Scritta per il
contest "In every other universe" indetto da Fiore di Cenere sul forum
di EFP
Numeri
magici/prompt
8: opera d'arte
3: "Abbiamo paura
perché teniamo alle cose. Abbiamo paura di perdere le
persone perché le amiamo, paura di morire perché
diamo valore alla vita. Non augurarti di non avere mai paura di nulla,
vorrebbe solo dire che non stai sentendo nulla"
83: una coppia si reincontra
dopo essersi separata per cause di forza molto maggiore, dopo aver
passato un periodo difficile a causa della separazione. Al momento del
reincontro scelta libera se farli tonare insieme o meno
Le spiegazioni su
tutti gli eventi/riferimenti un po' specifici sono nelle note
dell'autrice, quindi non preoccupatevi se non siete molto ferrati in
storia. Tanto anche io metà delle cose che sono qui me le
sono dovute trovare su internet per cercare di fare le cose un po'
accurate.
.
.
.
Lontani
ma vicini
Eppure, nonostante tutto, solo
noi sappiamo essere così lontanamente insieme.
(Julio Cortázar)
Distanza significa
così poco quando qualcuno significa così tanto
(Anonimo)
Lui
era originario della prefettura di Saitama, ed aveva
intrapreso un’odissea fatta di mezzi pubblici assolutamente
disfunzionali per
arrivare a Tokyo entro la fine del mese. Se lei gli chiedeva come mai
si fosse
ostinato a diventare matto con tutta quella strada, visto che gli
uffici
c’erano anche a Omiya*,
le veniva sempre risposto così: “Tanto mi
avrebbero
stanziato a Tokyo lo stesso. E poi venire nella capitale mi ha fatto
incontrare
te.” La cosa in effetti era vera. Era stata possibile proprio
grazie alla leva
militare che chiamava alle armi tutti i giovani giapponesi.
Kyoka
era con Momo quel giorno e stava consolando l’amica,
perché a suo marito Shouto era giunta da poco la
comunicazione di trasferimento
in Manciuria per la guerra contro i cinesi*.
Era febbraio del 1938, allora, e
Shouto sarebbe tornato solo due anni più tardi con una gamba
in meno e decine
di ustioni in più sul corpo, in abbinamento a quella che gli
deturpava il lato
sinistro del volto sin da quando era piccolo.
Mentre
la ragazza abbracciava l’amica fuori dalla caserma
dove Todoroki era appena entrato, aveva notato uscire tre giovani
reclute.
Dovevano avere pressappoco la sua età, non dimostravano
più di vent’anni.
Quello in centro aveva vivaci capelli rossi sparati in aria, mentre gli
altri
due erano biondi. Il soldato a sinistra sembrava più un
teppista che un vero e
proprio militare, con un cipiglio minaccioso e una postura che urlava
ai
quattro venti “Sono pronto a qualsiasi attacco, fatevi pure
sotto!”. L’altro
biondo appariva più rilassato e sfoggiava un sorriso a
trentadue denti a
chiunque incrociasse il suo cammino lì
all’ingresso. Emanava un’aura di
gentilezza intorno a sé, cosa che con
quell’uniforme addosso lo faceva sembrare
quasi sbagliato.
Kyoka
li aveva seguiti con lo sguardo mentre si avviavano
verso il centro della città. Per un fugace istante aveva
incrociato le sue
pupille con quelle dorate del soldato gentile e un brivido inspiegabile
le
aveva percorso la schiena.
Lo
aveva rivisto quel pomeriggio, solamente poche ore più
tardi. Come fosse possibile che, tra centinaia di migliaia di persone,
potesse
ritrovare per caso nello stesso locale qualcuno che aveva osservato di
sfuggita
per un paio di secondi, non se ne capacitava pure lei. Insieme a Momo
aveva
raggiunto le altre ragazze per una passeggiata per le vie della
città, con la
speranza di sollevare almeno un poco il morale della prima. Era
talmente
distrutta che, in barba alle rigide regole da signorina di buona
famiglia con
cui era cresciuta, non si preoccupava nemmeno di nascondere il suo
pianto agli
estranei.
L’unica
che riuscì a consolarla un poco fu Ochaco: non era
in una situazione molto diversa dalla corvina. Era innamorata da anni
del suo
amico Izuku, una zazzera di capelli scuri e una corporatura gracilina,
ma alcuni
mesi prima aveva scelto di reprimere i suoi sentimenti e lasciarlo
partire per
il fronte sul Pacifico. Non c’era giorno che non si pentisse
di quella
decisione e tutto quel rimorso aveva ripercussioni anche sul suo fisico
esausto
e smagrito. In fin dei conti, quell’uscita al femminile
serviva ad aiutare
anche lei.
Quando
il freddo si era fatto ancora più pungente, di comune
accordo avevano optato per un tè bollente in una locanda. Il
tavolo a cui erano
seduti i tre militari della caserma aveva attirato la sua attenzione
per il
chiasso dei loro schiamazzi. Era strano che i camerieri non li avessero
già
cacciati, forse erano intimoriti dalla divisa.
–
No, non è possibile! – aveva esclamato Mina a un
certo
punto. Un sorriso le era spuntato sulle labbra e si era alzata di
scatto. – Ma
quello è… è proprio Kirishima!
Si
era fiondata verso il tavolo dei tre soldati e aveva
soffocato in un abbraccio il tizio coi capelli rossi. Era venuto fuori
che
Eijirou Kirishima aveva frequentato la stessa classe del fratello di
Mina ed
era un buon amico di lunga data anche della minore degli Ashido. Si
erano messi
a chiacchierare del più e del meno e nella loro
conversazione avevano coinvolto
anche i rispettivi amici. Kyoka aveva scoperto che il biondo gentile si
chiamava Denki Kaminari, mentre l’altro era Katsuki Bakugou
(e che, per non si
sa quale ragione, conosceva e ce l’aveva a morte con Izuku).
Con
Denki si poteva discorrere di qualsiasi cosa, vista la
sua loquacità, e la ragazza si sorprese di come la sua
barriera di timidezza si
fosse dissipata così in fretta con una persona che aveva
incontrato da poche
ore. Quando si offrirono di accompagnarle a casa, il sole era sparito
dietro
l’orizzonte da un bel po’; forse i suoi genitori
non l’avrebbero presa molto
bene, ma per un pomeriggio così Kyoka pensò che
qualche occhiataccia di fuoco e
un paio di rimproveri ne sarebbero valsi la pena.
Il
gelido inverno lasciò spazio ai ciliegi in fiore, alle
gemme che sbocciavano nei parchi e all’annuncio che il
Giappone aveva firmato
un accordo economico per rafforzare i suoi rapporti con
l’alleato italiano*.
Le
guerre con la Cina e la Russia continuavano all’infinito,
voci dicevano che il
conflitto era davvero duro e la giovane temeva per la vita di Shouto e
Izuku. E
per gli effetti che una loro eventuale morte avrebbero potuto avere
sulle sue
amiche.
Le
chiacchierate tra Denki e Kyoka aumentarono via via
sempre di più, e cominciarono a vedersi anche senza i
rispettivi gruppi. Il
biondo aveva cominciato il suo addestramento da recluta a marzo,
perciò non era
molto il tempo che
poteva trascorrere
fuori dalla caserma: le truppe da inviare al fronte non erano mai
sufficienti,
secondo chi stava al potere. Ma il giovane militare faceva il possibile
per passare
con la sua amata ogni secondo a disposizione.
Era
ormai estate quando si scambiarono il loro primo bacio.
Fregandosene delle convezioni e del buon costume, i due ragazzi erano
seduti su
una panchina nel parco Ueno. La stagione del cosiddetto “hanami” – la
tradizione di ammirare i ciliegi fioriti – era
terminata da un pezzo, tuttavia Jirou voleva far visitare al biondo uno
dei
parchi più belli e famosi dell’intera
città. E quale occasione era migliore di
una giornata soleggiata come quella?
Ueno
era un gioiello, uno dei grandi polmoni verdi di Tokyo.
Ospitava parecchie strutture adibite alla cultura e alle arti, e a lei
piaceva
pensare che avessero scelto quel luogo come sede dei principali musei
proprio
perché il parco era già una bellezza in
sé, un’opera d’arte pura e semplice ma
non per questo meno magnifica di altre. Quando esternò il
pensiero al suo
amato, Denki la guardò con il sorriso più radioso
e sereno che l’universo
avrebbe mai potuto vedere.
–
Mi piacciono le opere d’arte pure e semplici –
disse,
riprendendo le parole di lei. – Proprio per questo sono
sempre quelle più
magnifiche delle altre. – e poi l’aveva baciata.
Il
tocco delle sue labbra su quelle di Jirou era stato
gentile e molto, molto dolce. Si era inclinato col busto verso di lei,
lentamente per darle tutto il tempo di fermarlo se lei avesse voluto
tirarsi
indietro. Ma Kyoka non lo fece; al contrario, si sciolse in quel
contatto
assaporandone ogni singolo istante. Il cuore andava a mille, era come
ricevere
costanti scariche elettriche attraverso la pelle della mano che Denki
teneva
tra le sue.
–
Sei tu l’opera d’arte –
mormorò il ragazzo separandosi
dalla bocca di lei.
In
tutti quei mesi, la violetta non aveva mai smesso di
sorprendersi dell’effetto che quel soldato biondo le faceva.
Normalmente si
sarebbe messa a ridere – una risata carica di sarcasmo e
disillusione – e
avrebbe cercato una risposta tagliente per chiudere lì la
conversazione e
cambiare argomento, dopotutto quello era stato il suo atteggiamento per
vent’anni di seguito. Quella volta, invece,
avvampò fino alle orecchie e scostò
di poco il viso, nella speranza di nascondere il timido sorriso felice
che le
aveva disteso i lineamenti.
---
Kyoka
ebbe fortuna. Aveva smesso da un bel po’ di credere
che le preghiere al tempio funzionassero sul serio, perciò
quella era essenzialmente
fortuna. Niente di più.
L’Occidente
era nel più completo caos da quando Hitler aveva
invaso la Polonia, nel settembre dell’anno precedente, e la
situazione si era
fatta ancora più disastrata adesso che i quotidiani
riportavano la resa della Francia.
Le sue colonie erano sguarnite ora che l’autorità
centrale era capitolata, si
leggeva, e questo voleva dire che l’Impero poteva espandersi
laddove aveva
sempre avuto intenzione.
La
ragazza era cresciuta sin dalla tenera età con questo
ideale di espansionismo nazionalista, perciò non ci vedeva
nulla di male.
Quelle terre erano necessarie alla nazione per prosperare, recitava la
propaganda, e lei pensava che fossero meglio sotto il dominio del Sol
Levante
piuttosto che in mano a quegli avvoltoi americani. La cose che non le
piaceva,
però, era tutta quella mobilitazione di giovani che nella
maggior parte dei
casi morivano per la loro patria tra atroci dolori. Carne fresca
mandata al
macello, aveva detto una volta qualcuno. E i suoi amici arruolati non
erano
nemmeno i più giovani.
Però,
in quel novembre 1940, la buona sorte sembrò averla
presa in simpatia, su tutti i fronti. Forse, nonostante
l’inferno che era il
mondo in quel momento, la vita poteva comunque sorridere a lei e ai
suoi amici.
Shouto
tornò a casa coperto d’onore, nonostante ci avesse
rimesso una gamba aveva realizzato il desiderio suo e di suo padre
diventando
uno dei combattenti più forti e coraggiosi
dell’intera milizia. Momo era
scoppiata di gioia quando aveva riabbracciato suo marito, incredula,
felice e
sconvolta allo stesso tempo.
Izuku
era rientrato in patria per la cerimonia di consegna
di una medaglia al valore e per formalizzare la sua promozione in
grado,
avvenuta durante le missioni nel Sud. Aveva ritrovato Ochaco, e destino
voleva
che i sentimenti della piccola castana erano più che
ricambiati: tempo due
settimane e i ragazzi avevano avviato un bel giro di scommesse sul
“quanto
impiegherà Deku per chiederle di sposarlo?”
Katsuki
si vedeva con una bionda trasferitasi dalle regioni
occidentali del Paese. Era difficile stabilirlo con certezza
perché ad ogni
domanda rispondeva con un ringhio o una minaccia di morte, ma il
sospetto di
tutti era che lui e questa misteriosa Camie avessero tutta intenzione
di fare
coppia fissa.
Eijirou
e Mina si erano fidanzati qualche mese dopo Kyoka e
Denki. Il loro progetto di convolare a nozze entro la fine
dell’anno si avverò
quando, poche settimane più tardi, il gruppo di amici
– che si era ampliato con
Sero Hanta, un corvino alto e smilzo entrato nella divisione dei
ragazzi –
presenziò ad una cerimonia spartana ma molto toccante.
Per
quanto riguardava loro due, Jirou e Kaminari non
potevano desiderare di più. Volevano procedere a piccoli
passi, insieme. Mentre
era stesa nel suo futon abbracciata al ragazzo, i corpi nudi avvolti
nelle
lenzuola dopo aver fatto l’amore, continuava a pensare a
quanto fossero stati
tutti fortunati: a differenza di altre centinaia di persone, non si
trovavano
in stazione, al porto o davanti alla caserma a salutare i loro cari che
partivano per il nuovo fronte. Lei e le sue amiche potevano ancora
godere del
tepore del loro amato accanto a loro, delle sue forti braccia avvolte
intorno
al loro corpo con fare protettivo.
Il
pensiero di condividere da sola quel letto, al freddo, la
fece rabbrividire. Senza accorgersene si strinse ancor di
più al petto di
Denki, una mano a percepire il calore della sua pelle e
l’orecchio contro lo
sterno ad ascoltare il battito del cuore.
–
Ehi, Kyo… – un sussurro assonnato e pigro. Non
credeva che
il soldato fosse ancora sveglio. – Non riesci a dormire?
–
Va… va tutto bene, tranquillo. Dormi, dai. – la
frase le
uscì più forzata di quanto avesse voluto,
difficilmente l’avrebbe convinto.
E
infatti il ragazzo non l’ascoltò. Le
accarezzò la schiena,
seguendo piano quelle curve un po’ acerbe che lui amava tanto
mentre con
l’altra mano le cinse le spalle e la tirò
maggiormente verso di sé. Le passò le
dita tra le ciocche violette un po’ arruffate e le
depositò un amorevole bacio
sulla fronte. – Non tenerti dentro ciò che ti
turba, fai solo peggio. Se hai
bisogno di me, io sono qui.
Kyoka
si accorse di star piangendo solo quando Denki le
asciugò le guance col pollice. Un singhiozzo la fece tremare
dalla testa ai
piedi; non si era mai sentita così vulnerabile e fragile. E
non le importava
neanche un po’ di aver perso quella maschera scostante e
cinica che in
vent’anni di vita era stata la sua protezione contro il mondo.
–
Ho paura – soffocò un singulto. – Shouto
è stato in Cina
per due anni e hai visto com’è tornato. Se anche
tu partissi, ho paura che ti
possa accadere la stessa cosa. O magari di peggio…
–
Tranquilla, cercherò di stare attento. – lei non
poteva
vedere, ma le labbra del ragazzo erano distese in un sorriso un
po’ tirato.
–
Anche quelli che non tornano più lo dicono, che faranno
attenzione. – mormorò, mentre allacciava le
braccia intorno al busto del
giovane. – Scusa, so che può sembrare stupido,
eppure non riesco a fare a meno
di preoccuparmi.
Il
fidanzato si abbassò verso di lei a darle un bacio sullo
zigomo. – Non so se o quando partirò, ma ti posso
assicurare che voglio
cambiare in meglio, come un guerriero pieno d’onore.
– Un altro bacio, stavolta
sulla guancia. – Voglio essere il tuo eroe che non ha paura
di niente, quello
che non scappa di fronte a nessuno pur di difenderti. – Bacio
sul naso. – E
voglio trasmettere anche a te questo sentimento, per soppiantare
l’infida
paura. – Le sue labbra incontrarono infine quelle della
violetta.
Kyoka
non rispose con trasporto al bacio, ancora turbata. –
“Abbiamo paura perché teniamo alle cose.
Abbiamo paura di perdere le persone perché le amiamo, paura
di morire perché
diamo valore alla vita. Non augurarti di non avere mai paura di nulla,
vorrebbe
solo dire che non
stai sentendo nulla”.
Mia nonna diceva sempre così, quando parlava con mio nonno e
mio padre della
guerra contro i russi.
Poggiò
la fronte nell’incavo della spalla del biondo e la
frase successiva le uscì in un sussurro. – Non
voglio un eroe impavido e
temerario. Per me tu sei già il mio guerriero
così come sei, va bene? Sei quel
ragazzo gentile di cui mi sono innamorata, non il feroce combattente
che non
prova nulla.
Denki
rimase a lungo in silenzio, tanto che la violetta
credette si fosse riaddormentato. Non si aspettava un bisbiglio
così all’improvviso
e per questo sobbalzò quando il ragazzo prese a parlare.
– Non volevo
spaventarti, scusa. – ridacchiò. – Ti
amo tanto, Kyo, e sai che ti darei il
mondo se solo tu volessi. Io… io ti prometto che
farò tutto ciò che posso per
non farmi cambiare dalla guerra. Voglio che tu sia felice con me, e non
voglio
cambiare se questo ti fa stare male!
La
baciò un’altra volta. Jirou si
abbandonò al contatto; in
un certo senso sentiva che la sensazione di angoscia si era attenuata,
sebbene
non del tutto. Non capiva molto bene neanche lei. Era contenta per le
parole di
Kaminari e allo stesso tempo la preoccupazione continuava ad incombere
su di
lei. Quando il ragazzo scese a baciarle il collo, Kyoka
mandò tutto al diavolo
e, almeno per quella notte, si impose di non pensarci più.
---
Passò
quasi un altro anno prima che l’universo decidesse che
era tutto troppo bello ed era arrivato il momento di andare a rotoli.
Nel
dicembre 1941 arrivò il comunicato ufficiale che, dopo
l’attacco a sorpresa
alla baia americana di Pearl Harbor, il Giappone era in guerra contro
gli Stati
Uniti – da sempre avversari dell’Impero per la
conquista del Pacifico –, la
Russia e l’Inghilterra. Il nuovo fronte del combattimento era
quello vecchio:
il Sud-Est del continente.
Izuku
dovette ripartire, di nuovo. Le sue truppe erano di
stanza in quelle zone, dopo tutto, e adesso che era un ufficiale la sua
presenza era ritenuta indispensabile. Lui e Ochaco erano diventati
marito e
moglie soltanto nella primavera di quell’anno (con somma
gioia del vincitore
Iida – un loro amico di lunga data che lavorava nel settore
amministrativo). Al
momento della partenza non lo sapeva nessuno, nemmeno i diretti
interessati,
che aspettavano un bambino. Deku non lo conobbe mai. Morì
sotto il fuoco nemico
nel giugno 1942, mentre copriva le spalle ai suoi uomini durante una
ritirata
strategica. Persino Katsuki rimase sconvolto dalla sua perdita. Ochaco
ne fu
devastata, ma si risollevò ben presto: non poteva lasciarsi
andare, non ora che
doveva pensare anche a loro figlio. L’avrebbe fatto per tutti
e due.
Il
matrimonio di Denki e Kyoka era avvenuto solo un mese
prima del tragico evento nella famiglia Midoriya. Ogni qualvolta la
violetta ci
ripensasse, un’onda di tristezza e senso di colpa la
invadeva: loro avevano
festeggiato, mentre Izuku passava chissà quali pene
dell’inferno.
La
loro vita da coppia felice fu effimera, anche dopo il
lutto di Izuku. D’altronde, il conto alla rovescia per un
comunicato di
mobilitazione gravava su di loro sin dal bombardamento nelle Hawaii. E
infatti
il trasferimento della divisione di Kaminari, Kirishima, Sero e Bakugou
giunse
a fine anno. La guerra non procedeva bene e serviva tutto il personale
disponibile. La comunicazione arrivò anche a reclute entrate
in squadra da
nemmeno un mese. Il governo necessitava di una quantità
sempre maggiore di
carne fresca da mandare al macello per rendere gloriosa la nazione, o
almeno
Kyoka la vedeva così.
Quando
osservò la sagoma di suo marito mentre varcava la
soglia della caserma, i contorni che si facevano sfocati per via delle
copiose
lacrime, capì benissimo come si era dovuta sentire Momo in
quel febbraio del
’38 che adesso pareva lontano secoli. Era disperata. Non
voleva lasciarlo
partire, ma non poteva neanche fermarlo, o lo avrebbero accusato di
renitenza
alla leva e sarebbero finiti entrambi nei guai. Si chiedeva
perché tra milioni
di soldati avessero dovuto scegliere proprio lui, perché non
qualcun altro. Che
cosa avrebbe affrontato? Ce l’avrebbe fatta, vero?
C’erano
le altre ragazze e i loro amici a consolare lei,
Mina, Camie e quella che era la fidanzata di Sero, Setsuna Tokage. Il
pensiero
che tutte e quattro usavano per darsi forza era che comunque i loro
amati non
erano da soli: si sarebbero guardati le spalle a vicenda, o almeno
avrebbero tentato.
Non erano del tutto abbandonati a loro stessi un luogo a loro ostile.
Era
una congettura assurda – del resto, che ne sapeva lei di
com’era in realtà il fronte a sud? – ma
se serviva a non farla sprofondare
nella più cupa disperazione, perché convincersi
del contrario?
Lei
e Denki presero a scambiarsi lettere. Non erano molte,
ma compensavano in lunghezza. A volte la ragazza arrivava a scrivere
anche
quattro o cinque fogli, in una calligrafia fitta e un po’
storta. Erano tante
le cose da raccontare. Certo, Kyoka stava sempre attenta a quello che
metteva
giù: l’autorità militare non permetteva
molto di dissentire con le sue
decisioni e voci di quartiere dicevano che le lettere in entrata e in
uscita
dal confine venivano sempre ispezionate.*
Anche
il soldato doveva esserne a conoscenza. Non spiegava
mai nel dettaglio tutte le vicende di guerriglia. La informava di come
stavano
gli altri – Eijirou si era ripreso da una ferita alla spalla,
Katsuki aveva
perso due dita in uno scontro, Hanta era vivo e vegeto – e
descriveva
l’ambiente esotico delle isole nel Pacifico, aggiungendo a
volte qualche
disegno stilizzato di animali o piante. La violetta, di rimando, lo
aggiornava
sulle ultime novità. Ochaco aveva dato alla luce un bel
maschietto, Momo e
Shouto aspettavano a loro volta ed era probabile che fossero dei
gemelli, Tenya
aveva conosciuto una matta di nome Mei che voleva diventare
un’ingegnera e
mandare al diavolo il prepotente patriarcato del mondo scientifico.
Kyoka
cercava di non concentrarsi mai troppo sulla distanza
che li separava. Se ci rifletteva a lungo, sentiva salire prorompente
la
nostalgia, un senso di malinconia che le serrava la gola e faceva male
al
cuore. Si accorse che neppure suo marito le scriveva decine e decine di
frasi
d’amore. Era sempre stato il più romantico tra i
due, ma la lontananza rendeva
dolorosi i dolci di loro insieme. I “ti amo” da
parte di entrambi non
mancavano, ma la giovane sospettava che anche a lui causasse tristezza
scriverli sulla carta inerte piuttosto che esprimerli a voce.
Tuttavia,
censurare le lettere per nascondere la verità era inutile.
Non
serviva un genio per intuire che la guerra stesse risultando in una
gigantesca
catastrofe. L’età di arruolamento si era abbassata
ancora. Era orribile
osservare dei ragazzini neanche maggiorenni marciare compatti, con
un’espressione feroce in volto e un fucile troppo grande per
loro in spalla.
Dall’anno prima, inoltre, i cittadini erano costretti a
rintanarsi sotto terra come topi
per sfuggire ai bombardamenti degli USA. La città veniva a
poco a poco divorata
dal fuoco, macerie ed esplosioni mietevano decine e decine di abitanti
innocenti – e ormai non faceva più alcun effetto a
nessuno notare dei cadaveri
carbonizzati sul ciglio della strada.*
L’Italia
aveva abbandonato il Patto Tripartito*
e si era
schierata al fianco dei nemici americani e russi. I nazisti erano nei
guai sul
fronte orientale: da quel poco che riportavano giornali e radio, non
riuscivano
a conquistare una capitale sovietica che Kyoka non aveva mai sentito
nominare.
I
pareri sul conflitto erano contrastanti: tanti erano stufi
e volevano solo che finisse tutto quanto, ma altrettanti si
incaponivano nel
continuare quella lotta fin quando gli avversari non sarebbero stati
annientati. Distrutti, ridotti a zero. Il Giappone avrebbe dovuto
tenere nelle
sue mani l’intera zona a meridione.
Una
mattina le ragazze si erano incontrate a casa di Mina.
Vedersi normalmente, come se da un momento all’altro non
potesse suonare
l’allarme antiaereo, aiutava a mantenere la sanità
mentale in quello scheletro
grigio e rovinoso che una volta era Tokyo. Era un modo per allontanare
il
pensiero dai cari impegnati in prima linea. Se non ci fossero state
quelle
riunioni abitudinarie, molto probabilmente la violetta sarebbe
impazzita per il
continuo riflettere sugli orrori che Denki stava vivendo lontano. Una
vocina
maligna le ricordava che lui se la stava affrontando molto peggio delle
“sole”
bombe al napalm.
Quel
giorno, si ritrovarono per caso a sfogliare un
quotidiano. Kyoka si sorprese nel leggere la data: 20 luglio 1944.
Davvero
erano tutti sopravvissuti così a lungo, sia loro in
città che i loro amici
soldati? Ne era felice, eppure non riusciva a sorridere.
L’anno e mezzo
trascorso dalla partenza di Denki le sembrava come
cinquant’anni. E sentiva che
gravavano tutti sulla sua schiena, un macigno immenso che la stava
fiaccando,
troppo pensante per la sua anima indebolita.
Il
macigno la schiacciò irrimediabilmente soltanto sette
mesi più tardi. Nella sua vita spezzata non c’era
qualcosa di nuovo che potesse
rimettere insieme i frammenti e farla rialzare, a differenza di
com’era
accaduto a Ochaco. Lasciò andare quell’appiglio
sul baratro della disperazione,
quello con cui si era tenuta coi denti e con le unghie per tutti gli
anni
precedenti.
–
È lei la signora Kaminari Kyoka? –
l’ufficiale davanti alla
porta d’ingresso aveva un’espressione dura e seria
e parlava con un tono
altrettanto burbero. La ragazza riuscì solo ad annuire alla
domanda.
L’uomo
strinse le labbra in una linea fine, in una reazione
che lei non riuscì bene a decifrare. Era dispiaciuto oppure
quella che provava
era solo rabbia? Non le diede il tempo di rifletterci su,
perché con un
movimento secco – quasi fosse un gesto meccanico che gli dava
noia – si piegò
in un formale inchino.
–
Mi dispiace, signora. Suo marito è stato identificato come
uno dei caduti dell’ultimo attacco.
Kyoka
non seppe se dopo quella frase aggiunse altro o meno,
perché d’improvviso non sentì
più nulla. Il sangue le rombò così
forte nelle
orecchie da coprire ogni altro suono, il cuore accelerò i
battiti oltre ogni
misura, i contorni di ogni cosa si fecero sfocati e tutto prese a
vorticarle
intorno. Forse stava inspirando ed espirando con troppa
velocità, ma i polmoni
non assorbivano abbastanza ossigeno e lei si sentiva soffocare.
Non
ricordò nemmeno cosa disse al militare per congedarlo,
probabile che non avesse spiccicato parola e gli avesse direttamente
chiuso la
porta in faccia. Quando riacquistò consapevolezza di se
stessa, era già seduta
sul pavimento, la schiena contro il legno dell’uscio, a
piangere e gridare
senza freni. Forse il soldato bussò di nuovo e la
chiamò preoccupato, ma Kyoka
non se ne rese neanche conto. Voleva starsene da sola con il suo dolore e basta.
Pianse
fino a non avere più lacrime. Pianse giorno e notte,
riversando in quelle piccole goccioline salate tutto il suo strazio, il
suo
odio verso quella maledetta guerra, verso quelli che si ostinavano a
continuarla, verso di sé perché aveva lasciato
partire Denki, verso Denki
perché l’aveva abbandonata nonostante le sue
promesse. Quando smise di
piangere, lì dove prima c’era il suo cuore ferito
rimase solo un guscio vuoto.
Sarebbe
rimasta lì rannicchiata alla mercé delle bombe
americane se Momo e Tenya non fossero entrati di prepotenza in casa e
l’avessero trascinata di corsa in uno dei rifugi. Iida la
trasportò come si
porta in giro una bambola; qualcosa di piccolo e leggero ed
estremamente
fragile, ma privo di vita. Non si preoccupò nemmeno delle
crepe che
scheggiarono le pareti o della polvere che cadde dal soffitto ogni
volta che un
ordigno colpiva il suolo nei pressi del loro nascondiglio. Non
badò ai sussurri
terrorizzati dei suoi amici e ai loro commenti sullo sbarco americano
nell’isola di Iwo Jima*.
Non si curò di quelli che dicevano che la guerra poteva
essere ancora vinta, in fondo le forze del Sol Levante si stavano
opponendo
agli invasori fino all’ultimo uomo.
A
Kyoka non interessava. Per lei la guerra era già stata
persa quando quell’ufficiale si era inchinato davanti a lei e
le aveva
annunciato che Denki era morto.
---
Di
norma, quasi nessuno dei caduti veniva sepolto in patria,
a meno che non si trattasse di qualche importante gerarca. Durante una
guerra
era impensabile impiegare fondi e mezzi preziosi per far tornare
indietro
decine di feretri in un’operazione che non avrebbe portato
alcun vantaggio sul
nemico. Kyoka ricordava i racconti di Shouto sulle fosse comuni in
Manciuria:
rispettavano la tradizione di collocare i morti in un luogo elevato
tipo una
collina, ma si trattava comunque di un buco in cui la cenere si
mischiava ad
altra cenere e nessuno conservava il proprio nome.*
Denki
aveva evitato questo destino. Stando a quanto Eijirou
aveva scritto in una lettera a Mina, Bakugou aveva convinto uno degli
alti
comandanti che gli doveva la vita o qualcosa del genere. Non era stato
molto
chiaro, ma sembrava che quel tizio avesse portato a casa la pelle
più di una
volta solo con l’aiuto di Katsuki e fosse in debito con lui.
Per
la situazione disastrata in cui versava il Paese, le
ceneri di suo marito avevano impiegato mesi per tornare
dall’Indocina all’isola
di Honshu. La tomba della famiglia Kaminari*
era situata nella loro città
d’origine, Omiya, e sarebbe stato sepolto senza il comune
rito buddista – pochi
ormai se lo potevano permettere e comunque il corpo era già
stato cremato,
saltando le prime due fasi. Per quanto gli altri la stessero
scoraggiando ad
intraprendere un viaggio così rischioso, Kyoka era
determinata a recarvisi e dire
addio al suo amato per l’ultima volta. Quando si
congedò dagli amici di una
vita, i saluti sembravano avere un che di definitivo, quasi li stesse
lasciando
per andare anche lei al fronte.
Anche
se ormai recarsi in prima linea equivaleva a
“cadavere”: l’esercito era disperato,
incapace di fermare le navi e i caccia
americani che si avvicinavano sempre di più alla capitale.
In primavera le
truppe nemiche erano sbarcate a Okinawa* e nel giro di
qualche mese le forze
giapponesi erano state sconfitte, al prezzo di centinaia di migliaia di
vite.
Per
via traverse, la giovane era riuscita a rimediare un
passaggio da un furgoncino carico di profughi diretti che facevano
tappa nel
quartiere di Shibuya, da pochi anni sotto l’amministrazione
metropolitana di
Tokyo.*
Lì spese due giorni a negoziare un posto sul carretto
sgangherato di un
disperato che sperava di racimolare qualche yen a Kawaguchi, nella
prefettura
di Saitama, vendendo della roba assolutamente inutile. Non ebbe cuore
di
farglielo notare; negli occhi aveva la stessa espressione distrutta e
vuota che
le restituiva il suo riflesso quando Kyoka si guardava allo specchio.
Non
ci arrivarono mai, al confine della prefettura. Non
uscirono nemmeno dall’area metropolitana di Tokyo. La sirena
antiaerea li
avvertì troppo tardi, ormai non c’era
più tempo per cercare riparo. La prima
bomba fece saltare il terreno, detriti di asfalto schizzarono in tutte
le
direzioni e sfrecciarono come razzi ad un centimetro dal volto della
ragazza.
Un altro ordigno investì un edificio lontano, sventrandolo.
Le orecchie di
Kyoka prima divennero sorde e poi furono invase da un fischio acuto che
sembrava perforarle il cervello.
Era
smontata dal carro e aveva iniziato a correre senza
meta, il suo compagno di viaggio sparito chissà dove. Ma non
poteva
preoccuparsi di lui e della propria vita nello stesso momento, non in
mezzo a
quell’inferno di fuoco. Sembrava che la pelle fosse sul punto
di liquefarsi per
il calore che l’avvolgeva. Era difficile anche solo pensare.
Si
accorse dei detriti quando l’ombra incombeva su di lei.
La facciata di un palazzo si era disintegrata e le pietre precipitavano
verso
di lei, troppo veloci per essere evitate, troppo grandi
perché lei potesse sperare
di sollevare o strisciare sotto le lastre.
In
un battito di ciglia, la violetta era stesa con la pancia
contro il pavimento. La testa pulsava e qualcosa di appiccicoso e
rossastro le
offuscava la vista. Le doleva il busto, fitte lancinanti le
trafiggevano le
ossa e minacciavano di farle perdere conoscenza; non sapeva se fosse
preoccupante o meno che da metà schiena in poi non sentisse
praticamente
niente. I listoni dovevano averla spiaccicata per benino e
ringraziò il cielo
di non poter ruotare il corpo per vedere in che stato era.
Stava
diventando sempre più debole. Anche gli scoppi delle
bombe e i rombi dei caccia nel cielo giungevano alle sue orecchie come
sussurri. Tutto stava scivolando via.
–
Kyoka!
Quella voce. Da
quanti anni immaginava di udire quella voce mentre leggeva con
trepidazione
tutte le lettere che lui le recapitava! Quanto aveva sognato di poterla
ascoltare di nuovo dal vivo! E adesso la sentiva nitidamente, come se
lui fosse
proprio lì accanto a lei e con le sue mere parole potesse
sovrastare il caos
del bombardamento.
–
Kyoka, quanto mi sei mancata. Solo il cielo sa quanto io
abbia desiderato poterti riabbracciare!
Le
pupille annebbiate della ragazza lo videro. Era
inginocchiato davanti a lei, con ancora indosso l’uniforme da
soldato pulita e
stirata e quelle ciocche dorate tutte scompigliate con cui la violetta
si
divertiva a giocherellare quando si stendevano a letto prima di
dormire. Le
stava sorridendo, incoraggiante, quel sorriso gentile che lei amava
tanto.
–
Denki…
Era
lì. Era lì accanto a lei, vivo come non mai. Non
mostrava alcun segno di affaticamento, sembrava che non fosse mai sceso
in
campo a combattere.
Ma Denki
è morto. È morto a inizio anno.
“No!”
pensò Kyoka con un urlo. Voleva che quella vocina
maligna se ne stesse zitta per sempre. Non le interessava che magari
non
seguisse la logica o cose simili, le importava soltanto che il suo
amato fosse
lì con lei. Sporadiche lacrime le inumidirono il viso,
mentre sentiva qualcosa
sciogliersi all’altezza del petto e si sentiva invadere da
una sensazione di
leggerezza. Il dolore covato in tutti quei mesi, l’angoscia
maturata negli
anni, lasciò andare tutto.
–
Vieni con me. – Denki protese il palmo verso di lei in un
gesto d’invito.
Kyoka
tentò di afferrare le dita del ragazzo, ma riuscì
a
malapena a sollevare i polpastrelli prima di digrignare i denti dal
dolore per
la fitta che le attraversò il braccio. Il ragazzo le prese
la mano nella
propria, e alla giovane mancò un battito. La pelle era
liscia e calda, così vera
a contatto con lei.
–
Non… non andrai più via? –
soffocò un singhiozzo. – Non
devi partire più? Vero?
–
Non vado più da nessuna parte, te lo giuro. Staremo
insieme per sempre.
–
Insieme per sempre – ripeté lei con un filo di
voce. E, con
l’ultimo briciolo di forza rimastale, ricambiò la
stretta del ragazzo sulla sua
mano, mentre le palpebre stanche si richiudevano sui suoi occhi per
l’ultima
volta.
---
Quando
riacquistò il senso della vista, era ancora nella
strada di Shibuya in mezzo al bombardamento, ma si reggeva sulle
proprie gambe
ed era mano nella mano con la persona più importante del suo
universo. Non si
voltò indietro, dove giaceva il suo corpo sepolto dalle
macerie. Tenne lo
sguardo fisso sulle pupille dorate di Denki e si alzò in
punta di piedi per
incastrare le proprie labbra con quelle del ragazzo, assaporando ogni
singola
sensazione che quel gesto le dava.
C’era
una luce sfavillante davanti a loro, una fonte
luminosa che faceva apparire sfocata la città in rovina.
Kyoka non sapeva di
preciso cosa fosse; nella sua mente lo ribattezzò il
“dopo”. Quello che avveniva
dopo la vita terrena, il più grande mistero per
l’umanità.
Insieme,
lei e Denki si incamminarono verso la luce, pronti
a scoprire cosa avrebbe riservato loro il “dopo”.
---
Momo
osservava la tomba della famiglia Kaminari con
espressione indecifrabile, mentre vicino a lei Shouto, appoggiato alla
sua
stampella, teneva per mano loro figlio. L’altro bambino, suo
gemello, era
sostenuto dalle braccia amorevoli della donna. Intorno ai Todoroki
erano
presenti tutti i loro amici: Eijirou e Mina, in dolce attesa, Camie e
Katsuki –
che oltre alle dita aveva perso anche l’occhio destro
–, Iida e Mei, Sero e
Setsuna, Ochaco e il suo bambino – una copia sputata del
padre che non avrebbe
mai incontrato, a Momo ogni tanto si stringeva il cuore per quanto quel
piccolo
assomigliava davvero a Izuku.
Anche
se la guerra era terminata da anni, le ferite che
laceravano il Paese e i cuori delle persone avrebbero impiegato molto
tempo per
guarire del tutto. E alcune non sarebbero mai andate via completamente,
scolpite nella memoria di ognuno. Loro non volevano conservare solo gli
avvenimenti negativi; c’era anche il ricordo felice degli
amici che ormai non c’erano
più.
Le
incisioni sulla lastra di marmo lucido e levigato
ricordavano i padri e le madri della famiglia di Omiya, i loro
discendenti e le
loro spose. Le ultime due iscrizioni erano il motivo della loro visita,
il
motivo per cui avrebbero sempre continuato a ricordare.
Kaminari Denki
― Kaminari
(Jirou) Kyoka
06/29/1919
08/01/1919
01/15/1945
08/03/1945
.
.
*La
città di Saitama ho scoperto da Wikipedia che è
stata creata nel 2001 unendo singoli comuni come Omiya e Urawa. Non ho
idea se la prefettura negli anni '40 si chiamasse Saitama
anche se la città non esisteva, quindi ho tenuto il nome che
tutti conoscono e vabbé. Shibuya invece è uno dei
23 quartieri speciali di Tokyo che nel '43 vennero unificati in
un'unica area metropolitana, senza distinzioni tra la capitale e le
altre città della prefettura
*La
seconda guerra sino-giapponese venne combattuta tra Cina e Russia
contro il Giappone (più lo stato fantoccio del Manchuko)
proprio per prendere controllo del territorio cinese e
iniziò nel 1937 e finì nel 1945
*Un
semplice trattato economico del 1938 per potenziare gli scambi tra
l'Impero giapponese e l'Italia fascista. Il Patto Tripartito era
l'alleanza tra Germania, Italia e Giappone; era detta anche Asse
Roma-Berlino- Tokyo (oppure "Roberto"... no, non sto scherzando)
*Avevo
sentito dire che nella Grande Guerra le autorità
controllavano e a volte censuravano le lettere che i soldati inviavano
alle famiglie. Non so se succedesse davvero anche in Asia e soprattutto
durante la Seconda Guerra Mondiale, ma il Giappone era uno Stato molto
autoritario e militarizzato, come i regimi fascista e nazista che
censuravano libri e giornali, e quindi ho pensato che magari anche i
nipponici potessero applicare un metodo simile
*Dal
'42 al '45 gli USA bombardarono sistematicamente le principali
città giapponesi, usando anche il materiale incendiario
napalm che riprenderanno per il Vietnam (se andate su Wikipedia e
cercate "bombardamenti Giappone ww2" vi esce fuori una foto dell'epoca
con una siiimpatica
foto di cadaveri)
*Le
battaglie di Iwo Jima (isoletta a 1000 km da Tokyo) e Okinawa nel 1945
combattute tra giapponesi e americani e vinte entrambe dagli USA. La
battaglia di Okinawa soprattutto contò centinaia di migliaia
di morti giapponesie fu un conflitto molto sanguinoso - anche per i
piloti kamikaze
*Nella
tradizione giapponese il funerale buddista consiste in tre fasi
(l'ultima è la cremazione) ed è anche parecchio
costoso, e i defunti vengono spesso sepolti nelle tombe di famiglia.
Tradizione è collocare le spoglie in un luogo elevato
perché c'è la credenza che aiuti il morto a
distaccarsi dal mondo dei vivi. Inviare ogni singolo corpo in
madrepatria per l'appropriata cerimonia sarebbe stato un
costo esorbitante e il Giappone verso il '45 non se la passava tanto
bene per via di soldi, quindi presumo che si siano inventati qualcosa
per occuparsi dei corpi.
Hola gente
Mado, le
spiegazioni sono quasi più lunghe della storia tra un po' ma
è che sono diventata matta a fare ricerche su internet nel
tentativo di rendere più realistica l'ambientazione del
racconto, perché è una caratteristica a cui tengo
molto quando scrivo.
La storia dei
bambini sempre più piccoli arruolati nell'esercito non me la
sono inventata: all'esercito servivano sempre più uomini da
inviare come combattenti o come piloti kamikaze e nel '45 arrivarono ad
abbassare l'età di arruolamento fino a 14 anni per i maschi
e 16 anni per le femmine.
Che altro dire? Ah
sì. Forse la parte sul "lottare con onore e rendere la
nazione gloriosa fino all'ulitmo" anche se il conflitto sta andando
allo scatafascio vi può suonare un po' assurda, ma ho
cercato di immedesimarmi il più possibile in quelle persone
che sin dagli anni '20/'30 sono state abituate a questo ideale dallo
Stato, specie quelli che con questo ci sono cresciuti, tipo Shouto (che
per i meriti riconosciutigli si sente un guerriero pieno d'onore anche
se ha perso la gamba) o gli altri soldati o anche gran parte dei
cittadini.
Sono un po'
esaurita perché ho iniziato ad imbastire questa cosa
soltanto ieri (ancora non mi capacito di come sia riuscita a terminarla
e a farla venire così lunga, è un record) quindi
cercherò di essere spiccia. Rincoglionimento
mio a parte, però, scrivere questa storia è stato
parecchio divertente.
Sero e Setsuna sono
una ship assolutamente crack, non si sono nemmeno mai parlati se non
tipo una volta nel manga (forse). Ma su AO3 ho letto qualche storia su
di loro e mi sono piaciuti quindi mi sono detta "why not" e allora
eccoli qui. Non linciatemi se a voi fanno cagare, pretty please.
Adesso speriamo che
l'html non si inventi di farmene una delle sue, in tal caso a)
sentirete il mio urlo adirato non importa in quale angolo di mondo voi
vi troviate; b) ho paura che purtroppo ci impiegherò un po'
a sistemare eventuali bug.
Ringrazio se siete
arrivati fin qui, chi recensirà e anche chi
leggerà e basta
Alla prossima gente
Adios
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