Bird Set Free

di NanaK
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  Prologo
 
Anno 849
 
 
 
Gli allenamenti non erano più così duri, ma probabilmente era lei ad esserci più abituata. Erano cambiate molte cose dalla caduta del Wall Maria, ma soprattutto era cambiata lei. Sorrise con amarezza, ricordando con nostalgia quella sé stessa così innocente e felice, prima di scoprire la devastazione, l’orrore, la disperazione.
«Ohi, lo mangfi fquello?». Sasha le urlò nell’orecchio e sobbalzò di scatto.
«Sì e dovrei mangiare anche la tua parte come risarcimento per il mio timpano!» le rispose di rimando, tastandosi il padiglione auricolare. Vedendola sbiancare e coprire il suo piatto con la mano, si sporse in avanti, fingendo di volerglielo portar via sul serio. Sasha scattò indietro e e lo riversò inevitabilmente sul malcapitato Connie.
«Diamine Sasha! Ma sei matta, che cazzo st-».
Il ragazzo si bloccò vedendo gli occhi lucidi dell’amica diretti sul cibo ormai riverso sulla sua maglietta. Stava per consolarla, ma quando lesse la risolutezza nello sguardo di lei capì che invece sarebbe dovuto scappare Tallulah si godette con gusto la scena della sua amica che si lanciava avidamente su Connie e ne rise a piena voce.
«Farò finta di non aver visto che sei stata tu la causa di tutto, ma solo perché è la cosa più spassosa dell’ultima settimana» grugnì Ymir divertita, continuando ad osservare Tallulah che aveva preso delle molliche di pane e adesso mirava verso il caschetto biondo seduto poco più in là. Armin si voltò quasi spaventato, per poi alzare gli occhi al cielo vedendola far finta di nulla troppo palesemente.
«Cominci a diventare prevedibile» le urlò per farsi sentire e Tallulah rise. Un urlo indignato la costrinse a volgere lo sguardo sull’animata conversazione che si stava svolgendo di fronte a lei.  
«Ti ho chiesto solo di passarmi il sale, non di lanciarmelo addosso!»
«Non l’avevi mica specificato».
Jean sghignazzò davanti al bernoccolo rosso sulla fronte di Eren, il quale non perse tempo a stampargli un pugno nel suo stesso punto.
«Ohi, razza di cretino! Stavolta non la passi liscia…».
La voce di Jean si perse nella baraonda generale che era solita governare la mensa a quell’ora e Tallulah si ritrovò a sospirare un sorriso.
Adorava quei momenti. Adorava ridere con i suoi amici, far finta per un po’ che non vivessero nell’inferno ed era colei che più si impegnava per creare quelle pause. Le erano necessarie e sapeva che facevano bene anche a chi la circondava. Serviva per non dimenticarsi di loro stessi.
Che erano vivi e non solo gusci vuoti.
Che c’era anche altro per cui svegliarsi la mattina, a parte l’avere sulle spalle le speranze dell’umanità. Ancora non avevano terminato l’addestramento, ma ben presto avrebbero dovuto scegliere in quale armata arruolarsi e la pressione era alta. Per lei però, non c’era scelta. C’era un dovere.
Mandò giù l’ultimo boccone e si stiracchiò soddisfatta, sentendo il formicolio familiare dei muscoli doloranti. Aveva bisogno di uscire, erano passate quasi due settimane dall’ultima volta.
«Ragazzi, io vi abbandono. Crollerò non appena toccato il materasso».
Gli altri la guardarono con un sorriso di comprensione, qualcuno si alzò a sua volta probabilmente per seguirla.
«Buonanotte Tallulah».
Le dispiaceva mentire così ai suoi compagni, ma non poteva destare sospetti, né voleva coinvolgere gli altri in qualcosa di così personale. Questo era quello che si ripeteva, ma la verità era che temeva il loro disprezzo.
Chiuse la pesante porta di legno dietro di sé e si lasciò alle spalle il chiacchiericcio caldo di poco prima. Percorse il corridoio semibuio e salì la scalinata che l’avrebbe portata ai dormitori, sperando che anche Sasha e Mina stessero morendo di sonno e si sbrigassero a salire ed addormentarsi. Era sempre difficile non cedere al sonno mentre aspettava e tentava qualsiasi cosa potesse tenerle la mente occupata. Quando finalmente sentì il disordinato russare dell’amica e il silenzio pesante della notte scalzò via le coperte e si infilò silenziosamente dei pantaloni e una casacca pesante. In realtà, nessuno badava molto a loro cadetti, non c’era una vera e propria sorveglianza da eludere. Erano tutti troppo stanchi e avevano mille altre preoccupazioni che fare da balia a dei ragazzini a tutte le ore. Era così sovrappensiero che si rese conto di essere fuori solo quando l’aria fredda della notte le pizzicò le guance. Le piaceva troppo il cielo stellato, forse più di quello azzurro del giorno. Si incamminò lungo la via ormai familiare affrettandosi e rallentando solo quando fu vicina alla taverna. Entrò con la sicurezza di un cliente abituale e l’uomo dietro il bancone le fece un cenno di saluto.
«Ciao Earl. Sembri sfinito»
«Senti chi parla. Non ti aspettavo in realtà»
«Certo, perché tu speri sempre di non vedermi più» ridacchiò, sistemandosi su uno sgabello vicino a lui.
«Così mi fai sembrare una persona terribile».
Earl le versò del liquido chiaro in un bicchiere e glielo porse. Tallulah lo prese e lo portò alle labbra mentre scrutava l’ambiente. Poi fece una smorfia.
«Earl, questo è succo d'uva» borbottò spingendo via il bicchier.e «Dammi del vino ambrato, dai»
«Stasera non ti verso niente»
«Lo dici tutte le volte. Dai, ti prego, ci andrò piano».
Aveva conosciuto Earl per la prima volta un anno prima, quando si era imbattuta per caso nella puzza di fumo e nella baraonda soffusa che sembrava provenire dall’interno della taverna. Il proprietario era un uomo sulla cinquantina un po' rozzo, ma era buono e finché non facevi danni nel suo locale eri nelle sue grazie. Questi inizialmente aveva guardato indeciso quella figurina sottile che gli chiedeva dell’ambrato. Inizialmente l’aveva servita senza una parola, finché avesse pagato poteva fare quel che gli pareva. Poi, avevano cominciato a parlare, lei gli aveva fatto alcune domande personali ed era finito in un marasma di ricordi che si rese conto di non veder l’ora di raccontare. Tallulah si beveva la sua storia goccia a goccia, ascoltandolo come se le importasse davvero sapere che persona fosse. Earl di occhi così avidi di vita ne aveva visti pochi e si chiedeva continuamente cosa la spingesse ad andare in quel covo triste pieno di persone tristi: di sé aveva solo detto che i suoi nonni facevano il vino e che il suo le ricordava tanto il loro. Forse era per quello che alla fine cedeva ogni volta nel riempirle il calice.
Per Tallulah quell’atmosfera era del tutto nuova: le donne che sfilavano tra i tavoli sussurrando oscenità, il lento strepitio di una chitarra, la luce soffusa delle candele. Aveva sempre osservato tutto da quello sgabello lì al bancone, assimilando ogni dettaglio, ma senza realmente prendere parte alla scena. Era quasi un fantasma sullo sfondo.
«Allora?» gli domandò nuovamente con occhi bisognosi. Earl sospirò e le riempì un altro bicchiere. Poi andò a servire degli uomini appena arrivati e la lasciò ai suoi pensieri.
Ad un certo punto si era sporta sul legno vecchio e si era versata da bere da sola, approfittando della distrazione di Earl e sorridendo sotto i baffi. La testa aveva preso a girarle, dandole quella sensazione di bambagia che le piaceva così tanto. Sembrava che tutti i problemi perdessero di significato e che la vita era facile e leggera.
Non era passato molto tempo quando, sentendo il brusio diminuire leggermente, si lanciò un’occhiata alle spalle e per poco non le venne un colpo. Era appena entrato Erwin Smith, Comandante dell’Armata ricognitiva, suo Comandante, almeno di lì a qualche mese. Non si sarebbe mai aspettata di vedere un uomo simile in quel posto. Con improvvisa urgenza fece sfilare gli occhi su chi lo accompagnava: un uomo che non conosceva, pelato e con ispidi baffi grigi, gli stava indicando un tavolo libero e quando si spostò in avanti scoprì un’altra figura più bassa.
Si voltò di scatto e diede nuovamente loro le spalle, con il cuore in tumulto.
Il soldato più forte dell’umanità.
Si scolò gli ultimi sorsi in una volta, all’improvviso aveva il forte impulso di scappare da lì. Con tutta la calma che riuscì a dimostrare scivolò giù e camminò senza voltarsi indietro, senza nemmeno salutare le cameriere o Earl, dimentica di ogni cosa la circondasse. Si fermò solo quando fu fuori, l’aria le raffreddò la pelle bollente, ma non riuscì a impedire che le lacrime scivolassero sulle guance. Si appiattì su un muro e scivolò giù, la testa rivolta verso l’alto, mentre si lasciava finalmente andare.
Cercava di non piangere mai se c’era qualcuno che poteva vederla. Nel fiato caldo che si disperdeva a pochi millimetri dal suo viso quasi rivedeva le colonne di fumo che anni prima avevano cambiato la sua vita.
Avrebbe voluto disperdersi anche lei.
«Ma guarda che abbiamo trovato qui».
Una voce roca alla sua sinistra ruppe la quiete di cristallo che regnava e Tallulah sentì delle dita ruvide prenderle il viso. Aveva gli occhi appannati dal pianto e la testa annebbiata, troppo annebbiata. Non seppe come, ma si ritrovò con la faccia schiacciata contro il cemento, mentre un corpo le si imprimeva addosso con forza. Tentò di divincolarsi dalla stretta che le arpionava il capo e le braccia, ma le mani erano tante, così tante e le sue spinte troppo deboli. Provò a gridare, scoprendo con orrore che le usciva solo un filo di voce. Non c’era modo di scappare. Continuò a piangere e non sapeva più per che cosa, se per il disgusto confuso che la stava assalendo, se per l’ultimo brandello di innocenza che le stava per essere portato via, se per i suoi nonni, se per quel mondo in cui erano costretti a vivere. Un tonfo sordo le arrivò alle orecchie e immediatamente dopo non c’era nessun peso su di lei. Senza più appigli le gambe le cedettero, ma riuscì a frenare la caduta con i palmi. Qualcosa le risalì lo stomaco e fece appena in tempo a sporgersi a sinistra prima che un conato le fece riversare la cena sull’asfalto, proprio mentre dietro di lei risuonarono bestemmie soffocate e colpi sbattuti. Non mise a fuoco i suoni, troppo concentrata in quella sensazione disgustosa, il risucchio impellente dell’aria nei polmoni era tanto forte da star male. Respirò a fondo più e più volte e sentì i pensieri rischiararsi lentamente. Fu in quel momento che si rese conto delle dita che le stavano tenendo i capelli e la fronte. Sobbalzò spaventata temendo un nuovo assalto e d’istinto sferrò un pugno verso l’alto, alla cieca.
«Stai ferma, mocciosa». Venne bloccata senza fatica e solo a quel punto riuscì a scorgere chi la stava tirando su dalle braccia.
Levi la osservò con lieve disgusto, per fortuna non gli aveva vomitato addosso. Riuscì a metterla in piedi, ma a quel punto lei scacciò via le sue mani come se l’avessero scottata e si coprì la bocca con la manica.
«Faccio da sola».
Lo vide alzare un sopracciglio con evidente scetticismo.
«Non mi pare che te la stessi cavando un granché».
Una fitta le pulsò nelle tempie e dovette chiudere gli occhi per evitare di vomitare ancora.
«Dove sono quei...» pronunciò a fatica, continuando a tenere gli occhi chiusi.
«Andati» rispose, senza farle capire bene dove o come. Era chiaro che l’avesse salvata. Tallulah riaprì gli occhi e lo guardò, da vicino, per la prima volta. Non aveva mai notato il taglio flessuoso degli occhi, curvato verso l’alto. Sarebbero apparsi addirittura morbidi se non fosse stato per la linea dura delle sopracciglia e le labbra stirate e dritte. Suo malgrado mormorò un «Grazie» appena accennato. Stava per voltarsi e andarsene con il suo passo malfermo, quando Levi le prese un polso e se lo mise sulle spalle, circondandole la vita con il braccio destro.
«Ehi! Lasciami stare!»
«Stai buona o ti lascio nella tua pozza di vomito»
«Non sai nemmeno dove abito» biascicò sempre meno convincente.
«Ti porto in un posto sicuro»
«No, devo tornare a... casa»
«Dimmi dove portarti allora»
«Il Capitano Levi ha davvero così tanto tempo da perdere?» tentò ancora, stizzita dal fatto che stesse per cedere a quel tono esigente.
«Ti avviso che quello che sto per perdere è la pazienza».
Levi non sembrò minimamente toccato dal fatto di essere famoso.
Tallulah non riuscì a odiarlo.
Di base, non era portata a odiare nessuno, ma per moltissimo tempo aveva tentato di dare la colpa a qualcuno per ciò che era accaduto.
«Dov’eravate?» gli chiese stancamente, senza riuscire a trattenersi. Levi la guardò, non capendo se fosse ancora ubriaca, ma a parte il viso mortalmente pallido, sembrava stare meglio.
«Di che parli?»
«Quattro anni fa, dove eravate? Perché l’intera legione era assente?».
Le vide il labbro inferiore tremare e capì. Era una sopravvissuta.
«In missione».
La sentì emettere un sospiro.
«Sono tra i cadetti di quest’anno, mi diplomerò a breve»
«Non ti ho chiesto di raccontarmi la tua vita» mormorò e prese a camminare, conscio della direzione da prendere. Forse Tallulah non aveva neanche sentito quella risposta, perché aveva poggiato la testa sulla sua spalla, sfinita. Levi rafforzò la presa per sorreggerla di più. Era leggera e non gli pesò molto arrivare fino al dormitorio dei cadetti. Quando si fermarono fece scivolare via quel braccio dalle sue spalle e forse ad entrambi dispiacque perdere quel contatto.
«Non mi sembri adatta» le disse d’istinto. Tallulah alzò gli occhi e si fissarono per un breve momento.
«Nessuno lo è» rispose lei e a Levi piacque il modo in cui aveva capito al volo cosa intendesse. Poi vide le sue labbra quasi bianche stirarsi in un sorriso.
«Grazie».
«Lo hai già detto. Adesso vai a dormire».
Tallulah lo fissò darle le spalle e sentì qualcosa smuoversi.
«Levi» lo chiamò, senza sapere bene il perché.
Lui si fermò in attesa che continuasse, chiedendosi se avrebbe dovuto irritarsi per la naturalezza con cui l’aveva chiamato.
«Vorrei rivederti».
Levi contrasse le sopracciglia e tornò a camminare, sentendo poi il pesante portone da cui si allontanava chiudersi dietro di lui.




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