otterrà il posto che le spetta in Europa?”
Il giovane parve ponderare la
questione, il suo sguardo si fece pensoso, e più che mai ad Albrecht
evocò l’immagine del giovane cavaliere in armi. Infine rispose:
“Io credo di sì, signore.” Si spostò leggermente per consentire
ad Agnes di servirlo, lasciò che Imma aggiungesse alla sua porzione
una generosa quantità di cubetti di pane e una grossa cucchiaiata di
panna. Ringraziò con un cenno del capo. “La Germania era già
unita, credo,” proseguì poi con voce sommessa. Si portò una mano
al petto. “Qui era già unita. Non credete anche voi?”
“Che immagine poetica,”
sospirò zia Swanhild, e subito in tono tagliente aggiunse: “E tu
non ridere, sciocchina!”
“Scusa, mamma,” brontolò
Hermine.
“È un’immagine davvero
bella,” ripeté la donna. “Voi, che abitate così lontano, vi
sentite unito agli altri tedeschi? Unito spiritualmente, intendo.”
Zio Oswald fece una risatina di
sufficienza. “Teoricamente sarebbe quella la vera Germania, cara.”
Si rivolse al soldato: “Non lo pensate anche voi?”
“La Germania è dove c’è
anche solo un tedesco, signore,” rispose il giovane. Aveva un tono
pacato, addirittura premuroso. “Almeno, io credo che sia così,
perché la Patria è qualcosa che uno ha nella mente e nel cuore,
prima che nei beni materiali.”
“Abbiamo un giovane filosofo!”
esclamò la signora Kellermann. Gli diede un buffetto affettuoso
sulla guancia, poi soggiunse: “Ora mangiate, caro, oppure si
raffredderà tutto.”
A quelle parole, Albrecht si
affrettò a raccogliere la posata corretta. Il ragazzo gli rivolse
una fugace occhiata e lo imitò. Di nuovo si scambiarono un piccolo
sorriso come d’intesa.
Il pittore rimase per qualche
istante a osservarlo. Si chiese come fosse possibile che il figlio di
un semplice contadino della Prussia Orientale avesse quella grazia
nei movimenti, quel decoro. Non sapeva tenere le posate nel modo
corretto, ma aveva mani eleganti e piene di forza. Non sapeva
ovviamente fare conversazione come si usava nell’alta borghesia, ma
paragonate al suo composto silenzio, quelle stesse conversazioni
apparivano nient'altro che un cicaleccio stupido.
“Sapete, io sono un pittore,”
disse Albrecht verso la fine del pranzo.
Il ragazzo abbassò il cucchiaino
del dessert e lo fissò meravigliato. “Davvero, signore? Dipingete
i quadri?”
Intervenne a quel punto la
signora Kellermann: “Quel paesaggio, vedete, quello che è sopra il
camino: l’ha dipinto lui.”
“Mamma...”
“E anche i ritratti
dell’ingresso, non so se li avete notati: sono il nostro Imperatore
Guglielmo e l’imperatrice Augusta, che Dio li conservi. Anche
quelli li ha fatti lui.”
Albrecht emise un sospiro. “Sì,
mamma, dopo porto il signor Dierschke a vederli, d’accordo? Ora
però vorrei chiedere al nostro ospite un’altra cosa.”
Di nuovo il soldato si voltò a
fissarlo. “Che cosa, signore?”
“Vorrei chiedervi di posare per
me, signor Dierschke.”
Il ragazzo lo fissò stupefatto
per alcuni secondi, poi ripeté: “Posare per voi, signore?”
“Sì, sto realizzando un quadro
di ispirazione patriottica e voi sareste il soggetto ideale.”
“Ma io sono solo un soldato,”
si schermì.
“Voi avete esattamente i
lineamenti che sto cercando.”
“Non so come si fa,” tentò
ancora Dierschke. Il suo imbarazzo cresceva di attimo in attimo, ma
Albrecht si sentiva come l’assetato che finalmente vede rampollare
l’acqua, e aveva la stessa urgenza di raggiungere l’obiettivo.
“Non dovrete fare niente,” gli assicurò, “dovrete solo stare
fermo nella posizione che vi dirò io.” Tacque per qualche secondo,
occhieggiandolo speranzoso, quindi soggiunse: “Sarà come stare di
guardia da qualche parte. Questo lo sapete fare, no?”
“Sì, signore, ma...”
“Vi prego, fatemi la grazia di
accettare. Chiederò licenza ai vostri superiori, chiederò...” Si
volse verso la signora Kellermann: “Mamma, forse potresti domandare
al colonnello von Pfaffenhofen?”
Di nuovo il ragazzo fece tanto
d’occhi. “Il signor colonnello?” Rivolse a entrambi lo sguardo
che avrebbe riservato a creature soprannaturali.
“È un buon amico della nostra
famiglia,” disse subito la donna. “Sono certa che non ci
rifiuterà questo favore, soprattutto quando saprà che è per un
quadro di ispirazione patriottica.”
§
Albrecht si guardò intorno
soddisfatto: la neve appena caduta faceva entrare dalle grandi
finestre del suo studio una luce limpida e pura, che sarebbe stata
perfetta per il quadro che aveva in mente.
Andò alle tende e le aprì
quanto più poteva, quindi aggiunse carbone nella stufa, per far sì
che la temperatura fosse confortevole.
Si accertò che il paravento
dietro cui modelli e modelle si spogliavano fosse ben posizionato,
che ci fossero uno sgabello e un gancio per appendere gli abiti.
Ripercorse tutto il materiale che
si era procurato: una cassetta che avrebbe rappresentato la roccia,
il cercine che sua madre aveva fatto appendere alla porta come corona
imperiale, un attaccapanni a fare le veci della quercia e un pannello
vagamente sagomato per riprodurre lo scudo.
Aveva preparato anche una tunica
lunga fino ai piedi e un mantello, per la spada sarebbe andato bene
un banale bastone da passeggio. Per l’aquila e il destriero gli
sarebbe bastata l’immaginazione.
Diede un’occhiata
all’allestimento: tutti quegli oggetti non erano che paccottiglia,
un mero contorno che serviva solo per avere un’idea delle
proporzioni del quadro.
Ciò che aveva veramente
importanza era colui che entro breve sarebbe arrivato a posare.
Guardò l’orologio e si accorse che mancavano pochi minuti
all’orario concordato. Raccolse il blocco dei bozzetti, scorse le
pagine che aveva già riempito con ogni possibile prospettiva di quel
volto che riusciva ad assommare in sé la grazia del fanciullo e la
serietà grave del guerriero.
L’aveva anche sognato, nei
panni di un giovane cavaliere, con il vento che gli agitava i capelli
dorati e lo sguardo fiero e risoluto.
Si chiese se sarebbe riuscito a
riprodurre tutto ciò sulla tela, se sarebbe riuscito a cogliere
l’ineffabile connotazione di quel volto pallido e austero.
A quel punto udì bussare alla
porta e una domestica gli annunciò che l’ospite era arrivato.
“Fallo accomodare,” le disse.
Quando la ragazza fu uscita, egli
si spostò verso la finestra e volse lo sguardo all’esterno. Si
rese conto di essere emozionato all’idea di rivedere quel giovane:
il cuore gli batteva più forte, la bocca secca gli rendeva difficile
deglutire. Nemmeno per i suoi esami all’Accademia di Belle Arti era
mai stato così teso.
Andò alla ricerca di un
bicchiere d’acqua e lo bevve d’un fiato. Riguardò i bozzetti che
aveva abbandonato sul tavolo, li scorse di nuovo uno dopo l’altro.
Udì la porta aprirsi. Si voltò
in quella direzione e vide che sulla soglia era fermo il soldato.
Vestiva un’uniforme blu molto
più semplice di quella che aveva indossato per il pranzo di Natale e
la cosa, invece di renderlo più dimesso, non faceva altro che
esaltare la sua naturale nobiltà. Immaginò che probabilmente anche
sporco e vestito di stracci sarebbe sembrato un principe.
“Benvenuto,” lo accolse,
tendendo le mani verso di lui. “Venite avanti.”
Dierschke si avvicinò
impacciato, guardandosi intorno come se fosse entrato nella sala di
un museo. I suoi occhi vagavano meravigliati sui bozzetti, sulle
sculture e sui quadri di cui le pareti erano tappezzate. Non riuscì
a evitare di fermarsi assorto di fronte a una copia del Corazziere
Ferito di Géricault. Mise le mani dietro la schiena e rimase per
qualche secondo a contemplarlo in silenzio, quindi parve ricordarsi
il motivo per cui si trovava in quello studio, si riscosse e disse:
“Scusate, signore.”
“Venite avanti,” lo
incoraggiò Albrecht.
Il ragazzo si avvicinò
titubante. I suoi occhi attenti continuavano a vagare su ogni
particolare dell’ambiente. Alla fine si posarono sul paravento.
Egli lo fissò dilatandoli appena in un’espressione preoccupata,
quindi parve voler indietreggiare verso la porta.
Il pittore fece un passo verso di
lui. “Qualcosa non va?” gli chiese.
“Signore...” Il ragazzo
esitò, pareva che fosse alla disperata alla ricerca delle parole
giuste per dire ciò che aveva in mente, ma che esse si ostinassero a
sfuggirgli. “Signore… è vero quello che dicono?”
“Che cosa?”
“Il caporale Dressler...” Di
nuovo il ragazzo si interruppe. Dava l’idea di essere mortalmente
imbarazzato.
“Sì?” lo incoraggiò
Albrecht.
Il soldato prese un gran respiro,
infine disse: “Signore, è vero quello che mi ha detto il caporale?
Che dovrò spogliarmi tutto nudo?” Le guance gli si fecero
scarlatte.
La sua espressione smarrita era
così buffa che il pittore dovette farsi forza per non sorridere.
Scosse la testa. “Ma no, signor Dierschke, cosa vi viene in mente?
Vi spoglierete per indossare degli abiti che vi darò, ma dietro il
paravento. Vi garantisco che non vi vedrà nessuno.”
“Grazie, signore.”
“E di che? Sono io che devo
ringraziare voi.” Subito dopo gli mostrò gli abiti, ovvero la
tunica, che avrebbe dovuto fungere da modello per la cotta di maglia,
la cintura per stringerla in vita e il manto bianco. “Dovreste
indossare questi, per favore.”
“Sissignore.”
Quando il soldato uscì da dietro
il paravento, Albrecht si accorse che si era in effetti spogliato
quasi completamente – immaginava avesse conservato la biancheria –
e indossava solo i panni che lui gli aveva consegnato poco prima. La
tunica gli ricadeva addosso morbida, mettendo in risalto la sua
corporatura snella e robusta. Il mantello accentuava la larghezza
armoniosa delle spalle.
“Pensavo avreste infilato la
tunica sopra l’uniforme,” disse.
Il ragazzo parve imbarazzato.
“Dovevo fare così, signore?”
Albrecht scosse la testa. “No,
non preoccupatevi. È che di solito i modelli fanno così, per
comodità.”
Lo sospinse verso lo sfondo che
aveva preparato e per lunghi minuti studiò la sua posizione,
muovendolo come avrebbe fatto con un manichino e poi allontanandosi
dopo ogni variazione per controllare il risultato complessivo.
Alla fine gli parve che l’insieme
potesse andare bene: il cavaliere era in piedi al centro del quadro,
con la spada nella destra e la sinistra che tratteneva le immaginarie
redini di un destriero. Il portamento era eretto e fiero, la testa
orgogliosamente dritta. Il ragazzo aveva i capelli corti, ovviamente,
ma nel quadro li avrebbe avuti lunghi fino alle spalle, appena
agitati da una brezza lieve.
La luce che entrava dalle
finestre, quella luce bianca e pura come di ghiacciaio, gli si
riversava sul volto rendendo i suoi lineamenti ancora più netti e
cesellati.
In quel fulgore privo di ombre le
ciglia assumevano un colore di oro pallido, mentre le iridi avevano a
un tempo il grigio dell’acciaio e l’azzurro cangiante di un cielo
invernale.
“Perfetto,” disse fra sé e
sé. Poi, a voce più alta: “Volete riposarvi un po’?”
Senza minimamente mutare la
posizione che aveva assunto, il soldato rispose: “Non sono stanco,
signore.”
Albrecht ripensò ai modelli che
ingaggiava di solito, ognuno dei quali aveva i suoi peculiari modi
per lagnarsi del freddo, del caldo, della luce, della poca luce,
della scomodità, della necessità di una pausa, della sete e delle
esigenze corporali.
“Avete freddo?” gli chiese.
“No, signore.”
“Dovrete rimanere così per un
po’,” lo avvisò. “Perlomeno finché non avrò completato la
bozza.”
Il giovane accennò un lieve
sorriso, poi però riassunse in un istante la precedente espressione
di serietà grave, come se anch’essa facesse parte della posa da
mantenere. “Sono abituato, signore,” rispose.
Il pittore annuì. “Oh,
capisco. Certo. Forse dovrei chiamare sempre dei soldati come
modelli, che ne dite, signor Dierschke? Mi risparmierei innumerevoli
problemi.”
Ripensò a quel che si diceva del
roseo efebo che si faceva chiamare Rossignol: pareva che oltre a
compensi dei più esosi pretendesse champagne sempre ghiacciato,
servito in coppe di cristallo, pasticceria e frutta esotica. Pareva
che una volta avesse addirittura abbandonato con sdegno lo studio di
un suo collega, reo di non avergli fatto trovare un allestimento
abbastanza sontuoso per la seduta di posa.
Bisognava parlargli in francese,
perché si faceva un vanto di non sapere nemmeno una parola di
tedesco.
E Rossignol non aveva nemmeno un
quarto della bellezza e della nobiltà di portamento di quel ragazzo
modesto, che aveva persino paura di respirare troppo forte per non
guastare la posa in cui l’aveva fermato.
Prese il carboncino e finalmente
rivolse alla pagina bianca non più lo sguardo angosciato di chi ha
smarrito la strada, ma quello bramoso dell’amante.
Prese a tracciare segni, a
delineare fattezze che letteralmente lo imploravano di essere
immortalate. Era come se la mano di una Divinità – forse quella
della Germania stessa – avesse afferrato la sua e la stesse
muovendo sulla carta secondo la propria volontà.
Alla fine emise un sospiro e si
raddrizzò, abbandonando il foglio sul tavolo. “Facciamo una
pausa,” disse. Si passò la mano sulla fronte come se avesse
spostato interi carri di pietre.
Il soldato rimase immobile. “Non
sono stanco, signore,” gli assicurò.
“Ma sono stanco io,” sospirò
il pittore. Poi, in tono più basso: “Potete muovervi, signor
Dierschke. Non dipingerò più per oggi.”
Si accorse che il ragazzo lo
fissava perplesso. “Davvero, signore?”
Egli sorrise. “Voi siete un
soggetto difficile, signor Dierschke.”
A quelle parole, il ragazzo
abbassò gli occhi confuso. “Scusate, signore,” mormorò.
Albrecht scosse la testa e gli
assicurò: “Non è colpa vostra, naturalmente. È che quando si
trova un modello così identico a ciò che si ha in mente, renderlo
nel modo giusto richiede molta fatica. È come uno sforzo fisico.”
Fece una pausa, quindi in tono conciliante soggiunse: “È solo un
modo di dire, naturalmente. Credo che fisicamente voi facciate molta
più fatica di me, non è vero?”
“Oh no, signore,” si affrettò
ad assicurargli il ragazzo. “O perlomeno, credo che voi facciate
cose più difficili di quelle che faccio io. Cose che richiedono
più...” esitò alla ricerca di una parola che evidentemente gli
sfuggiva. “Erudizione?” propose alla fine. Lo occhieggiò timido,
come aspettandosi un rimprovero.
Albrecht annuì. “Si tratta
senza dubbio di erudizione,” confermò. “Ma sapete, anche tutta
l’erudizione del mondo, senza anima e senza sentimenti non vale
nulla.”
Il soldato non rispose.
“Potete andare a cambiarvi,”
gli disse allora il pittore, “e poi mangeremo qualcosa insieme, se
avete appetito.”
L’altro scosse la testa. “Vi
chiedo scusa, signore, devo rientrare subito in caserma.”
“Non potete fermarvi nemmeno un
po’? Mi farebbe piacere.”
“Vi chiedo scusa, signore,”
si limitò a ripetere Dierschke.
Albrecht non replicò. Forse il
ragazzo doveva davvero rientrare in caserma più in fretta che
poteva, forse era solo troppo imbarazzato per condividere la tavola
con lui. Scelse di non approfondire.
Lo guardò uscire da dietro il
paravento, di nuovo con la sua uniforme blu, e ancora una volta gli
parve l’immagine stessa della Patria e di tutto ciò che si poteva
definire Germania.
Lo lasciò andare.
In effetti si sentiva spossato,
svuotato, addirittura esausto. Gli pareva di aver tracciato quei
bozzetti non col carboncino ma con il suo stesso sangue.
Si adagiò su una poltrona e
scivolò nel sonno.
§
La volta successiva non ci fu
bisogno di dire nulla: il ragazzo andò spontaneamente dietro il
paravento e ne uscì con gli abiti che Albrecht aveva preparato per
lui. Assunse la posa della sessione precedente.
“Vorrei che tutti i modelli
fossero come voi,” disse il pittore, recuperando i fogli e il
carboncino. “A che ora dovete andare via oggi?” E prima che il
soldato potesse rispondere, soggiunse: “Ve lo chiedo perché vorrei
lasciarvi il tempo di mangiare e bere qualcosa con me.”
“Non è il caso, signore.”
Albrecht sorrise e disse:
“Ragazzo mio, dovreste conoscere le pretese degli altri modelli.
Allora forse capireste perché sono tanto soddisfatto di voi.”
Il soldato non rispose. L’altro
riprese a tracciare il bozzetto che aveva cominciato la volta
precedente.
Passò il tempo. La luce intensa
incideva i lineamenti del giovane dandogli l’aspetto della statua
di un duomo. “Cosa farete dopo il servizio militare?” chiese il
pittore.
L’altro attese qualche secondo
prima di rispondere. “Tornerò a casa, signore,” disse infine.
“Mancate da molto?”
“Un anno e dieci mesi.”
Albrecht staccò il carboncino
dalla carta. “Volete dire che non siete mai tornato a casa?”
“Nossignore.”
“Come mai?”
Il giovane fece per sollevare le
spalle, poi all’ultimo si trattenne per non guastare la posa.
“Perché è un lungo viaggio, signore. Molto costoso.”
Il pittore annuì. “Capisco. Vi
manca casa vostra?”
“Sì, signore.”
“Avete una famiglia?”
“I miei genitori e otto
fratelli, signore.”
Per un po’, l’altro continuò
a disegnare in silenzio. Infine chiese: “Contate di tornare là,
una volta finito il servizio militare?”
La risposta giunse dopo qualche
secondo. “Penso che tutti se lo aspettino, signore.”
Albrecht alzò lo sguardo fino a
fissare il volto del ragazzo. “Che intendete dire?”
“Quella è la mia vita, sono
nato lì.”
“Non sembrate così ansioso di
tornarci, in realtà,” osservò il pittore.
“Sì e no, signore,” fu la
risposta. “Amo la mia famiglia, ma anche la vita militare mi
piace.”
“Davvero?”
“Sì, signore. È bello servire
la Patria.”
“Cosa vi piace del servizio
militare?”
“Tante cose, signore. Il
cameratismo, l’ordine, il dovere. Uno sente davvero di fare
qualcosa di giusto, quando è militare.”
“Capisco.”
Di nuovo calò un silenzio rotto
solo dal ticchettio dell’orologio a muro e dal crepitare del fuoco
nella stufa.
A un certo punto si udì bussare
alla porta.
“Avanti!” disse il pittore,
appoggiando il bozzetto sul tavolo.
Il ragazzo gettò una fugace
occhiata dietro le proprie spalle, forse imbarazzato all’idea che
qualcuno potesse vederlo con lo strano abbigliamento che indossava.
“Non preoccupatevi,” gli
assicurò il pittore, “Agnes ha visto modelli in ogni condizione,
persino nudi.”
“Davvero, signore?”
“Sì, è così.” Poi, a voce
più alta: “Lascia tutto qui, Agnes, grazie.”
La donna posò un vassoio con un
bricco di caffè, tazze, biscotti e altro sul tavolo.
“Vogliamo mangiare qualcosa?”
chiese a quel punto il pittore.
“Io...”
“Coraggio, venite qui. Anche
per oggi abbiamo terminato la nostra seduta.” Albrecht versò il
caffè. “Volete zucchero? Latte?”
Per la prima volta, Dierschke gli
rivolse un sorriso. “Solo zucchero, grazie, signore.” Abbandonò
la posa e lo raggiunse presso il tavolo, poi si sedette di fronte a
lui.
Albrecht spinse la tazza fumante
nella sua direzione.
“Oggi siete stanco come ieri,
signore?” gli chiese dopo un po’ il ragazzo.
Albrecht gli porse il piatto dei
biscotti, poi rispose: “Ve l’ho detto: siete un soggetto
difficile, ma so che mi darete grandi soddisfazioni.”
“Davvero?”
“Un volto come il vostro non si
trova tutti i giorni,” rispose serio Albrecht.
Il ragazzo abbassò lo sguardo,
una fugace ondata di rossore gli accese le guance. “Nemmeno una
persona come voi, signore,” mormorò. Subito dopo si alzò rapido.
“Devo andare,” soggiunse. La tazza era ancora a metà.
“Aspettate, il vostro caffè?”
Ma il ragazzo stava già
dirigendosi a grandi passi verso il paravento.
§
Alla taverna del Grappolo d’Oro
gli amici erano riuniti al solito tavolo. “Ma chi si rivede!”
esclamò Wolfgang Escher. “Credevamo che fossi stato ingaggiato per
ritrarre quale monarca sconosciuto dell'Asia Minore.”
Albrecht raggiunse il suo posto
preferito, sotto la volta dipinta. Si accomodò e disse: “Scusate,
ragazzi.”
La frase suscitò un coro di
proteste. “Scusate? Tutto qui?” replicò un giovane scultore.
“Non ti fai vedere per un mese e questo è tutto ciò che sai
dire?” Fece una pausa, poi assunse uno sguardo sornione e chiese:
“Chi è la bella che ti ha rapito il cuore?”
Albrecht aggrottò le
sopracciglia. “Non c’è nessuna bella.”
“Allora una brutta?” Tutti
risero.
“Né bella né brutta, sto
lavorando.”
Un altro lo fissò trasecolato,
poi chiese: “E a cosa stai lavorando, di grazia? Cos’è che
addirittura ti impedisce di venire a trovare i tuoi buoni amici?”
“Il mio modello finisce la
ferma tra meno di un mese.”
Gli amici lo fissarono in
silenzio. Infine, Escher chiese: “Hai intenzione di spiegarti o
dobbiamo come al solito giocare alle sciarade?”
Albrecht si versò un po’ di
vino nel bicchiere che nel frattempo gli era stato portato, quindi
disse: “Ricordate il quadro che mi era stato commissionato? La
Giovane Germania?”
Tutti assentirono.
“Ebbene, il mio modello è un
militare, devo approfittarne finché è qui, perché presto tornerà
al suo paese.”
“Che sarebbe?”
“La Prussia Orientale.”
All’affermazione seguì un
mezzo minuto di silenzio, quindi uno degli amici chiese: “Hai preso
un soldato come modello?”
“È così.”
“Ma è un maschio.”
“Si capisce che è un maschio,”
replicò Albrecht, “altrimenti come potrebbe fare il militare?”
L’altro alzò le spalle e
rispose: “Tralasciando il fatto che si ha notizia di più di una
donna arruolatasi sotto mentite spoglie, noi tutti ci chiediamo come
tu possa rappresentare la Germania usando come modello un uomo.”
Fece una pausa, poi chiese: “O è un giovane efebo femmineo?”
Si udì qualche risatina.
“Nessun efebo, ci mancherebbe,”
replicò Albrecht in tono tagliente. “Ha l’aspetto di un giovane
cavaliere in armi.”
“Ma la gente vuole le poppe,
caro mio,” interloquì uno del gruppo. “Nude, possibilmente.
Poppe e chiome bionde. Come pensi di conquistare il pubblico con un
cavaliere in armi?”
“Io non devo conquistare
nessuno,” replicò il pittore, “devo rappresentare la Patria, e
per me la Patria è un giovane cavaliere in armi.”
“Boh, de
gustibus,” fu la
riposta, accompagnata da un’alzata di spalle. “Per me comunque te
lo rifiuteranno, se non ci metti un po’ di poppe.”
La taverna era quasi in chiusura,
Albrecht sedeva al tavolo ormai vuoto con la sola compagnia di
Escher.
Andò alla ricerca della brocca
del vino, ma l’amico lo fermò. “Stai bevendo troppo,” gli
disse.
“Non più del solito.”
“E invece sì,” rispose
l’altro. Poi, dopo una pausa: “Qualcosa non va?”
Albrecht si limitò ad alzare le
spalle, al che Escher replicò: “Stai un mese senza farti vedere, e
quando ricompari sei pallido, stralunato e con le occhiaie di chi non
dorme da giorni. È normale che uno si faccia delle domande, non ti
pare?”
“È quel quadro,” rispose il
pittore dopo un po’. Raggiunse la brocca, nonostante lo sguardo di
disapprovazione dell’amico si versò altro vino. “Io sento che è
il quadro della mia vita.”
“In che senso? Stai
rappresentando te stesso?”
Albrecht scosse la testa. “No
di certo.” Socchiuse gli occhi, poi proseguì: “Se tu vedessi
quel giovane… si stenta a credere che sia di carne e sangue.”
“Che intendi dire?”
“Ti ricordi quando ti descrissi
la mia idea della Germania? Ecco, è come se quell’immagine avesse
preso vita. Ogni volta che dipingo, io ce l’ho davanti. È
comprensibile che non voglia sprecare nemmeno un attimo, no?”
L’altro bevve a sua volta un
po’ di vino, poi chiese: “A te di solito quante sedute di posa
occorrono per fissare i lineamenti di un modello sulla tela?”
Albrecht alzò le spalle.
“Dipende. Tre, quattro. Alle volte anche cinque.”
“Questo
non ti suggerisce nulla?”
L’altro aggrottò le
sopracciglia. “Che intendi dire?”
Escher alzò le spalle. “Quante
sedute avrai già fatto con lui?”
“Lo
vedo tutti i giorni,” rispose Kellermann, poi si affrettò ad
aggiungere: “Questo è il mio capolavoro, è l’opera in cui sto
mettendo tutto me stesso. Io me la sogno di notte, capisci? E quando
sono sveglio, non c’è un istante in cui non l’abbia fissa in
mente.”
Fece per bere, ma Escher gli
fermò la mano, e guardandolo negli occhi gli chiese: “L’opera o
il modello, Albrecht?”
L’altro si irrigidì. “Che
intendi dire?”
Per tutta risposta, Escher alzò
le spalle e rispose: “Non sarebbe la prima volta che un pittore...”
Kellermann si alzò in piedi con
un gesto talmente repentino che il suo bicchiere si rovesciò e
sparse sul tavolo lucido il vino che ancora conteneva. “Ti
proibisco di parlare in questo modo,” ringhiò, ma l’amico non
parve soverchiamente colpito da quel cipiglio. “Pensaci,” disse
invece. “Pensa a quello che ti ho detto.”
Camminando a passi rapidi verso
casa, Kellermann pensava alle parole dell’amico. Non
sarebbe la prima volta che un pittore...
Non gli aveva dato il tempo di
finire la frase, ma aveva capito benissimo cosa stesse per dire.
Rievocò il volto nobile e serio
del ragazzo, il suo sguardo profondo. Il colore tra il grigio e
l’azzurro di quelle iridi trasparenti.
Si sorprese a ripercorrere con la
memoria il modo in cui i panneggi della tunica mettevano in risalto
il suo corpo di giovane uomo.
Si fermò come se fosse andato a
sbattere contro un muro.
Il suo corpo di giovane uomo.
Nel rievocarlo per l’ennesima
volta fu attraversato da una sferzata di desiderio. Scrollò la testa
con foga, come per allontanare da sé quei pensieri. Adocchiò i
cumuli di neve che ancora biancheggiavano ai lati della strada, quasi
vagheggiando di buttarvisi, per spegnere col gelo quelle folli
pulsioni. Riprese a camminare rapido, nervoso, con i pugni affondati
nelle tasche.
Smettere di vederlo? Certo,
sarebbe bastato dire che il quadro era finito, che non aveva più
bisogno di lui.
E perdere le ultime occasioni di
contemplare quell'ultraterrena bellezza?
Di nuovo si fermò. Come colto da
una vertigine, si appoggiò a un muro con la mano, i rari passanti lo
scambiarono per uno che avesse bevuto troppo e gli rivolsero occhiate
di disapprovazione. Egli emise un sospiro, e prima di rendersene
conto stava dirigendo i propri passi verso la caserma, in
un’irrazionale speranza di vedere la sua snella figura stagliarsi
nel vano di una finestra.
§
Steso sulla sua branda, le mani
dietro la nuca, il soldato Dierschke fissava in silenzio il soffitto.
La costruzione era antica e l’ampia volta della camerata conservava
le vestigia di un dipinto. Rari pezzi, perlopiù l’azzurro
screziato di un cielo, ma a ben guardare sui bordi vi era anche
qualche ramo dalle esili foglie verde scuro.
Cercò di immaginare chi potesse
averlo dipinto. Vide mani eleganti, uno sguardo assorto sotto una
fronte alta e pallida, capelli biondo scuro un po’ scompigliati.
Deglutì: quello non era l’ignoto
artista che aveva affrescato la volta, quelle erano fattezze ormai
ben note. Fattezze amate,,
che ogni volta attendeva con impazienza di rivedere.
All’inizio era andato dal
signor Kellerman con diffidenza. Si era tenuto a distanza,
limitandosi a rispondere alle sue domande nel modo più conciso
possibile. In qualche occasione era addirittura andato via
bruscamente e poi fino alla seduta successiva era rimasto ad
attendere un rimprovero che non era mai giunto.
Poi però le sedute di posa, e i
lunghi – sempre più lunghi – intervalli per prendere il caffè,
erano diventati una consuetudine che ogni giorno attendeva con
maggiore ansia.
Si era sorpreso più di una volta
a pensare con fastidio all’ormai imminente rientro al paese natale.
Si voltò verso la branda accanto
alla sua, ma il camerata che la occupava stava dormendo della grossa.
Emise un sospiro e tornò a
guardare il soffitto.
Sebbene fosse arrivato a
Heidelberg ignaro di tutto, sotto le armi aveva imparato tante cose.
Alcune gliele avevano insegnate i suoi istruttori, altre, a volte
anche più importanti, le aveva imparate dai suoi camerati e dai
discorsi che facevano tra loro.
Era stato in un contesto del
genere che aveva scoperto l’esistenza di uomini che si innamorano
di altri uomini.
Sulle prime non ci aveva creduto,
aveva pensato che lo prendessero in giro. Com’era possibile una
cosa così assurda?
E poi aveva conosciuto quel
pittore dai lineamenti puliti, gentile, addirittura premuroso con
lui, con occhi chiari e limpidi, che quando lo fissavano si
accendevano di un fuoco appassionato.
Quando pensava a lui, non gli
sembrava più così strano che un uomo potesse amarne un altro.
§
Dierschke entrò nello studio del
pittore e subito inspirò l’ormai familiare aroma di trementina e
pittura a olio. All’inizio quell’odore gli era parso sgradevole,
tanto che si era chiesto come avrebbe fatto a sopportarlo per tutta
la seduta di posa, ma pian piano era diventato qualcosa che aveva a
che fare con il signor Kellermann, e per ciò stesso si era
trasformato in qualcosa di piacevole.
Come ogni volta, lui lo stava
aspettando accanto al cavalletto, il camice macchiato che usava per
lavorare già indosso.
Lo salutò rapido, corse dietro
il paravento e in un attimo indossò la tunica e il mantello. Con un
gesto ormai automatico tese la mano a raccogliere il bastone che
nelle sedute fungeva da spada.
Andò a mettersi in posa e pur
immobile seguì con lo sguardo i gesti tranquilli con cui l’uomo
preparava i colori e poi si sedeva di fronte alla tela.
Sapeva che a quel punto non
l’avrebbe visto più, se non quando di tanto in tanto si sporgeva a
guardarlo, ma avrebbe sentito l’impercettibile raschiare del
pennello, il suo respiro a tratti un po’ pesante, ogni tanto
qualche borbottio vago.
“Oggi la luce è
particolarmente buona,” disse il pittore.
Il soldato girò lo sguardo verso
le ampie finestre: il cielo era azzurro e il sole ormai quasi
primaverile faceva risplendere la neve rimasta. Considerò che presto
gli alberi avrebbero messo le gemme e l’idea del ritorno a casa lo
pungolò.
Si mosse appena e si rese conto
di non aver fissato correttamente il mantello. Le pieghe del pesante
indumento stavano lentamente scorrendo le une sulle altre e in breve
sarebbero cadute.
“Signore,” disse.
Il pittore si sporse verso di
lui. “Che c’è?”
“Signore, il mantello. Vi
chiedo scusa, ma devo sistemarlo meglio.”
Kellermann abbandonò pennello e
tavolozza. “faccio io,” disse alzandosi, e prima che lui potesse
ribattere l’aveva già raggiunto.
Il soldato si trovò
letteralmente a sussultare. Tolta la prima seduta, quando l’uomo
l’aveva mosso come una specie di manichino animato per metterlo in
posa, non erano mai stati così vicini. Deglutì investito dal suo
odore di colonia e sapone fine, quasi gli parve di sentire sulla
pelle il calore che emanava. “Signore...” mormorò, e lui stesso
non capiva se fosse un’invocazione a lui o all’Altissimo, nella
speranza che esso gli concedesse la forza di resistere all’impulso
di annullare la distanza che ancora lo separava dall’uomo.
L’altro gli sistemò sulle
spalle le pieghe pensanti del mantello, Dierschke alzò lo sguardo e
si trovarono occhi negli occhi.
Sentì il cuore saltare un
battito, deglutì mentre il respiro gli si bloccava a metà.
L’uomo si piegò appena verso
di lui, egli non si ritrasse.
Il rintocco dell’orologio li
fece sobbalzare.
Nel movimento il mantello cadde,
subito il soldato si precipitò a raccoglierlo, e non sapeva se
provare sollievo o rimpianto per quel che stava per succedere e non
era successo.
“Scusate, signore,” balbettò
confusamente, “scusate.” Alzò lo sguardo e colse negli occhi del
pittore lo stesso turbamento. Appoggiò il mantello. “Forse è
meglio che vada,” mormorò.
Kellermann non aprì bocca.
§
Albrecht gettò uno sguardo –
l’ennesimo – alla tela, dalla quale il giovane cavaliere in armi
lo fissava. Gli parve che quello sguardo adamantino avesse assunto
una connotazione di muto rimprovero, di disapprovazione.
Emise un sospiro. Aveva fatto di
tutto per nascondere certi sentimenti, eppure nell’ultima seduta
era stato a tanto così dal posare le proprie labbra su quelle del
ragazzo.
Era come se una vertigine si
fosse impadronita di lui, come se una forza estranea l’avesse
spinto ad alzarsi, a raggiungere il ragazzo e a…
Non riusciva nemmeno a formulare
il pensiero, ogni volta che rievocava quel momento il cuore gli
balzava nel petto e un tremito febbrile si impadroniva di lui.
Si chiese quanto mancasse alla
partenza del ragazzo: settimane? Giorni? Da una parte anelava a
quella data fatidica, dall’altra la attendeva come una condanna a
morte.
“Presto se ne andrà,” si
disse, con un tono che voleva essere rassicurante, ma somigliava più
che altro a un lamento. “Presto non saprai più nulla di lui.”
Sollevò lo sguardo sul quadro:
ormai mancavano gli ultimi ritocchi e poi l’avrebbe consegnato. Non
l’avrebbe più visto nemmeno lì.
L’avrebbe sperabilmente
dimenticato, e poi sarebbe tornato alla sua vita normale.
Sentì la porta dello studio
aprirsi, si sporse per vedere chi stava entrando e il cuore gli mancò
un battito. “Erich!” esclamò.
Il ragazzo avanzò adagio, si
fermò a qualche passo di distanza. “So che non dovrei essere qui,
signore,” mormorò, “ma...”
Abbassò lo sguardo.
Kellermann deglutì. Gli era
chiaro che avrebbe dovuto rimandarlo via, magari facendogli
recapitare un compenso per tutte quelle sedute di posa, eppure non si
risolveva a farlo.
“Venite… vieni qui,” udì
invece se stesso balbettare.
Il ragazzo sembrava non aspettare
altro. Sorrise appena, poi si mosse verso di lui.
Il pittore gli fece cenno di
avvicinarsi ancora e disse: “Forse… vuoi vedere il quadro?”
“Sarebbe la prima volta,” gli
rispose Dierschke. Di nuovo si fissarono negli occhi, Albrecht si
trovò a deglutire con il cuore che gli batteva all’impazzata. Si
fece indietro per permettere al ragazzo di aggirare la tela.
Egli lo raggiunse. Si trovarono
spalla a spalla a contemplare il giovane cavaliere in armi. “Io
sono così?” mormorò il soldato. Sollevò lo sguardo a fissarlo.
Il pittore lo osservò: la luce
chiara lo investiva in pieno, incidendo nel marmo i suoi tratti,
rendendo i suoi occhi laghi trasparenti. In un sospiro rispose: “Sei
molto meglio, ma sono solo un uomo, non Dio, e non sono riuscito a
fare di più.”
Sollevò esitante una mano e gli
sfiorò una guancia con la punta delle dita.
Un istante dopo, quella lieve
carezza si trasformò in un abbraccio. Le labbra cercarono avide le
labbra, i due si trovarono a scambiarsi baci sempre più profondi e
ardenti.
“Di qua...” ansimò Albrecht
quando il reciproco desiderio divenne troppo forte da sopportare.
Condusse il giovane in un angolo dello studio, dove c’era
un’ottomana coperta da un drappo di seta. Vi crollarono sopra
ancora avvinghiati, con i respiri ansanti e i cuori che battevano
follemente.
I baci si fecero più urgenti,
gli abiti caddero gli uni sopra gli altri. Il contatto dei due corpi
nudi fu per entrambi un brivido folle, un’estasi ultraterrena.
“Non dovremmo...” mormorò il
giovane, ma la frase morì tra le labbra dell’uomo mentre tutto il
resto cessava di esistere.
Fu solo molto dopo che tornarono
alla realtà. La luce adamantina era scemata, il rombo del sangue in
tumulto aveva ceduto il posto a un silenzio greve.
Erich si alzò a sedere, si
guardò intorno alla ricerca dei suoi indumenti. “Perdonatemi,”
disse.
“Per cosa?” giunse la replica
dell’uomo.
Senza voltarsi, egli rispose:
“Per non essere stato capace di resistere. Ora sarà tutto molto
più difficile.”
Anche Albrecht si rizzò a
sedere. La sua voce aveva un tono triste quando chiese: “Che cosa
intendi?”
“Che io… che forse sarebbe
stato meglio non vedersi più. Magari sarei partito, mi sarei
dimenticato di voi, e voi di me.” Fece una pausa, deglutì per
evitare che gli tremasse la voce, quindi proseguì: “Mentre ora…”
Ma dovette interrompersi. Strinse le labbra. “Maledizione,”
sibilò. Si alzò, cominciò a raccogliere i vestiti. Sentiva la
presenza dell’uomo alle sue spalle, ma non aveva il coraggio di
voltarsi. Se l’avesse fatto, forse non sarebbe più riuscito ad
andarsene, mentre così… così forse aveva un’ultima possibilità
di tornare a casa, dai suoi, e ricominciare la vita da dove l’aveva
interrotta per fare il servizio militare. Caparbiamente cercò di
concentrarsi su quello: i suoi fratelli, il podere da coltivare, la
fidanzata…
La fidanzata.
Infilò i pantaloni alla meglio,
si mise gli stivali, si buttò sulle spalle la giacca e uscì di
corsa.
§
“Cos’è quella faccia?”
chiese Escher. “Tutti ti stanno facendo i complimenti per il tuo
quadro e tu sembri a un funerale.”
Un altro degli amici a bassa voce
intervenne: “Niente poppe, eppure è un successo.” Fece una
risatina.
Kellermann si limitò ad alzare
le spalle. Sorrise all’ennesima persona che si congratulava per la
Giovane Germania e si aggiustò il panciotto dell’abito da
cerimonia. “Quando finisce?” brontolò.
“Non fare lo snob,” lo
rimbeccò Escher. “Finisce quando finisce. Ora il borgomastro farà
un discorso, suoneranno l’inno imperiale e ci sarà il rinfresco e
tu te ne starai buono buono a rispondere a tutti quelli che ti
faranno domande sul tuo capolavoro.”
“Bah, capolavoro,” borbottò
Kellermann, e pensò che l’unico vero capolavoro in quel momento
era su un treno diretto verso la Prussia Orientale e lui non
l’avrebbe rivisto mai più.
Di nuovo s’inchinò ai
complimenti di una signora sussiegosa, poi si allontanò di qualche
passo dalla tela. Non riusciva nemmeno a guardarla, perché ogni
volta che ce l’aveva sott’occhio, la nostalgia di Erich lo
trafiggeva come una pugnalata. Volse lo sguardo oltre la porta
finestra, desiderando di estraniarsi da quella folla chiassosa, i cui
giudizi sul suo quadro, per quanto tutti positivi, dimostravano
chiaramente che nessuno aveva capito il vero spirito con cui esso era
stato realizzato.
C'era chi si dilungava sul
realismo delle figure, chi sulla scelta delle immagini allegoriche.
Qualcuno addirittura lodava l'aquila o il cavallo, oppure si stupiva
della pazienza con cui le foglie di quercia erano state realizzate
una per una
Il cavaliere, certo, piaceva. Era
un bel soggetto, obiettivamente eseguito in modo impeccabile. Il suo
portamento era solenne, il sguardo serio passava oltre lo spettatore,
come se fosse assorto in pensieri che non avevano nulla a che fare
con la volgarità del quotidiano. Dava un'idea di nobiltà, di
tranquilla forza. Di tensione verso l'ideale.
Emise un sospiro, quell'immagine
non era che un pallido riflesso di Erich.
Raggiunse il vetro freddo, vi
appoggiò la fronte e a quel punto colse nel cortile una macchia blu
che si muoveva.
Il cuore gli balzò nel petto:
c’era un soldato.
Tutto il resto perse
d’importanza. Pur dandosi dello stupido, pur ripetendosi che la
città era piena di soldati, non poté fare a meno di spalancare i
vetri. L’improvviso rumore fece sussultare più d’una persona.
Il soldato che camminava in
cortile si voltò, ed egli si trovò a contemplare occhi tra il
grigio e l’azzurro, trasparenti come laghi.
[1] Inno della Germania
Imperiale.
|