Griffin lo stuzzicava. Griffin era attratta da lui e dalla sua magia—e lo attraeva a sua volta, perché era bella e perché non si piegava, perché in fondo, forse, un po' lo capiva: non voleva solo strisciare attorno a lui e al suo potere, ma conquistarlo assieme. Era divertente ed erano simili, forse troppo. A volte diventava noioso stare con lei e ascoltarla finire le sue frasi o attendere che ridesse prevedibilmente alle sue battute.

  Faragonda invece non gliela dava mai vinta.

  Sapeva che sarebbero stati nemici, un giorno. Se lo sentiva scorrere nelle vene e per quelle cose aveva sempre un certo intuito, come se ogni sua cellula, ogni fibra del suo corpo, ogni goccia di sangue rispondessero alle vibrazioni di coloro che lo attorniavano e gli rivelassero chi avrebbe per lui rappresentato un ostacolo e chi, invece, si sarebbe inginocchiato.

  Faragonda non era forte quanto lui ma, cavolo, era testarda, non si arrendeva mai, da brava fatina fastidiosa. Non bastava la facciata da ragazzo educato ed elegante con lei, non si beveva una bugia che fosse una, pareva sempre saperne una più del diavolo — per quanto fosse un'ironia della sorte.

  Poteva anche combattere dalla parte degli angeli, ma non era decisamente una di loro.(1)

  E gli piaceva.

  Diamine se gli piaceva.

  E così nella mente di Valtor divenne vivida la scena in cui, in un futuro più che prossimo, loro due si sarebbero scontrati — e lui avrebbe vinto, ovviamente. Era lo scenario più romantico a cui riusciva a pensare e la più grande forma di amore e di rispetto che la sua mente riuscisse a concepire: se mai Faragonda sarebbe dovuta cadere, poteva star certa che lo avrebbe fatto per mano sua.


(1) Semi-citazione da Sherlock (BBC)