§ Twenty Six Rings §
And now the storm is
coming, but It's you and me, that's my whole world
[Taylor Swift, Miss
Americana & The Heartbreak Prince]
Le dita candide di Rachel scivolarono sul coperchio del
piccolo scrigno, avvertendolo liscio e freddo al tatto.
Come sempre, le dava un senso di sicurezza.
Sapeva che quel piccolo cofanetto conteneva la chiave per la
sua sopravvivenza: i suoi venticinque anelli.
Il cuore sobbalzò nel suo petto e avvertì la tempesta
sferzarla con forza.
Spinse lo scrigno dentro l’armadio, richiuse le ante e uscì
dalla sua stanza, pronta ad affrontare una nuova giornata universitaria.
Rachel lo sentiva, percepiva la sua vicinanza ancor prima
che lui la raggiungesse.
E sentiva la tempesta avvicinarsi, quella che albergava
dentro di sé anche quando il cielo era terso e le nubi lontane.
Non desiderava davvero uscire con lui, anche se avrebbe
accettato.
Quel ragazzo sfrontato si avvicinò e le chiese di uscire,
soltanto un anno dopo la morte di Everett.
Rachel infine annuì e si lasciò scappare un sorriso
glaciale. «Come ti chiami?»
«Brian, te l’ho detto. Ti va di fare una passeggiata sulla
spiaggia? Raggiungiamo il promontorio, guardiamo il tramonto…»
Rachel avrebbe voluto dirgli che quelle erano cose stupide e
banali, che lei non era un’umana come tante, ma tacque e accettò senza fare
tante storie.
Si diedero appuntamento al chiosco gestito dai genitori di
lui per le cinque del pomeriggio, poi Rachel riprese il suo cammino verso
l’aula in cui avrebbe seguito l’ennesima lezione universitaria.
Si guardò allo specchio e non vide riflessa la sua immagine,
come sempre da quando non era più un angelo puro; le sue ali erano ormai
completamente rosse, quel colore così pericoloso e sbagliato per lei. Ormai non
c’era più niente che ricordasse le piume bianche, candide e bellissime che
aveva sempre amato.
Quando riusciva a intravedere il suo riflesso in una pozza
d’acqua, notava con orrore quelle ali rovinate e deturpate, e questo le
ricordava Everett.
Tutto le ricordava Everett, perché lei non c’era più da
quando era stata costretta a ucciderlo.
Si ripeteva che l’aveva protetto, che aveva soltanto seguito
le regole del suo mondo, ma non riusciva ad accettare quella condanna.
Uccidere per sopravvivere tra gli umani, lo aveva
sempre saputo e se l’era sempre sentito dire. Era nata con quella
consapevolezza nel DNA.
Sospirò e uscì di casa, raggiungendo il luogo
dell’appuntamento con Brian. Lo trovò lì ad aspettarla, era davvero un bel
ragazzo: moro, alto, muscoloso. Quello che piaceva a tutte e che non aveva
paura di provarci con chiunque.
Patetico era l’unico aggettivo che Rachel sentiva
adatto a lui.
Passeggiarono sulla spiaggia, aspettando il tramonto. Lei
non dava peso alle loro chiacchiere, alle mani di Brian che si facevano sempre
più invadenti sulla sua schiena o a sfiorare casualmente le sue ciocche
scure.
Non ci faceva caso perché il suo cuore non batteva come un
tempo. Le emozioni erano morte con Everett, l’unica creatura che le avesse
trasmesso sensazioni umane nonostante lei fosse un mostro, l’unico ragazzo che
le avesse fatto battere il cuore senza dire una parola.
Perché Everett non sapeva parlare, non sapeva comunicare con
la voce. Il suo unico errore era stato quello di scoprire la sua vera natura, e
Rachel era stata costretta a ucciderlo.
Mostro era l’unico aggettivo che si cuciva addosso da
un anno, ormai.
Raggiunsero il promontorio e lo trovarono deserto e
bellissimo, come sempre. Rachel lo sapeva, si sarebbe accorta se ci fosse stato
qualcuno, e a quel punto avrebbe trascinato Brian da un’altra parte.
Il cielo si tingeva di colori caldi e sempre più scuri,
mentre i raggi bassi del sole si riflettevano sul mare agitato.
Rachel rimase in piedi a osservare il panorama, con il vento
tra i ricci corvini e le mani di Brian sui fianchi. Il ragazzo era dietro di
lei, sentiva il suo respiro nauseante solleticarle il collo.
Sarebbe dovuta essere con Everett, se solo lui fosse stato
ancora vivo.
Se solo lui non avesse scoperto chi era davvero.
Si voltò verso Brian e gli sorrise maliziosa, avanzando
lentamente e poggiandogli le mani sul petto. Lui, di riflesso, indietreggiò e
tenne gli occhi azzurri fissi in quelli scuri di lei.
«Sei proprio un bel ragazzo…» cantilenò Rachel, continuando
a spingerlo senza che lui si rendesse effettivamente conto di ciò che stava
succedendo; era completamente ipnotizzato da lei, da quello sguardo ardente e
dalla sua voce suadente.
Il tallone destro di Brian raggiunse il bordo del
promontorio e lui cercò di mantenere l’equilibrio per non cadere all’indietro.
«Che… che fai? C’è troppo freddo per nuotare ora, non pensi?»
Rachel si premette contro di lui e fece per sfiorargli le
labbra con le sue, ma poi gli diede una piccola spinta e Brian perse
definitivamente il contatto con il terreno.
A quel punto lanciò un grido e agitò le braccia, ma Rachel
fu rapida ad afferrarlo per i polsi e tenerlo sospeso nel vuoto. Continuava a
fissarlo negli occhi e non provava rimorso né pentimento.
Avrebbe potuto lasciarlo cadere e non sarebbe cambiato
niente. Forse si sarebbe salvato, forse sarebbe morto a causa di una collisione
con uno scoglio, o ibernato, o divorato da una qualche bestia marina.
Rachel assottigliò lo sguardo. Non poteva permetterlo.
«Tirami su, cazzo! Sei impazzita? Mi hai spinto! Sei una psicopatica,
aspetta che lo racconti alla polizia!»
«Oh, che paura» fece lei in tono annoiato, mentre il suo
corpo fremeva e le ali rosse scivolavano fluide dalle sue scapole, spiegandosi
con grazia e provocandole un enorme sollievo.
Tenne Brian per i polsi e lo sollevò, sbattendo appena le
ali e trascinandolo in alto con sé. Lui era sconvolto, non poteva credere a ciò
che stava vedendo, Rachel lo leggeva nei suoi occhi sgranati e nei lineamenti
del suo viso contratti per il terrore.
«Ops, Brian, c’è un problema» disse lei, per poi ghignare e
accostare il proprio viso a quello del ragazzo.
«Cazzo, ma cosa… cosa sei?»
«Un angelo, non vedi? Ho le ali, posso volare e ti ho
salvato la vita. Ma c’è un problema, un piccolissimo problema.»
«Questo non è reale, questo non è reale…» rantolò il
ragazzo, agitandosi nella sua stretta ferrea. «Mettimi giù, hai capito? Sei una
pazza, una malata mentale! Mi hai drogato, è così?» strillò isterico.
«Forse. O forse no.»
Rachel afferrò i suoi polsi con la mano sinistra, mentre poggiava
la destra sul suo petto e sentiva il cuore battergli all’impazzata. Era
agitato, era completamente terrorizzato e annientato dalla paura di qualcosa
che non conosceva e che non avrebbe dovuto conoscere.
Proprio come Everett, pensò Rachel.
Poi si diede della stupida. Everett era stato diverso, lui
non aveva avuto paura di lei, di morire per lei, di morire solo per poterla
conoscere davvero, per poterla baciare e guardare davvero.
Per poterla amare senza quasi toccarla.
Invece Brian si agitava, gridava, piagnucolava. Era un
essere inutile, stupido, vuoto.
«Il problema è che tu hai scoperto la mia natura» lo
sbeffeggiò, esercitando una leggera pressione sul petto del ragazzo.
Brian si contorse per un improvvisa fitta di dolore e
strizzò gli occhi, lanciando un rantolo strozzato e tremendamente patetico.
«E io sono costretta a ucciderti» concluse Rachel,
avvertendo le energie di quell’insulso mortale fluire attraverso quel cuore che
pian piano rallentava i suoi battiti.
Le forze lo stavano abbandonando e lui non aveva ancora
capito niente, non aveva capito che non sarebbe sopravvissuto. Rachel sentiva i
polpastrelli formicolare mentre Brian smetteva di dimenarsi e si abbandonava a
quel tocco fatale, lasciando che lei risucchiasse la sua linfa vitale e la facesse
sua, rendendo le sue ali ancora più rosse.
Il colore delle sue piume diveniva più scuro ogni volta che
rubava la vita di un essere umano. Rachel sorrise, pensando al fatto che quando
aveva conosciuto Everett le sue ali erano quasi immacolate.
Poi lo aveva ucciso e il suo cuore aveva smesso di battere
con la purezza e l’ardore che l’aveva sempre resa una creatura dolce e buona.
Si fermò soltanto quando avvertì che dal corpo inerme di
Brian non avrebbe più ottenuto altro. Lo lasciò andare con fare sprezzante,
gettandolo in mare come fosse un sacco d’immondizia.
Non prima di aver infilato le dita tra i suoi capelli e
averli tirati, trattenendolo per un piccolo istante.
Non le importava di lui, non le importava di niente.
Pensavo soltanto a Everett, ai suoi capelli lisci e lunghi,
ai suoi occhi scuri come la notte. Alle sue labbra carnose, al suo sapore dolce
che non sapeva di paura, ma soltanto di amore.
Uccidere per sopravvivere tra gli umani.
Lo aveva fatto, ancora. Ed era sopravvissuta, ancora.
Ma non stava bene, no, non stava in nessun modo. Era
semplicemente vuota, annientata da quel vuoto incolmabile.
Perché Everett non c’era più e non ci sarebbe mai più stato.
E allora la sentì, ancora più forte, la tempesta che
arrivava dentro il suo cuore.
Quella tempesta che le infestava l’animo e le faceva venir
voglia di rifarlo.
Ancora.
Ancora.
Ancora.
Risucchiare le forze dei mortali per sentirsi più forte e
diventare intoccabile, annientando ogni emozione per sempre.
Uccidere per sopravvivere tra gli umani.
Rachel aprì il piccolo scrigno dorato e lo appoggiò sul
letto.
Osservò i suoi piccoli trofei e li trovò disgustosi, come al
solito.
Erano dei piccoli anelli formati da ciuffi di capelli. Ce
n’erano di tutti i colori, di tutte le consistenze e intensità.
Poi osservò il palmo della propria mano e vi trovò la ciocca
ramata e riccia di Brian. La arrotolò attorno al dito e sentì una fitta di
dolore e un sentore di nausea attanagliarle il petto.
La annodò attorno al dito e formò un perfetto ornamento per
il suo anulare. Esercitò una leggera pressione sui lembi e li fece combaciare,
sigillandoli per sempre.
Un altro anello alla collezione, pensò, riponendo la
ciocca insieme alle altre.
Erano ventisei, lo sapeva perfettamente.
Anche se le sue vittime erano ventisette.
Mancavano i capelli di Everett, non aveva avuto il coraggio
di deturpare quel ragazzo speciale della sua bellezza.
Dopo averlo ucciso, si era allontanata in fretta e non aveva
osato guardarlo. Voleva ricordarlo come lo aveva conosciuto, nella sua
semplicità e nel suo modo straordinario di essere se stesso.
Uccidere per sopravvivere tra gli umani.
Lo aveva fatto e la sua collezione era stata abbellita
dall’ennesimo orrore.
Rachel chiuse di scatto lo scrigno e lo ripose nell’armadio,
per poi affacciarsi alla finestra e ascoltare il fruscio delle onde in
lontananza, sporcato dall’eco distorta di sirene spiegate.
Stanno andando a prenderlo, pensò.
E non provò niente, neanche un briciolo di pentimento o
soddisfazione.
C’era solo la sua tempesta interiore a sferzarla senza
chiedere il permesso.
§ § §
Cari lettori, non avrei mai pensato di scrivere ancora su
Rachel, ma eccomi qui!
Devo assolutamente ringraziare Koopa per aver indetto il
contest a cui la storia partecipa, perché è solo grazie al suo pacchetto e alla
sua idea che sono riuscita a sviluppare questo breve racconto *-*
Ed ecco che Rachel, piena di dolore, rabbia e risentimento,
si sfoga collezionando omicidi che perpetra sfruttando la sua natura
sovrannaturale… è veramente triste, non trovate?
Chissà se per lei ci sarà redenzione, un giorno, se riuscirà
a riportare le sue ali al loro candore!
Per chi fosse curioso di saperne di più su Rachel e
soprattutto su Everett, vi consiglio di leggere la mia Bloody Wings,
in modo da farvi un’idea un po’ più completa, anche se le due storie possono
essere lette tranquillamente l’una slegata dall’altra!
Spero che questo piccolo racconto vi sia piaciuto e grazie
per averlo letto, mi farebbe davero piacere conoscere il vostro parere in
merito ^^
Alla prossima ♥
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