Prefazione:
‘Diventare grandi’ è un passaggio
obbligatorio. Crea ansie e un
terrore folle di non essere abbastanza, di correre e non arrivare mai
da nessuna parte.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Pieghe
tra le lenzuola
Nessuno
si sofferma sul periodo di mezzo della vita, quello in cui il bruco
lotta per diventare farfalla. (Anton Valigt)
Il
letto era sfatto e le lenzuola fruste irritavano la pelle sensibile.
Sbuffai, mi girai su un fianco e poggiai il braccio davanti al viso.
Incastrata sotto il mento, l’altra mano teneva il bordo delle
coperte lontano dall’orecchio.
Serrai
le ciglia sul buio; la lucina notturna, incastrata nella parete, era
un palo conficcato negli occhi. Il silenzio della camera aumentava il
frastuono del mio battito, e il ronzio di mille vespe ramificava
dentro la testa.
Tirai
un profondo respiro, ingollando aria e saliva, l’attenzione
rivolta
al lento strusciare dei polpastrelli sul cuscino.
Un
brontolio, uno scricchiolio, e il resoconto della giornata naufragava
nella bottiglietta d’acqua accanto alla sveglia. Il rito del
sonno
nuovamente interrotto.
Altro
fianco, altra visuale, altra prospettiva.
Ma
chi vuoi prendere in giro!
La voce della ragione
urlò nella mia testa. La gola raspò e prese a
morsi l’ossigeno,
come fosse un macigno duro da digerire.
Alzai
di scatto il capo, lo scossi e mille aghi schizzarono dietro le
palpebre. Mi sentivo sospesa, eterea, una foglia sotto lo zoccolo di
un cavallo in corsa.
Ripresi
fiato, piano, quasi contando i passi che separavano il letto dal
bagno. Nel tragitto, ipotizzai ogni ostacolo, ogni angolo, ogni
imprevisto, finché l’improvviso fulgore che
incendiò la
plafoniera non riportò la calma.
Nemmeno
il diavolo era ingannevole quanto l’apparenza.
Seduta
sulla tazza del water, le dita artigliate ai capelli, mi sentii la
regina che sapevo di non potere interpretare. Creai mondi fantastici,
poesie dalle strofe scadenti, tele dai colori sgargianti.
Stai
temporeggiando. E odiai
quella voce petulante che
mi derideva.
Ritrovare
il materasso era come spiaggiarsi su un’isola deserta dopo
avere
fluttuato in balia delle onde, assieme a quella sensazione di
barcollare che non mi abbandonava mai del tutto.
Strinsi
gli occhi, le lenzuola incollate alla schiena sudata. Provai a
ragionare, rilassando ogni nervo e muscolo che il cervello riusciva a
raggiungere.
Vedi,
basta poco. Mi convinse soddisfatta, le dita dei piedi che
flettevano al di fuori della linea marcata delle coperte messe di
traverso sul materasso.
Il
languore prese il sopravvento, un centimetro alla volta, fino a fare
sprofondare la testa nel cuscino. Dietro le ciglia serrate, la stanza
era bombardata da sfavillii psichedelici. Ora l’armadio con
l’ombra
riflessa del letto. Ora la finestra con gli spifferi luminosi del
lampione che perforavano la tapparella. Ora il filo intricato di
tungsteno che si faceva beffe dal lampadario. Ora il mio volto come
in una foto in negativo.
Unghie
spezzate che graffiavano la mia resistenza.
I
pensieri divennero ingorghi, mulinelli di parole e immagini sempre
più densi, sempre più foschi, sempre
più torbidi.
Deglutii
e la gola si inceppò. La saliva vibrò come
l’ala spezzata di una
mosca, incastrata senza via di scampo nella ragnatela. Il panico
dilagò come una slavina, facendomi scattare seduta sul
letto. Le
dita affossate nel materasso, gli occhi vitrei a contemplare il buio.
Inspirai col naso, profondamente, fino a sentire i polmoni dolere,
più volte, per essere certa di essere viva. Inghiottii e
ogni cosa
tornò al proprio posto, anche se il terrore non mi
abbandonò del
tutto.
Guardai
a destra, a sinistra, senza arrischiarmi a bere un goccio
d’acqua.
Mi
lasciai scivolare tra le lenzuola, muovendo il corpo perché
si
adattasse alle pieghe. Arricciai le membra e incastrai le braccia
sotto il petto, le mani chiuse a coppa sul seno acerbo.
L’insonnia
è una brutta bestia. Ma la paura di
cedere al sonno ti
rende ancora più nervosa e irritabile. E non credo che
prendere a
testate il muro risolva la faccenda, insinuò
ragionevole la
solita voce.
Ogni
sera, una volta poggiato il capo sul cuscino, le mie certezze
sgretolavano via. Erano sabbia sul fondale in tempesta. La paura
dilagava libera, incapace di cedere il passo alla sonnolenza.
Ricordai
di avere letto da qualche parte che contare le pecore rilassasse.
“Concentrarsi
sul visualizzare, e
tenere a mente il numero dei simpatici erbivori, allontana il
desiderio morboso di essere sveglio nell’esatto momento in
cui il
cervello si addormenta.”
Ispirata,
presi a muovere la gamba come il pendolo di un orologio. Avanti e
indietro, indietro e avanti, senza seguire una particolare cadenza,
snocciolando i numeri come grani del rosario.
Uno…
due… tre; avanti e indietro… ventiquattro,
venticinque; indietro
e avanti… settantadue; avanti… novantacinque;
indietro…
I
toni neri e gialli diluivano nel verde bottiglia. Sagome scure erano
annidate ai lati di una lunga strada: ombre minacciose che
incombevano come falchi. L’aria era densa, umida, e
sbrodolava via,
come approssimative spennellate di un dilettante acquarellista. Ero
in piedi, solitaria figura al centro della strada. Dinnanzi, un
camion lanciato a folle velocità con l’unico
obiettivo di
centrarmi in pieno. Era una scena già vista, rivisitata
mille volte
e altrettante volte arricchita di nuovi particolari.
Un
intrecciato loop aggrovigliato strettamente a un deja-vù. Un
pasticciato uroboro a cui dovevo trovare in fretta una via
d’uscita.
Mi
buttai a terra, scansando ed evitando con precisione millimetrica
ogni ostacolo che l’infernale mezzo proponeva per chiudere
ogni via
di fuga. Il cassone che mi sovrastava sembrava eterno e toglieva il
fiato, chiudendo in una scatola sempre più ristretta la mia
volontà.
Annaspavo e mi infervoravo, osservando me stessa dall’alto
compiere
gli stessi gesti, le stesse movenze in un perenne rituale
scaramantico. E poi eccolo lì, dopo infiniti minuti che
parevano
ore, il nuovo intoppo: luminoso e potente, abbagliante come un faro
nella notte. Pochi secondi per decidere come concludere le danze,
l’ultimo passo per non soccombere alla morte.
Mi
accorsi di essere sveglia e incastrata nella mia testa. L’eco
dell’incubo appena vissuto che strisciava lento sulla pelle
sudata.
Sentivo il cervello pesante e il morbido del cuscino dolere come una
morsa.
Che
strano controsenso, farfugliai nella mia mente mentre
inseguivo
mille dettagli. Eppure, chiusa in quello spazio angusto, tutto mi
appariva chiaro. Avvertivo il mio corpo come se stesse affogando
nella melassa, lontano e allo stesso tempo così vicino da
essere
intimo. Chiaro e scuro, realtà e sogno, ingaggiavano
battaglia
davanti ai miei occhi stupiti.
Sono
sveglia, pensai. Ragiono e mi muovo. Ma
come le parole
appena formulate raggiunsero il cervello, mi accorsi di essere
paralizzata, immersa in uno strano formicolio. Tentai un respiro
profondo e scivolai nel panico quando non successe nulla.
Cercai
di muovere la testa, le mani, le gambe. Mi sentivo pesante, le membra
dure come la roccia: un tutt’uno con il vuoto che mi
circondava. Il
respiro mozzato nell’aria sempre più rarefatta. Mi
sforzai,
concentrando la mia volontà in un unico gesto, in un unico
punto,
che arroventò quasi fossi già sprofondata
all’inferno.
Mi
figuravo lottare, graffiare, mordere, dibattermi senza sosta. Tiravo
fino a tendere i nervi e arcuare la schiena, le braccia piagate
all’indietro strette nel giogo di fantomatiche catene. Eppure
non
mi muovevo, non un muscolo, non un tendine finché, ormai
giunta allo
stremo della disperazione, dalle mie labbra serrate, non
sfuggì un
grido, una parola, un’invocazione: «Mamma!»
Mi
destai così, la gamba che scattava come un pendolo, la gola
riarsa
di chi aveva urlato a fondo, il corpo stanco di un maratoneta, dolori
vividi che presto sarebbero mutati in lividi.
Ogni
notte, qualsiasi cosa avessi affrontato durante la giornata, avrei
rivissuto tutto con lucidità disarmante. Per tutto il
periodo
adolescenziale, come un cancro che, centimetro dopo centimetro,
avrebbe divorato ogni mia volontà.
Note
dell’autrice: tutto ciò che ho
scritto l’ho vissuto
personalmente nel periodo più buio che ogni essere umano
è
costretto ad affrontare: l’adolescenza.
La
fobia trattata è la Somnofobia o Oneirofobia e
una delle sue possibili conseguenze è la paralisi del sonno.
Trovate le spiegazioni a questo link: https://angolopsicologia.com/oneirofobia-somnifobia-paura-di-dormire/,
e
a questo link: https://it.wikipedia.org/wiki/Paralisi_nel_sonno.
Questa
storia partecipa al contest ‘Scriptophobia’ indetto
da Soul_Shine
sul forum.
Leggenda
Genere:
introspettivo – horror.
Rating:
verde.
Note:
Missing Moments.
Coppia:
nessuna.
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