No one shines like
you anymore
8 aprile 1990
È una giornata grigia, una pressante coltre di nubi si
addensa in cielo e sembra voler togliere i colori al mondo, sbiadire
l’esplosione della primavera; un sottile vento fresco s’insinua tra gli alberi,
tra i vestiti leggeri e tra i capelli.
Ma, mentre mi guardo attorno spaesato, non è la brezza a
farmi rabbrividire: non mi sento per niente a mio agio in quel luogo pieno di
foto in bianco e nero ed epitaffi tracciati con lettere eleganti e fredde.
In realtà non so nemmeno cosa mi abbia portato qui: ho
sempre detestato i cimiteri e trovo che andare a trovare i propri cari sia
un’enorme stronzata. Insomma, se uno è morto e sepolto non c’è più niente da andare
a trovare.
Però oggi non so cosa mi sia preso, o forse lo so fin troppo
bene. È l’8 aprile.
Semplicemente sono uscito di casa e, con la custodia della
chitarra in spalla, ho lasciato che la mia mente mi conducesse in questo luogo,
senza quasi rendermene conto. E mi sento fottutamente stupido e ipocrita, ma
eccomi qui.
Sono stato in questo posto solo una volta, diversi mesi fa.
C’era lo stesso vento e lo stesso cielo grigio di oggi.
Scuoto il capo e mi avvicino lentamente a due lapidi. Si
trovano dietro un albero, nascoste dalla vegetazione e dimenticate da tutti;
non sono importanti, non sono in evidenza. Proprio come i loro proprietari. È
già tanto che abbiano un nome.
Mi accomodo a terra lì accanto, senza badare troppo al
terriccio e ai fili d’erba che mi s’incastrano tra i vestiti, poi lascio scorrere
lo sguardo sulla fredda scritta incisa sulla pietra.
Ives Mancini
8 aprile 1968 – 26 settembre 1989
Non ho il coraggio di sollevare gli occhi sulla foto, vedere
il volto allegro e così giovane del mio migliore amico che svetta sulla
lapide sarebbe come un pugno nello stomaco.
Così sposto lo sguardo sulla tomba accanto a lui, quella di
sua madre. Mi viene quasi da sorridere nell’accorgermi che entrambi sono
vissuti soltanto per ventun anni; quasi come fosse un segno del destino, quel
filo conduttore che ha unito le loro anime fragili e distrutte.
Ives ha sempre espresso il desiderio di essere seppellito
accanto a lei, alla donna che gli ha dato la vita e gliel’ha rovinata. Mi
domando come abbia potuto volerle così tanto bene, dato che non l’ha mai
conosciuta e che l’ha abbandonato appena una settimana dopo la sua nascita.
Ma Ives era fatto così, era una persona troppo buona per
conoscere e provare odio. Era troppo luminoso per questo mondo bastardo che
l’ha soltanto preso a schiaffi.
Mi lascio sfuggire un pesante sospiro e stringo i pugni.
Già, e io non sono stato diverso, ho dato il mio bel
contributo per demolirlo e farlo finire dentro una bara. All’improvviso mi
sento disgustato da me stesso, mi rendo conto che non ho nessun diritto di
stare qui; ed ecco gli ormai familiari sensi di colpa stringermi lo stomaco e contorcermi
le viscere.
Nel locale si era assiepato già un discreto numero di
spettatori, nonostante mancassero un paio d’ore all’inizio dello show; si
trattava principalmente dei seguaci dei Guns N’ Roses, la band per cui avremmo
dovuto aprire quella sera e che in quel periodo stava cominciando a emergere
nella scena musicale di Los Angeles.
Io mi ero rintanato dietro il palco con la mia chitarra e
una bottiglia di Jack Daniel’s, come sempre prima di un concerto importante; a
differenza di quei musicisti che facevano baldoria ore prima dello show, io
avevo bisogno di trovare la mia concentrazione ed essere abbastanza lucido per
spaccare sul palco. Suonare per me era come un rituale sacro, vi concentravo
tutte le mie energie e non avrei mai permesso che qualcosa andasse storto. Dopo
il concerto ci sarebbe stato tempo per festeggiare e divertirsi.
Nonostante Los Angeles brulicasse di musicisti – alcuni
erano davvero talentuosi – non conoscevo tante persone con la mia stessa devozione
per la musica, solo Ives mi poteva davvero capire a fondo.
Già, Ives. Quel giorno era in ritardo e non era da lui
quando si doveva esibire.
Cercai di non dare troppo peso alla cosa, sapevo che a
diciassette anni era abbastanza grande per badare a se stesso e poi io non ero
il suo baby sitter, ma non potevo fare a meno di sentire una punta di
preoccupazione ogni volta che volgevo lo sguardo all’ingresso del locale e non
lo vedevo entrare.
Tornai a concentrarmi sulla mia chitarra, la accordai e
controllai che fosse tutto in ordine, mi cimentai in qualche esercizio per
sciogliere le dita.
Quasi non mi accorsi della figura che mi raggiunse
qualche minuto più tardi; quando sollevai lo sguardo e la inquadrai, un milione
di domande mi si materializzarono in testa.
Ives era completamente zuppo di pioggia e tremava
vistosamente, i vestiti gli ricadevano pesantemente addosso e mettevano in
risalto il suo corpo troppo magro e minuto e le ciocche corvine gli si erano
incollate sulla fronte e sul collo. Sul viso delicato, ancora più cereo del
solito, spiccavano ancora di più i suoi occhi azzurri cerchiati di rosso,
insolitamente cupi e tempestosi.
Aveva camminato sotto la pioggia senza ombrello. Aveva
pianto. Era distrutto, c’era qualcosa che chiaramente lo angosciava.
Avevo avuto ragione a preoccuparmi.
Che cazzo hai combinato stavolta, Ives?
Tuttavia non gli
posi nessuna domanda, non era da me. Tra noi le cose non andavano così,
parlavamo solo quando ne avevamo bisogno e non ci chiedevamo mai niente, tanto sapevamo
tutto l’uno dell’altro senza bisogno di dircelo.
Mi limitai a
lanciargli un’occhiata interrogativa mentre si accomodava a terra accanto a me,
stringendosi le ginocchia al petto e rannicchiandosi nel tentativo di
scaldarsi.
“Da domani verrò
a stare da te, dormirò sul tuo divano” ruppe il silenzio Ives dopo qualche
secondo.
Sapevo che non ci
sarebbe voluto molto affinché parlasse.
Non ribattei e scrollai
solamente le spalle come per comunicargli che per me non c’era problema: avevo
un appartamento tutto mio, non avrei avuto problemi a ospitarlo… anche se
ancora non mi era chiaro il motivo.
Ives aveva una
casa, viveva con sua zia e le voleva molto bene, anche se spesso erano in
contrasto per la vita da sbandato che lui conduceva.
Doveva essere successo
qualcosa di grave.
“Ethan…”
“Mmh?”
“Mia zia mi ha
scoperto la coca e mi ha cacciato di casa.”
Rimasi in
silenzio, completamente allibito da quella novità.
Zia Maura non mi
era mai piaciuta, nonostante Ives ne parlasse sempre bene, ma quello era decisamente
troppo. Come poteva quella stronza buttare fuori di casa la persona che aveva
cresciuto e che ormai considerava un figlio, sapendo che non aveva un luogo in
cui andare? I miei fratelli non avrebbero mai fatto una cosa del genere.
Quelle erano le classiche
situazioni che mi facevano incazzare.
“Beh, che si
fotta. Da noi sei uno di famiglia, lo sai” affermai senza mezzi termini. Non
ero il tipo da esternare il mio disappunto o il mio dispiacere, ma ad Ives
doveva essere chiaro che io non l’avrei abbandonato come la sua famiglia. Qualsiasi
scelta avesse fatto Ives, qualunque strada avesse preso, era mio fratello e
sempre lo sarebbe stato.
Lui sorrise per
la prima volta da quando era arrivato, di quel sorriso pieno di gratitudine e
speranza che apparteneva solo ad Ives ed era in grado di illuminare una stanza.
Mi allungai per
afferrare la bottiglia semivuota di Jack Daniel’s e gliela passai, sperando che
l’alcol lo aiutasse a rilassarsi un po’, poi tornai a strimpellare la mia
chitarra.
Lui ne prese un
lungo sorso, poi poggiò la bottiglia a terra e fissò i suoi occhi nei miei,
mettendo su un sorrisetto furbo.
Quando faceva
così era un chiaro segnale che aveva avuto un’idea e che sicuramente sarebbe
stata stupida.
“Davi spaccia
anche eroina, vero?”
Ecco.
Già al nome di
mio fratello maggiore, il cuore mi era balzato nel petto.
Quel giorno
c’erano troppe cose che mi stavano facendo incazzare. Ora come poteva essergli
saltato in mente di provare quella merda?
“Non dire
stronzate, Ives Mancini” sibilai fermamente, cercando di contenere la rabbia
che mi divampava nel petto. Lasciai perdere la mia chitarra e mi posizionai
meglio sulla cassetta di birra rovesciata su cui sedevo, in modo da poter
osservare bene Ives.
Lui sostenne il
mio sguardo con una sicurezza che non gli avevo mai visto. “Non sto scherzando,
voglio provare l’ero.”
Ero furibondo.
Scattai in piedi e lo trucidai con lo sguardo dall’alto in basso. “Stammi bene
a sentire, Ives: tu quella merda non la tocchi. Ho visto clienti di mio
fratello che si sono fottuti il cervello e hanno mandato a puttane la loro
intera vita con l’eroina, non ti rendi nemmeno conto di cosa vuol dire.
D’accordo l’alcol, d’accordo la coca, ma l’eroina è troppo.” Cominciavo a
tremare per la rabbia e una voragine mi si era aperta nel petto: non potevo
permettere che Ives commettesse qualche stronzata.
Lui si mise in
piedi a sua volta, lentamente, e sollevò il capo per fronteggiarmi nonostante la
sua statura molto più minuta della mia. Quando incrociò il mio sguardo, lessi
nelle sue iridi azzurre tutta la sua disperazione, tutta la tristezza che
provava per essere ripudiato da sua zia, l’unica persona che l’avesse mai
amato. Vi lessi il disgusto che provava verso se stesso per aver deluso tutti e
per la vita che conduceva – che entrambi conducevamo. Quegli occhi azzurri, che
avevano sempre sorriso nonostante tutto il male che avevano visto, ora erano lo
specchio di un’anima spezzata.
Affilò lo
sguardo. “Con quella merda Davi ha tirato su tre fratelli e ti paga l’affitto
di casa.”
Quelle non erano
parole di Ives, non era in sé. Il mio migliore amico non avrebbe mai insinuato
qualcosa del genere. Non sarebbe mai stato così cattivo.
Gli posai una
mano sulla spalla e gliela strinsi appena – era terribilmente magro sotto la
maglia di cotone ancora umida – mentre prendevo un profondo respiro per tentare
di mantenere la calma. Non lasciavo mai che le mie emozioni esplodessero
all’esterno, ma quando succedeva dovevo fare uno sforzo immane per mantenere il
controllo e non spaccare tutto.
“Senti, troveremo
una soluzione, un’altra soluzione. La vita non finisce solo perché quella
puttana di Maura ti ha sbattuto fuori di casa, non è una ragione valida per
cedere a certe stronzate! Vuoi una dimostrazione? Stasera abbiamo un concerto,
apriamo per i Guns N’ Roses e abbiamo una carriera di fronte a noi, cazzo! Ci
siamo noi della band con te, c’è la musica, ci sono i nostri amici… che cosa
cazzo te ne fai dell’eroina, eh? Perché ora ti sei messo in testa che vuoi
rovinarti la vita con quella merda?”
Ecco, avevo
finito per urlargli contro, anche se mi ero ripromesso di non farlo. Non era il
modo più delicato per dimostrargli la mia preoccupazione, ma ero fatto così e
sperai che Ives lo capisse.
“Non mi puoi
impedire di farmi, lo sai? Se non mi farai portare una dose da tuo fratello
entro stasera, io cercherò un altro spacciatore e mi farò comunque, ma non so
quanto ti convenga. Visto che sei così tanto preoccupato, dovresti lasciarmi
comprare da Davi, dato che sei certo che abbia roba di qualità e che non mi
farà male” replicò cocciutamente, incrociando le braccia al petto.
“Cos’è, una
minaccia?” ringhiai.
“No, un dato di
fatto. Del resto non sei tu quello che detesta le imposizioni altrui? Non sei
tu che sostieni sempre che ognuno è libero di badare a se stesso e pensare con
la sua testa?”
Strinsi i pugni
fino a farmi sbiancare le nocche. Era vero, non potevo impedirgli di fare
qualcosa, sarebbe stato davvero ipocrita da parte mia. Ero il primo che si
innervosiva quando qualcuno cercava di imporgli o impedirgli qualcosa, mi
ritenevo abbastanza grande da poter ragionare con la mia testa e per Ives
doveva essere lo stesso.
Per quanto fossi
in ansia all’idea che prendesse l’ero, non era mio compito prendere delle
decisioni al posto suo; io, al contrario, non avrei mai sopportato che lui si
frapponesse tra me e qualcosa che volevo.
“Chiamerai Davi?”
mormorò Ives, sbattendo un paio di volte le palpebre con aria supplichevole.
La mia mano
sinistra era ancora posata sulla sua spalla e in quel momento avvertii il suo
corpo tremare appena sotto la mia stretta, avevo l’impressione che si sarebbe
sgretolato da un momento all’altro, che sarebbe crollato lì davanti ai miei occhi.
Era così tanto
fragile…
Annuii appena,
per niente convinto. “Hai vinto. Lo chiamerò ed entro stasera avrai la tua
dose” affermai in tono piatto, mentre l’angoscia mi strizzava il cuore nel
petto.
Quanto cazzo sono
stato stupido quella volta? Come ho potuto cedere in quel modo e dare retta
alle richieste di Ives in un momento in cui non era affatto lucido?
Se solo avessi
cercato di dissuaderlo, se solo l’avessi tenuto lontano da quei pensieri così
sbagliati… se solo quella sera avessi opposto resistenza, solo per una sera,
Ives sarebbe riuscito a superare quell’attimo di profonda angoscia e avrebbe
lasciato perdere l’eroina.
Lui era fatto così:
ogni evento lo colpiva come un pugno in pieno volto e lo buttava giù con forza,
ma riusciva anche a rialzarsi con incredibile facilità. Se solo non gli avessi
praticamente ficcato un ago in vena, forse ora sarebbe ancora qui.
È tutta colpa mia.
Mi ero ripromesso di proteggerlo e di non abbandonarlo mai, lui che era l’unico
a capirmi sempre senza bisogno di parlare, lui che era il mio fratellino
troppo buono e ingenuo.
Invece sono qui a
trascorrere il suo ventiduesimo compleanno in un cimitero del cazzo. Tutto per
colpa di quel piccolo dettaglio, tutto perché sono un maledetto figlio di
puttana che ha trascinato sulla cattiva strada un ragazzo incapace di difendersi.
Mi alzo, scaravento
la custodia della chitarra sulla tomba di Ives – non so nemmeno se si possa
fare, magari è blasfemo, ma me ne fotto – e le do le spalle. Che diritto ho di
stare qui e piangermi addosso? Che diritto ho di essere triste dopo aver spinto
il mio migliore amico al suicidio?
Gli occhi mi si
appannano di rabbia e disperazione, forse vorrei piangere ma non lo so neanche
io. Non piango mai, l’ultima volta avevo quattro anni.
Prendo a calci un
sasso, lo tiro lontano e non mi preoccupo di dove va a schiantarsi. Forse
meriterei che tornasse indietro e colpisse me, sarebbe una degna punizione.
Col fiato corto, mi
sorreggo per un istante al fusto del decadente albero a pochi passi da me; una
folata di vento gelido mi sferza il viso, ma non può farmi niente, il mio cuore
è congelato già da troppo tempo.
In preda alla
rabbia, sferro un pugno al tronco dell’albero, talmente forte che ho
l’impressione si possa spezzare. Qualche scheggia mi si conficca all’altezza
delle nocche, un rivolo di sangue mi scivola tra le dita, ma io non sento
niente: il dolore che provo dentro è più forte.
Per fortuna il
cimitero è deserto, se qualcuno mi vedesse mi prenderebbe per pazzo. Ah, ma che
me ne fotte in fondo? Che pensino quello che vogliono, ho già i miei sensi di
colpa con cui fare i conti.
Finalmente ho il
coraggio di lanciare una fugace occhiata alle due lapidi alle mie spalle e il
mio sguardo viene catturato da quello azzurro di Ives, così luminoso, così puro,
così vivo. Quel color cielo è la cosa che spicca maggiormente in quella
foto sbiadita, è così tanto brillante da voler sfidare la morte.
Quando sono arrivato
qui mi sono ripromesso di non guardare quella dannata foto, di non osservare
quel viso troppo giovane per stare accanto a un epitaffio; non voglio
ricordarlo in una triste cornicetta arrotondata, lo voglio ricordare allegro e
pieno di vita così come l’ho conosciuto.
“Tutto sta nel
darsi la giusta spinta, prendere la giusta velocità e stare in equilibrio”
affermai, picchiettando con la punta della scarpa sul bordo del mio skate.
Ives mi osservò
spaesato e abbassò lo sguardo sulla tavola variopinta; non sembrava tanto
convinto.
Trattenni un
sorriso. L’avevo conosciuto giusto qualche minuto prima e mi aveva da subito dato
l’impressione di essere un bambino troppo innocente per la vita di strada, per
quel quartiere dove la crudeltà non faceva sconti a nessuno e pure i dodicenni
andavano in giro armati. Forse era abbastanza debole e potevo approfittarmene,
ma prima dovevo inquadrarlo meglio.
“Te la fai sotto,
eh?” lo punzecchiai, dandogli di gomito.
Lui sobbalzò e
per un istante temetti di avergli fatto male – era uno scricciolo, non
dimostrava per niente i suoi otto anni – poi sollevò il capo e mi fissò offeso.
“Non ho paura, è solo che… adesso ti faccio vedere io!” dichiarò solennemente,
poggiando con decisione il piede sinistro sullo skateboard.
Non riuscii a
trattenere una risatina: non era assolutamente credibile anche se cercava di
fare il duro, era troppo tenero. Forse sperava di riuscire a entrare nelle mie
grazie e farmi una buona impressione; del resto gli si erano illuminati gli
occhi quando gli avevo rivolto la parola. Era come se morisse dalla voglia che
qualcuno si accorgesse di lui.
Indietreggiai di
un passo e lo scrutai, in attesa che si desse lo slancio sullo skate. “Senti,
evita di spezzarti l’osso del collo, non voglio avere nessuno sulla coscienza a
nove anni. E vedi di non rovinarmi lo skate, ci ho messo settimane a
verniciarlo.”
Ives sgranò gli
occhi e si soffermò a guardare il drago rosso, giallo e nero sulla tavola, sorridendo
ammirato. “Hai fatto tu questi disegni?”
Incrociai le
braccia al petto. “Ti sembra così tanto strano?”
“Sei bravissimo,
io non so disegnare per niente!” esclamò e i suoi grandi occhi azzurri brillarono.
Piegai appena la
testa di lato: quel marmocchio si entusiasmava per ogni piccola fesseria, era
incredibile. C’era qualcosa in lui che mi piaceva e che non avevo mai visto in
nessun altro bambino, forse perché ero cresciuto in mezzo ai criminali ed ero
sempre stato addestrato a essere duro e diffidente.
“Stai perdendo
tempo, marmocchio. Ancora non sei salito sullo skate, ho ragione a dire che te
la fai sotto!” commentai con uno sbadiglio.
Ives aggrottò le
sopracciglia – non voleva essere noioso ai miei occhi – e si voltò, puntando lo
sguardo dritto davanti a sé. “Ti ho detto che non ho paura!”
“È divertente
prenderti per il culo.”
Fu l’ultima cosa
che feci in tempo a dire, prima che Ives si desse lo slancio con il piede
destro che stava ancora a terra. Lo vidi agitare le braccia in aria per alcuni
istanti nel tentativo di trovare un equilibrio e fece appena in tempo a posare la
suola destra sulla tavola, prima che lo skate gli sfuggisse da sotto le scarpe;
venne sbalzato all’indietro e cadde su un fianco, sollevando una nuvola di
polvere.
Prevedibile che
accadesse. Per fortuna non gliel’avevo fatto provare sul cemento o per strada,
si sarebbe potuto fare male sul serio.
Mi avvicinai
lentamente a lui ridacchiando e mi accovacciai al suo fianco con un ghigno
divertito. “Tutto bene?”
Lui si mise
subito seduto e scacciò via un po’ di polvere dalla sua maglietta con le mani
tremanti per lo spavento; era palesemente imbarazzato, le guance gli erano
andate in fiamme e non si azzardava ad alzare lo sguardo su di me. Prese un
respiro profondo e si rimise in piedi di tutta fretta, andando a recuperare il
mio skate che si era allontanato di qualche metro nel grande piazzale.
Aggrottai le
sopracciglia e lo seguii, per poi dargli una pacca sul braccio e attirare la
sua attenzione. “Ti ho chiesto se va tutto bene.”
“Sì.” Si chinò a
raccogliere la tavola e la esaminò per capire se la vernice si fosse rovinata in
qualche punto.
Era appena caduto,
gli si erano sbucciate le ginocchia e i palmi delle mani, e lui si preoccupava
del mio skateboard. Quell’Ives aveva dell’incredibile.
Lo aggirai e mi
piazzai davanti a lui, gli strappai l’oggetto dalle mani e lo scaraventai a
terra, allontanandolo col piede. “Guardami.”
“Uff, cosa vuoi?”
borbottò, mettendo su il broncio. Non voleva alzare la testa e le ciocche
lunghe e corvine gli coprivano gli occhi.
“Cazzo, ti ho
detto: guardami” ripetei, indurendo il tono della voce.
Forse stavo
esagerando a parlargli in quel modo, Ives sembrava turbato dalle parole troppo
forti, ma per me erano sempre state normali.
Allora il
ragazzino alzò finalmente lo sguardo e nei suoi occhi celesti, prima così
allegri e luminosi, trovai un mare di imbarazzo.
Quegli occhi
erano lo specchio della sua anima. Proprio come si leggeva in alcuni libri.
“Ho fatto una
bruttissima figura” mormorò infine, arrossendo nuovamente.
Dio, ma come
avevo fatto a pensare di approfittarmi di quel bambino? Era talmente dolce che
mi sentivo male alla sola idea, al massimo potevo fare in modo che non si
rompesse a ogni minimo urto.
Scoppiai a ridere
e gli diedi una leggera e amichevole spinta. “Ah, ma vaffanculo, pensavi
davvero di riuscirci al primo colpo? Era ovvio che saresti caduto! Ma ci
riproveremo, ti insegnerò io. Del resto sono stato io a proportelo, no?”
Ives sgranò gli
occhi incredulo. “Mi stai dicendo… che mi presterai di nuovo il tuo skate?”
“Sì. Ma non
romperti l’osso del collo.”
Lui si aprì in un
enorme sorriso e i suoi occhi tornarono a brillare più del cielo azzurro sulle
nostre teste. Parlavano sempre al posto suo, quegli occhi grandi da bambino.
“Grazie Ethan,
grazie! Sei un amico!” cinguettò.
Per un attimo
credetti che mi avrebbe addirittura abbracciato da quanto era contento e sperai
che non lo facesse, non mi piacevano i gesti affettuosi.
Mi accascio
nuovamente per terra e per la prima volta sfioro con le dita quella pietra
fredda e anonima. Non posso credere che questo sia tutto ciò che rimane di
Ives.
“Meu
irmãozinho” mi lascio sfuggire in
portoghese, la mia lingua d’origine. Quando parlavo con i miei fratelli mi
piaceva definirlo così, come il mio fratellino, anche se Ives non l’ha
mai saputo. Ma non esiste modo migliore per definirlo: io stravedevo per lui,
avrei fatto qualsiasi cosa per lui, mi sarei anche fatto ammazzare se fosse
stato necessario. Gli ho insegnato tutto ciò che sapevo, l’ho tenuto lontano
dalle dinamiche degli spacciatori e della malavita, gli ho regalato il suo
primo tatuaggio, l’ho ospitato quando si è ritrovato senza una casa e mi sono
preso cura di lui quando si è ammalato.
Era il minimo che
potessi fare per lui, dato che è successo tutto a causa mia. E anche questo non
è bastato, non c’è sacrificio sufficiente che valga la vita di una persona.
E adesso sento un macigno
che mi preme sul petto e agli angoli degli occhi, qualcosa che mi annienta e mi
fa sentire tutto tranne che un uomo.
Come posso esprimere
tutto questo dolore che mi arde dentro?
All’improvviso mi
ricordo della chitarra che mi sono portato appresso e allungo una mano per
afferrare la custodia. La musica è l’unica via d’uscita per le mie emozioni e
l’unica porta d’ingresso che gli altri hanno per scorgere il mio cuore; forse è
per questo che ho afferrato la mia chitarra subito prima di uscire, senza nemmeno
rifletterci su.
Anche se aprire la
zip della custodia mi riporta alla mente tutte le volte che l’ho fatto in sala
prove insieme ad Ives e gli altri ragazzi della band. Quanti progetti avevamo
in mente, quante sbilenche melodie abbiamo composto, quanti palchi abbiamo
calcato e quanti altri abbiamo sognato di fare nostri.
Anche se accordare
la chitarra mi ricorda tutte le volte che l’ho fatto per Ives quando stava male.
Non si era mai stancato di sentirmi suonare, mai, nemmeno nel momento in
cui si era stancato di vivere.
Quando il primo
accordo si sprigiona dalle mie dita, tutto tace attorno a me; anche il vento si
è fermato, come se volesse lasciare a me la scena e ascoltarmi in silenzio.
Feci il mio
ingresso nella zona giorno e mi lasciai sfuggire un pesante sospiro.
Ives era sempre
lì, sul mio divano, coperto da un lurido piumone e con gli occhi socchiusi;
attorno a lui era tutto un cimitero di siringhe usate, pacchetti vuoti e
accartocciati, lacci emostatici e fazzoletti sporchi di sangue. I suoi occhi
celesti erano diventati di un blu sporco e spento, la pelle era così pallida e
sottile che sembrava sul punto di rompersi da un momento all’altro, pareva
quasi che le ossa troppo sporgenti la potessero bucare.
Ogni volta che
posavo lo sguardo sul mio amico, mi sentivo sempre più disgustato e mi chiedevo
se tutto ciò stesse accadendo davvero. Ai suoi occhi sembravo sempre così
sicuro e impassibile, come se avessi la situazione sotto controllo e ospitarlo
a casa mia non mi facesse male, ma la verità era che non sapevo come lottare
contro quel mostro che era l’AIDS e che si stava portando via Ives.
Contro l’eroina
forse avrei potuto fare qualcosa, se solo lui avesse voluto. L’avrei potuto
portare in rehab, chiudere tutti i ponti con gli spacciatori, prenderlo a
schiaffi finché non si fosse convinto che era il caso di darci un taglio.
Ma cos’ero io
contro l’AIDS? Cosa potevo fare? Assolutamente niente, ero inutile e questa
cosa mi mandava in bestia.
Ogni giorno
entravo in casa col timore di trovarlo morto. Si faceva in continuazione nella
speranza di andare in overdose e smettere di soffrire, tanto sapeva che la
malattia l’avrebbe ucciso di sicuro e preferiva morire prima di stare troppo
male.
Ives si accorse
della mia presenza, ma non mi salutò e io feci altrettanto. Funzionava sempre
così tra noi.
Mi avviai verso
l’angolo in cui tenevo le mie chitarre – ne avevo una classica e due elettriche
– per riporre la custodia che avevo in spalla, ma all’improvviso un oggetto
catturò la mia attenzione: era il basso di Ives, abbandonato con malagrazia
accanto alle mie chitarre e coperto da una patina di polvere. Da quanto tempo
non lo prendeva tra le braccia, non lo accordava e non lo suonava? Da quanto
tempo quella scintilla si era spenta in lui?
Strinsi i pugni e
mi morsi la lingua per non imprecare. Ero così nervoso che avrei potuto
prendere a pugni quel fottuto basso e anche il suo proprietario.
Poi mi resi conto
che esisteva un altro modo per sfogarmi, un modo molto più sano.
Afferrai
nuovamente la custodia della chitarra classica, presi posto sul divano accanto
ad Ives e aprii la custodia in silenzio.
Il mio amico aprì
finalmente gli occhi e osservò i miei movimenti con sguardo appannato e
affaticato.
Nessuno dei due
fiatò, non ne avevamo bisogno.
Semplicemente imbracciai
il mio strumento e cominciai a suonare. Cover di canzoni famose, brani che
avevamo composto, assoli inventati sul momento: tutto ciò che mi veniva in
mente, tutti gli accordi e le note che le mie dita inseguivano. Riversai
completamente su quelle sei corde tutto il dolore, la frustrazione, la rabbia e
la sofferenza che provavo; suonai col cuore, con l’anima, come ero abituato a
fare.
Quando sollevai
lo sguardo e incontrai gli occhi di Ives, il mio cuore perse un battito.
Per la prima
volta dopo settimane, forse addirittura mesi, una fioca luce si era accesa
nelle sue iridi, rischiarandole un po’.
E stava
piangendo. Qualche lacrima era sfuggita al suo controllo e ora gli rigava il
viso diafano.
“Ethan?” mormorò.
“Dimmi.”
“Ti prego,
continua a suonare.”
“Lo sto già
facendo.”
Ives cercò di
raddrizzarsi il più possibile sul divano e fece scorrere per qualche istante un
polpastrello sul manico della mia chitarra. “Ma lo farai altre volte, vero? Io
adoro sentirti suonare.”
Era vero, me
l’aveva sempre detto.
Quindi quello lo
rendeva felice? Bastava sentire la mia musica per farlo stare un po’ meglio?
“Suonerò tutte le
volte che vorrai” gli promisi.
Feci scivolare
nuovamente la mano sul manico della chitarra, pronto a proseguire quel concerto
improvvisato solo per lui.
Ives aveva ancora
l’indice premuto sul legno; per un istante le nostre dita si sfiorarono e mi si
strinse il cuore.
Le sue mani erano
così tremendamente fredde.
Come se fossero
già prive di vita.
Suono. Fino a farmi
sanguinare le dita e il cuore. Fino a far rivoltare le anime sepolte in questo
cimitero, se necessario.
Suono e suono
ancora, tutte le canzoni degli Storm It Down – io e Ives le abbiamo composte
insieme, era la nostra band – e stupidamente mi domando se questo
potrebbe farlo stare meglio anche adesso.
Anche se tanto non
serve a un cazzo, di Ives non è rimasto più niente. È morto, se n’è andato per
sempre, la sua luce si è spenta e io non lo rivedrò mai più.
E io sono soltanto
un pezzo di merda che suona davanti a una serie di pietre inanimate, senza
averne nessun diritto.
Non riesco a
piangere, ma la mia chitarra piange per me e il vento porterà via tutte le
lacrime.
Non sono riuscito a
proteggere il mio fratellino, l’unica persona che mi abbia veramente
amato in maniera incondizionata e che si è fidato di me. Gli avevo promesso che
sarei stato la sua casa, la sua famiglia, la sua roccia e invece sono stato il
suo veleno.
Se solo quel giorno
non avessi chiamato Davi per chiedergli una dose, se solo il suo subordinato
non l’avesse consegnata ad Ives…
Se solo il mio amico
non si fosse bucato la pelle troppo delicata per la prima volta, non sarebbe
mai scivolato nel tunnel dell’eroina.
E se solo non fosse
diventato un fottuto eroinomane, non si sarebbe preso l’AIDS.
Dovevo proteggerlo.
E ora invece non
riesco a proteggere nemmeno me stesso da questo peso che mi porterò appresso
per il resto dei miei giorni.
È forse una lacrima,
quella gocciolina rovente che corre sulla mia guancia sinistra?
Di qualsiasi cosa si
tratti, la brezza di aprile la asciugherà.
Smetto di suonare, chiudo
gli occhi e poso la guancia su quella stupida pietra grigia e fredda. “Buon
compleanno, fratello.”
♠ ♠ ♠
Sto piangendo dalla
gioia perché sono riuscita FINALMENTE a scrivere questa storia che mi ronzava
in testa da un po’ e perché sono riuscita a consegnarla per il contest di
Vintage! Blocco dello scrittore, non l’avrai vinta! u.u
Che dire? È la
primissima storia che scrivo dal punto di vista di Ethan ma, statene pur certi,
non l’ultima. Non so se essere soddisfatta o meno del mio lavoro (forse proprio
per via del blocco), ma spero di essere riuscita a rendere al meglio il
carattere di Ethan. È un personaggio molto molto complicato e non vedo l’ora di
rendervi partecipi del suo passato!
Non mi dilungo
troppo (anche perché adesso parte un’altra corsa contro il tempo, in quanto c’è
un altro contest che scade oggi e vorrei tanto provare a consegnare anche
quella storia), ma lascio qualche piccola annotazione per la giudice e per
coloro che non conoscono la serie:
- Ives Mancini ha alle spalle un passato
difficile. Tra le altre disgrazie che gli sono capitate, è il frutto di uno
stupro ai danni di sua madre (Veronica ‘Niki’ Mancini), che però non ha voluto
abortire; tuttavia, una volta che suo figlio è nato, lei non ha potuto sopportare
di vedere tutti i giorni il frutto della violenza subita e si è suicidata
quando Ives aveva solo una settimana. Da allora è stata la sorella maggiore,
Maura Mancini (la famosa zia Maura) a prendersi cura di lui e a crescerlo come
se fosse un figlio suo.
- Ives ha conosciuto Ethan per strada, in
quanto i due vivono in un quartiere allo sbando dove i bambini vanno in giro
senza particolari regole e senza controllo da parte della famiglia. Ethan ha un
fratello maggiore (Davi) che è un importante spacciatore e tramite questo
traffico riesce a mantenere i suoi fratelli (ma di questo se ne parlerà meglio
in un’altra storia); ecco perché può pagare l’affitto dell’appartamento di
Ethan. Davi procura anche la cocaina ai ragazzi – e successivamente ad Ives
l’eroina.
- Tra le altre cose che condividono, Ives e
Ethan hanno messo su una band, gli Storm It Down. Quando accenno al fatto che
apriranno per i Guns N’ Roses, accenno al concerto che Ives e la sua band hanno
tenuto nel novembre dell’85 secondo la mia story line, di cui ho parlato in
un’altra occasione. All’epoca anche i Guns erano un gruppo emergente.
- L’8 aprile (come cita anche l’epitaffio) è la
data di nascita di Ives; nel 1990 avrebbe compiuto ventidue anni.
È tutto! Spero di
essere riuscita a spiegare ogni altra cosa durante la narrazione e che le
dinamiche siano chiare per tutti ^^
Grazie a chiunque
sia arrivato fin qui e chi deciderà di lasciare un commento! :3
Alla prossima!!! ♥
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