IL COPRIFUOCO
"Quest'oggi, 24 giugno del 1990, si dà ufficialmente inizio alla
convivenza. Tutti i cittadini sono tenuti a rispettare ogni regola
della convivenza, per la loro stessa incolumità.
Il prezzo della pace è il sacrificio.
Che Dio vi protegga."
George H. W. Bush
12 settembre 1990.
Il bollitore lasciato sul fuoco prese a fischiare. Il vapore bollente
usciva con prepotenza dagli spiragli aperti sul beccuccio ed il suono
che produceva poteva lontanamente sembrare uno strillo; lo strillo
frustrato di chi voleva attirare su di sé l'attenzione delle due
ragazze presenti nella stanza.
Isabel fu la sola ad alzarsi per andare a zittire quel frastuono. In
quanto proprietaria di casa era suo compito controllare il té,
come lo era servirlo all'amica angosciata e ascoltare le sue lamentele.
Isabel era un'amica fedele, come anche una persona metodica e
ordinata. Tutto in lei faceva intuire quest'ultimo tratto caratteriale,
a partire dalla lunga gonna perfettamente stirata fino ad arrivare ai
capelli biondi acconciati in una stretta crocchia. Le sue dita lunghe e
magre si muovevano sicure tra gli arredi della sua cucina; con
l'attenzione sempre sulle parole della sua ospite aveva versato l'acqua
calda in un'elegante tazza di porcellana, per poi voltarsi e tirare
fuori dall'armadietto alle sue spalle un barattolo di latta.
"Non penso volesse ferirti. Lo sai anche tu quanto questa situazione
sia difficile per tutti." disse con voce tranquilla, infilando un
cucchiaino nel barattolo e tirandolo su pieno di foglie di té
nero aromatizzato al bergamotto; dunque le lasciò cadere dentro
al filtro semi-sferico.
"Non mi importa che volesse farlo o meno!" rispose con irritazione l'altra ragazza.
Gli occhi marrone scuro di Max Rush si puntarono su quelli dell'amica, pieni di risentimento.
Max si poteva dire che fosse il negativo di Isabel. Era sempre stato
così, fin da quando erano bambine. Isabel bionda, Max bruna.
Isabel tranquilla e composta, Max impulsiva e sboccata. I loro genitori
spesso si erano domandati come avessero fatto a mantenere
quell'amicizia negli anni; sulla carta sembrava un rapporto destinato a
finire.
Eppure, nonostante talvolta la vita le avesse portate ad allontanarsi
anche per lunghi periodi, quando qualcosa le turbava continuavano a
cercarsi l'un l'altra.
Di sicuro nulla le aveva mai turbate quanto la situazione che stavano
vivendo in quel preciso momento, di quell'anno, di quel mese, delle
dieci e mezza di sera.
Perché erano le dieci e mezza, giusto?
Isabel lanciò una rapida occhiata all'orologio piazzato sopra il
cucinino. Dieci e ventidue. Perfetto, di sicuro aveva tempo a
sufficenza per tranquillizzare Max, finire di bere il té e
convincerla a tornare a casa.
"Si è comportata come una vera pazza, Isa, ti giuro! Mi ha
lanciato addosso l'album di fotografie di papà...ha urlato che
era colpa mia."
Max distolse lo sguardo nel dire quelle parole. Le sue dita si chiusero
intorno alla tazza di té che l'altra le aveva allungato. Le
foglie galleggiavano all'interno del filtro, rilasciando nuvolette nere nell'acqua calda.
"Max...il dottore aveva detto che sarebbe successo-"
"Si ma non credevo così!" disse la bruna alzando un po' la voce.
"Conosco le fasi del lutto, sapevo che la rabbia sarebbe arrivata. Ma
non credevo in questo modo, non su di me, non ogni fottuto giorno! La
sua faccia, le sue parole, le sue grida...non è normale Isa..."
Gli occhi di Max si erano rapidamente inumiditi ed ella aveva stretto
la tazza al punto da arrivare quasi a scottarsi; tutt'intorno alle sue
unghie, coperte da uno smalto nero che pareva vecchio di settimane, la
pelle aveva iniziato ad arrossarsi.
La giovane non permetteva a nessuno di vederla piangere. Ma Isabel non era nessuno.
La bionda guardò l'amica con un'espressione quasi materna. Fece
il giro del tavolo per arrivare al suo fianco e appoggiarle una mano
sulla spalla.
"Non c'è nulla di normale in tutto ciò, Maxy." sussurrò
Isabel. Nel farlo lanciò un altro
sguardo all'orologio. Dieci e ventidue.
L'altra rise senza divertimento.
"Cristo, non osare chiamarmi ancora Maxy." fece, passandosi la mano chiusa a pugno sugli occhi.
Isabel sorrise di rimando.
"Ma come? Ti piaceva quando ti chiamavo così alle elementari, Maxy!"
Il telefono fisso squillò improvvisamente, stroncando sul nascere quel momento di ilarità tra le due.
La bionda si mosse per sollevare la cornetta, ma Max la bloccò subito afferrandole il braccio.
"No, non rispondere! E' di sicuro lei!"
"Max, devi risponderle! Sarà preoccupatissima!"
Isabel guardò l'amica con disappunto, dimenandosi per cercare di
liberare il braccio; l'altra però non desistette.
"Bene, che si preoccupi! Così magari la prossima volta ci
penserà due volte prima di gridarmi contro!" urlò la
bruna, velenosa.
"Crede di essere la sola a soffrire per papà? Non sono io ad
averlo ucciso, non gli ho chiesto io di violare il coprifuoco!"
gli occhi di Max si riepirono ben presto di lacrime. La mano con cui
stringeva l'amica tremò; lasciò la presa, nascondendo
il volto contro i palmi.
"Max..." sospirò Isabel, tornando verso di lei. Ignorò lo
squillo del telefono, circondando l'altra in un abbraccio caloroso.
Non appena percepì l'amica abbracciarla Max si aggrappò a lei con forza, quasi avesse paura di cadere.
"Io...ero solo curiosa. Volevo vederli...non credevo...non volevo..." sussurrò singhiozzante.
"Lo so. Non preoccuparti." disse la bionda accarezzandole piano i capelli.
Il telefono smise di squillare.
Per un attimo nella casa regnò un silenzio surreale e perfetto.
Poi lo squillo riprese.
"Oh, cristo!" ringhiò Max, alzandosi di botto e scansando
l'altra in malo modo. I suoi occhi erano ancora lucidi e arrosati.
Afferrò la cornetta con violenza, sollevandola di scatto e portandola all'orecchio.
"Cosa cazzo vuoi?!" urlò contro l'apparecchio.
"Max...sei tu?"
La voce dall'altro capo tremava ed era fiebile e debole, quasi fosse il pigolio di un uccellino.
"Si mamma, sono io! Ora che sai dove sono, potresti farmi il favore di lasciarmi in pace?"
l'interlocutrice prese a singhiozzare con una forza che per un momento lasciò spiazzata la ragazza.
"Mio Dio...sei ancora da Isabel...esci subito da lì! Violerai il coprifuoco!"
La madre di Max parlava come se avesse qualcosa incastrato in gola. Le
parole si mischiavano con il pianto in un assurdo cocktail di
disperazione.
La bruna fece roteare gli occhi verso l'alto.
"Non essere così melodrammatica! Manca più di un'ora al
coprifuoco!" commentò posando lo sguardo sull'orologio appeso
sopra il cucinino.
"Sono a malapena le dieci e ventidue".
Quella frase risuonò nella mente di Isabel. Ma non un risuonare
gradevole, era più simile al suono che si avvertiva dopo aver
preso una botta terribilmente violenta alla testa. Il cuore le pompava
nelle tempie e le sue orecchie erano piene di quella semplice frase:
sono solo le dieci e ventidue.
Non le dieci e venticinque, non le dieci e mezza. Un numero così specifico e sbagliato da indurle la nausea.
Le bionda si chinò in avanti e dovette reggersi al tavolo per
non cadere; il legno accusò il colpo tremando e facendo
rovesciare la tazza in cui ancora c'era il té.
"Isabel...?" fece Max allarmata, staccando l'orecchio dalla cornetta.
Dal ricevitore la voce urlò.
"Sono le undici e cinquantasette! Mancano tre minuti al coprifuoco! Max, esci da lì!"
Isabel si mise una mano davanti alla bocca e i suoi occhi chiari si
spalancarono all'inverosimile, quasi fossero in grado di gridare.
La cornetta cadde a terra.
"La batteria..." sussurrò la bionda da sotto il palmo. Il suo
corpo ebbe un sussulto e per la seconda volta rischiò di cadere.
"...la batteria dell'orologio...è scarica...si è fermato
alle dieci e ventidue."
Max dal canto suo sembrava aver perso la capacità di parlare. La
sua mano era rimasta aperta da quando aveva mollato la cornetta del
telefono; era come una statua di cera immortalata nell'atto di muoversi.
La sua mente era ricolma di pensieri, alcuni dei quali così vividi che parevano dialogare tra loro.
Corri. Corri idiota.
Non posso.
Perché?
E' troppo tardi, non farei in tempo.
Lascerai che ti prendano?
Io non voglio.
Allora corri.
NON POSSO!
"MAX!"
La ragazza si scrollò di dosso i pensieri, ritrovandosi davanti
Isabel che le stringeva le spalle con le mani. I suoi occhi erano
arrossati dalle lacrime.
"Resta qui! Sei al chiuso, sei in una casa, non ti potranno fare
nulla!" disse la giovane, trafelata. Il suo tono di voce trapelava
terrore puro.
Max scosse la testa in modo meccanico.
"Non sono in casa mia. Il presidente l'ha detto. Dobbiamo essere nella
nostra abitazione per evitare di finire nell'altra dimensione."
Sapeva tutte le regole a memoria, ogni piccola variabile, ogni possibile errore. Non aveva calcolato l'orologio scarico.
"Allora nasconditi! Nasconditi in casa da qualche parte, fino a domattina!"
"Mi troveranno."
Fuori dalla finestra qualcosa iniziò a suonare. Dagli enormi
autoparlanti attaccati ai lampioni uscì forte e chiara la voce
del presidente.
"Attenzione cittadini, questa non
è un'esercitazione. Sta per scattare il
coprifuoco. Ricordate tutti le istruzioni: rimanete all'interno del
vostro domicilio fino al mattino. Non fate assolutamente rumore. Anche
se vi sembrerà tutto calmo non uscite per alcun motivo. Un altro
avviso vi comunicherà il via libera."
La voce venne silenziata. Al suo posto il suono di una sirena riempì tutto il quartiere.
La sirena. Il coprifuoco violato. Era tutto dannatamente familiare.
"Devo andarmene..." sussurrò Max con un filo di voce.
La bruna si sarebbe aspettata di ricevere una protesta da parte
dell'altra; al contario, con un aggressività che non le
apparteneva, Isabel la strinse forte per il braccio e la
trascinò verso la porta.
"Allora vai...Corri!!"
Con quel grido la ragazza aprì la porta, strattonandola verso il
pianerottolo. Max non l'aveva mai vista in quello stato prima di allora.
Il movimento dell'amica la destabilizzò e per un attimo rischiò di cadere.
La bruna si resse al corrimano; fu in quel momento che le sue gambe
iniziarono ad agire da sole: non pensò più, non si
voltò per un saluto, non disse nulla.
Prima ancora di rendersene conto aveva iniziato a saltare gli scalini a
due a due, ritrovandosi ben presto al piano terra. Passò accanto
all'ascensore, notando con orrore come la luce al suo interno fosse
intermittente.
Era iniziata. Non aveva tempo.
L'ultima cosa che sentì prima di richiudersi la porta d'ingresso alle spalle fu l'urlo di Isabel.
"Non guardarli, Max! Non guardare nessuno di loro!!"
L'aria fredda dell'autunno le colpì il viso. Le foglie secche si
muovevano pigramente agli angoli del marciapiede, mentre folate di
vento di tanto in tanto ne raccoglievano qualcuna, facendola volare
poco più in alto.
Max iniziò a sentire gli occhi inumidirsi a contatto con
quell'ambiente pungente, ma non si concesse nemmeno un secondo per
passare una mano sul viso e cacciare via le lacrime. Continuò a
correre.
La sirena che gridava sulla sua testa era un incentivo sufficente a non distrarsi.
La ragazza guardava dritto davanti a sé. Le gambe bruciavano per
lo sforzo, i piedi battevano pesanti contro l'asfalto. Solo pochi
metri. Casa sua e quella di Isabel erano distanti circa dieci minuti a
piedi; particolare molto comodo quando erano ragazzine, si poteva avere
quasi la percezione di vivere nella stessa casa.
Ora quello spazio che separva le due abitazioni sembrava essere gigantesco.
Max strinse i denti, sforzandosi di accellerare la corsa. Sentiva il sangue riempirle la bocca.
Passò di fianco ad un lampione e questo d'improvviso ebbe uno
sfrigolio, come un vecchio film quando la cassetta è
danneggiata. Max sapeva cosa questo volesse dire.
Lo ricordava bene.
Correndo passò accanto ad un altro lampione e con la coda
dell'occhio vide la sua luce tremare. Dietro di lei qualcosa
scricchiolò in modo sinistro. Un suono così inusuale da
essere udibile nonostante l'assordante sirena.
Si costrinse a non guardare. Davanti a lei la strada si divideva in un
bivio e casa sua era sulla destra, mentre c'era un semaforo posizionato
verso sinistra.
La ragazza lo vide, sfocato a causa delle lacrime. Era fisso sul colore giallo.
Poi, con un forte schianto, il semaforo si riempì di spaccature.
I colori si alternarono a velocità crescente. Rosso. Giallo.
Verde. Rosso, giallo, verde, rosso, giallo, verde.
E infine questo sparì, ricomparendo sul lato opposto della strada.
Max decellerò la sua corsa di schianto, arrivando quasi a cadere.
Tutti i lampioni intorno a lei stavano lampeggiando. Il cielo era nero,
illuminato di tanto in tanto da lampi. Ma non erano veri e propri
fulmini, non c'era nulla di naturale in essi. Erano come frammenti di
vetro.
Alle spalle della ragazza qualcuno ridacchio.
"E ora dove andrò? Sono persa, persa per sempre."
La voce era il gracchiare di una cornacchia, era l'urlo acuto di un
bambino, le unghie su una lavagna. Alla giovane venne la pelle d'oca.
Dei passi si stavano avvicinando. Era qualcosa di pesante, che emetteva un tanfo nauseabondo. Era qualcosa di bagnato.
"Papino, aiuto, i mostri mi prenderanno!" cantilenò la cosa, emettendo nuovamente una risata sinistra.
Max si costrinse a non voltarsi.
La sirena stava ancora suonando, il che voleva dire che aveva ancora tempo. Poco, ma lo aveva.
Guardò in direzione del bivio, richiamando a sé tutte le
proprie conoscenze riguardo l'altra dimensione. Cosa avevano detto a
scuola? Cosa c'era su quella dannata lavagna mentre lei disegnava
teschi sul banco?
Si sforzò di mettere a fuoco il ricordo. Cartelli stradali.
Semafori. Piccole cose cambiavano durante il passaggio da una
dimensione all'altra. Ma non le intere case. Almeno finché la
sirena non smetteva di suonare.
Tornò con gli occhi sul semaforo. Lui aveva cambiato lato del marciapiede, ma casa sua no.
Con uno scattò ripartì, ignorando il tremito che le percosse le gambe. Alle sue spalle si avvertirono suoni umidi.
"Dove vuoi andare? Gioca con noi!"
La bruna si lasciò dietro quella voce e con una virata
imboccò la strada del suo quartiere; la porta del palazzo era a
pochi passi da lei. Un tuono particolarmente forte illuminò il
cielo, ed ella poté vedere l'intera abitazione tremare come
scossa da un terremoto. I vetri delle finestre si creparono. L'intonaco
cominciò a venire giù come neve a dicembre. Pochi secondi
e di tutto ciò non sarebbe più rimasto nulla. Non poteva
farcela.
Il portone principale si spalancò di botto.
Una figura magra e pallida comparve sull'uscio. aveva gli occhi cerchiati e il terrore più puro dipinto in volto.
"MAX!!" gridò la donna, tendendole la mano.
Quasi tutti i piani dell'edificio si erano già dissolti nel nulla. Restava solo l'androne.
La ragazza spalancò la mano.
"Mamma!"
D'improvviso la sirena tacque.
Successe tutto in un istante che parve durare una vita. Max fece un
balzo e afferrò la mano di sua madre. Sotto di lei l'asfalto era
diventato una melma nera che ribolliva e emetteva vapori nausebondi.
Qualcosa dentro quella melma si tese e afferrò la caviglia della
ragazza.
La bruna gridò, stringendo più forta la mano della genitrice.
"NO!" ringhiò la donna con una smorfia rabbiosa disegnata sul viso.
"Lei no!"
Con un forte strattone Elenor Rush tirò sua figlia oltre
l'uscio, strappandola da quella presa. Entrambe caddero all'indietro,
atterrando sul marmo dell'ingresso proprio nell'attimo in cui anche la
porta del palazzo si dissolveva, celandole agli sguardi famelici degli
esseri dall'altra parte.
L'ultima cosa che udirono prima che il portale si chiudesse fu una risatina. Una ristina gracchiante e acuta.
"Aspetteremo".
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Non posso credere di esserci riuscita! 2500 parole esatte!
E' la prima volta che partecipo ad un contest e non credevo che ce
l'avrei fatta! Spero davvero che la storia venga apprezzata, nonostante
non sia riuscita ad inserire tutti
i particolari a cui avevo pensato!
Fatemi sapere!