In The Still Of The Night - 1
È
passato davvero molto tempo dall’ultima volta che ho scritto e pubblicato una
fan fiction. Sono molto arrugginita e voglio scusarmi sin da subito con voi se
quello che leggerete di seguito non è proprio il massimo, ma come si dice di
solito, siamo qui per divertirci, no?
Per
lo stesso motivo di cui sopra, cercherò di essere il più costante possibile nel
portare avanti la storia e spero anche che l’entusiasmo che mi ha travolta
negli ultimi giorni, lo stesso che mi ha portata ad iniziare questa nuova
avventura, rimanga con me il più possibile per aiutarmi nella scrittura.
A
presto!
In the
still of the night
1.
-
È stato tutto per le telecamere – dice Peeta. – Il tuo modo di comportarti.
-
Non tutto – preciso, restando saldamente aggrappata ai miei fiori.
-
Allora quanto? No, lascia perdere. Immagino che la vera domanda sia: cosa
resterà quando torneremo a casa, vero? – chiede.
-
Non lo so. Più ci avviciniamo al Distretto 12, più sono confusa – rispondo. Lui
aspetta, aspetta altre spiegazioni, ma non ne ho.
-
Be’, fammi sapere quando l’avrai capito – dice, e il dolore nella sua voce è
palpabile.*
Il
treno continua la sua corsa, va ad una velocità così elevata che tutto quello
che riesco a vedere dai finestrini è un’unica ed indistinta macchia verde. Non
riesco a capire dove ci troviamo di preciso, ma so che tra qualche ora al
massimo, nel primo pomeriggio, arriveremo al Distretto 12.
A
casa.
Non
speravo che ci sarei tornata di nuovo.
Non
ho sperato in un sacco di cose nelle ultime settimane, ma contro tutte le mie
aspettative sono qui, sono viva. Sono sopravvissuta agli Hunger Games.
E
sto tornando a casa.
Sembra
assurdo, ma è così.
Ho
la testa poggiata sullo schienale del divanetto e continuo ad osservare il
panorama indistinto. Lo stomaco inizia a brontolare per la fame, ma non voglio
andare nel vagone ristorante per la colazione. Anche nel caso in cui stessi
letteralmente morendo di fame, non voglio che gli altri vedano il mio viso, e soprattutto
non voglio che lo faccia Haymitch: troverebbe subito qualche commento sarcastico
da affibbiarmi.
Prima
mi sono guardata allo specchio e ho visto che le mie occhiaie, di un orrendo
color viola, facevano bella mostra di sé; non sono di certo un gran bello
spettacolo da condividere anche con gli altri.
Stanotte
non sono riuscita a dormire. Ci ho rinunciato dopo il primo incubo. Per alcuni
interminabili secondi ho creduto di trovarmi ancora nell’arena, circondata
dalle orrende creature che qualche giorno fa hanno ucciso Cato, e ho tirato un
sospiro di sollievo quando ho sentito la morbidezza del materasso e il fruscio
delle lenzuola pulite, capendo di essere al sicuro. Al mio cuore, però, ci è
voluto molto più tempo per calmarsi.
Sono
rimasta distesa nel letto senza riuscire a trovare il coraggio per provare a
riaddormentarmi. Che codarda, mi sono detta. Sapevo che avrei dovuto
quantomeno provarci, in vista anche di quello che mi sarebbe aspettato
l’indomani: il ritorno al Distretto, le telecamere, la folla di gente che ci
avrebbe accolto per festeggiare la vittoria.
Come
se fosse giusto definire “vittoria” l’avere ucciso dei ragazzi, alcuni dei
quali miei coetanei. Come se fosse giusto aver preso e strappato via delle vite
per poter riuscire a salvare la mia e quella di Peeta.
Ma
essere sopravvissuta dovrebbe avere anche dei risvolti positivi,
ho pensato. Non sei morta, puoi tornare alla tua vita prima dei giochi…
come se fosse possibile cancellare queste ultime settimane e riprendere tutto
come era prima.
Perché
è vero, da una parte: tornare a casa significa poter rivedere e riabbracciare mia
madre e Prim. Significa poter rivedere Gale. Posso tornare alle mie vecchie
abitudini, alla caccia.
Ma
allo stesso tempo è tutto cambiato, e so che alcune cose non saranno più le
stesse. Come vincitrice, non dovrò più tornare a vivere al Giacimento. Ogni
vincitore degli Hunger Games ha diritto a un premio in denaro che durerà per
tutta la sua vita e, in più, ha diritto ad una casa nel Villaggio dei
Vincitori.
Una
casa nuova. Una casa calda, pulita, una casa in cui poter vivere
dignitosamente… non solo per me, ma anche per mia madre e Prim. Finalmente
smetteremo di soffrire la fame.
Io
e Peeta saremo vicini di casa. Saremo i vicini di casa di Haymitch.
Cavolo,
questa è l’unica nota stonata della situazione.
No,
non l’unica. Questa lista di pro e contro ne ha anche un’altra.
Significa
anche dover continuare ad inscenare la storia degli innamorati sventurati. Ne
avrei volentieri fatto a meno, perché io non sono brava a recitare né tantomeno
a mentire. Sembra che tutto quello a cui stia pensando mi si legga in faccia.
Sono un libro aperto. Haymitch, la bocca della verità, continua a ripetermelo
ogni volta che ne ha l’occasione.
Ma
ormai non si può più tornare indietro: per tutta la popolazione di Capitol
City, per tutta la popolazione di Panem, io e Peeta siamo due ragazzi innamorati.
Innamorati che avrebbero preferito morire insieme piuttosto che scegliere di uccidersi
l’un l’altro.
Ammetto
di essere stata egoista e di aver agito per puro istinto di sopravvivenza: se
mostrarmi innamorata di Peeta mi avrebbe aiutato ad uscire viva dall’arena, beh
poteva anche andarmi bene. Ed è andata come speravo, anzi, meglio di quanto mi
aspettassi: siamo usciti vincitori entrambi, quando solitamente è solo un
tributo a trionfare su tutti gli altri.
E
la trovata delle bacche velenose… no, al presidente Snow non è proprio andata
giù.
Ed
è questo il motivo principale per cui dovrò continuare a fingere. Peeta non
fingerà, perché lui non lo ha mai fatto e non ha certo bisogno di iniziare a
farlo adesso. Non ha mai mentito nell’arena e non lo ha fatto nemmeno durante
l’intervista con Caesar.
Peeta
è davvero innamorato di me.
E
questa proprio non ci voleva.
Sono
rimasta sopraffatta dalle sue parole e dalla sua reazione di ieri, quando ha
capito che la mia è stata tutta una messinscena, una recita per le telecamere.
Non se lo aspettava, ha creduto che anche io provassi qualcosa e, ad essere
sincera, se fosse stato così sarebbe tutto decisamente più semplice.
Sarebbe
molto più semplice proseguire la recita se fossi veramente una ragazza innamorata,
ma credo di non esserlo.
Voglio
dire… so di non essere innamorata di lui, e so anche che un sentimento
come l’amore non può nascere a comando, grazie ad uno schiocco di dita. I
giorni trascorsi insieme nell’arena ci hanno dato la possibilità di aprirci un
po' l’una con l’altro, ma non è stato sufficiente. E come poteva esserlo, visto
il posto in cui ci trovavamo? Con la falce della Morte sempre posizionata sopra
le nostre teste, pronta a colpirci da un momento all’altro?
In
fondo non lo conosco, non so quasi nulla di lui. Prima dell’arena non c’era mai
stata una vera e propria occasione in cui avremmo potuto conoscerci o
frequentarci. Se non ci fossero stati gli Hunger Games di mezzo, forse non gli
avrei neanche mai rivolto la parola.
Se
il nome di mia sorella non fosse stato estratto durante la mietitura, se io non
mi fossi offerta volontaria al suo posto… non sarebbe successo tutto questo.
Forse
a quest’ora sarebbe morto.
Ed
io avrei continuato a non sapere quasi nulla di lui.
È
ingiusto da parte sua darmi la colpa per un sentimento che non riesco a capire
fino in fondo, che non ho mai provato fino ad ora ed in cui non ho mai creduto
davvero.
Ho
sempre pensato che non mi sarei mai innamorata. L’amore, il colpo di fulmine,
per me sono solo delle storie, come quelle che si raccontano ai bambini prima
di dare loro la buonanotte e per dimostrare loro che, dopotutto, il mondo è un
bel posto dove vivere.
Ma
i bambini crescono, e un giorno capiscono che tutte quelle storie non sono
vere, che il mondo non è bello. Che il Distretto non è bello, anzi, è un luogo
triste e doloroso in cui vivere, dove ogni giorno significa intraprendere una
scalata per sopravvivere e che non sempre, una volta che hai raggiunto la cima,
troverai la sicurezza e il benessere di cui hai così tanto bisogno.
Ed
io l’ho capito presto, troppo presto.
È
per questo che non riesco a comprendere l’amore, quel sentimento e quel motivo
che ti spinge a dare fiducia a qualcuno, un qualcuno con cui poter condividere
la vita e costruire una famiglia. Dare la vita.
Come
potrei dare la vita in un mondo come quello in cui viviamo? Perché dovrei
mettere al mondo dei figli, dei bambini, da crescere e da amare fino al giorno
in cui verranno sorteggiati per andare a morire lontano da casa?
E
per cosa? Per fornire un divertimento agli annoiati abitanti di Capitol?
Non
è questo quello che voglio.
-
Katniss?
Mi
volto, sorpresa. Non ho sentito il rumore della porta che si apriva. Peeta è
sulla soglia e mi osserva, incerto. Le sue sopracciglia sono inarcate.
-
Hey – è tutto ciò che riesco a dire. Non mi aspettavo una sua visita ad essere
sincera; dopo quello che è accaduto ieri, ho cercato di evitarlo il più
possibile. È anche per questo che ho saltato la colazione.
-
Non c’eri prima a colazione. Stai bene? – mi chiede, infatti.
Non
posso fare a meno di sorridere; nonostante tutto, si è preoccupato per me. È
anche per questo che non riesco a capirlo: è una persona così buona, ed io
sono… io. Che cosa ci ha trovato in me tanto da innamorarsi?
-
Sì, sto bene. Sono solo… stanca. Non sono riuscita a dormire stanotte – in
fondo è la verità, non è del tutto una bugia.
-
Incubi? – azzarda.
-
Come fai a saperlo?
-
Li ho avuti anche io - Peeta mi raggiunge dopo aver chiuso la porta alle sue
spalle. Prende posto sulla sedia più vicina a me e incrocia le dita. Lo strano
sorriso che compare sul suo viso sembra voler spiegare ogni cosa. – Dalla prima
notte dopo gli Hunger Games, a dire la verità.
-
E non mi hai mai detto nulla?
-
Non pensavo che fosse qualcosa che volessi sapere – ammette scrollando le
spalle.
E
qui si sbaglia di grosso, vorrei dirglielo ma non ci riesco. Le sue parole
fanno di nuovo male, e come se questo non bastasse, vedere il suo viso
amareggiato mi fa sentire ancora di più in colpa.
Improvvisamente,
come se avessi finalmente aperto gli occhi, capisco di non essere la sola che
si ritrova ad affrontare il ritorno a casa e tutto quello che ne consegue.
Capisco che anche Peeta si trova nella mia stessa situazione, che anche lui
deve avere la testa piena di pensieri e che anche lui, come me, ha paura di
dire o fare la cosa sbagliata.
E
proprio come me, anche lui si trova ancora con un piede all’interno dell’arena.
Ci
sarei dovuta arrivare prima. Se solo non fossi stata così vigliacca… sì,
vigliacca.
Perché
dall’ultima volta che ci siamo parlati non ho fatto altro che evitare Peeta e
la questione che, irrisolta, si pone tra noi due come un macigno. Stamattina
non ho forse saltato la colazione proprio per evitare di tornare
sull’argomento?
Devo
smetterla di pensare solo a me stessa e cercare di sforzarmi affinché le cose
tra di noi vadano bene, o per lo meno si pongano in una posizione accettabile
per entrambi. Ho cominciato a volergli bene, dopo tutto… anche se non lo amo, e
di questo me ne dispiaccio.
Non
sono pronta a lasciarlo andare.
-
Peeta… - lui alza lo sguardo e le sue iridi azzurre, così intense, si fermano
sul mio viso. – Per quello che è successo ieri… mi dispiace davvero – continuo,
speranzosa che le mie parole possano servire a qualcosa.
Lui
annuisce senza distogliere gli occhi dai miei. – Lo so, Katniss. Ma grazie per
avermelo detto – accenna un sorriso e, di riflesso, sorrido anche io.
-
Non sono brava in queste cose. È per questo che… insomma… - mi blocco, non
sapendo come proseguire. – Non ho mai avuto una relazione prima di…
-
Ma la nostra non è una relazione.
-
Sai benissimo che cosa intendo! – esclamo, facendolo ridere.
-
Capisco cosa vuoi dire. Eppure, sei stata brava fino ad ora… io ci ho creduto –
sto per dire qualcosa ma lui mi interrompe – non ti sto incolpando di nulla,
Katniss, tranquilla. La mia è solo una considerazione, tutto qui.
-
Quindi mi stai dicendo che, dopotutto, sono brava a mentire – abbasso lo
sguardo, puntandolo sulle mie mani. - È una cosa che non voglio fare…
-
Ma non abbiamo scelta. Ascolta – Peeta mi prende una mano ed io torno a
guardarlo, adesso è molto più vicino rispetto a prima. – L’importante è che ci
comportiamo come abbiamo fatto fino ad ora e vedrai che andrà tutto bene. Se
non se ne sono accorti prima che era tutta una finta, non se ne accorgeranno
più.
-
Sarà solo per qualche giorno… - aggiunge, vedendo che non ho ancora spiccicato
parola.
-
Ma tu non vuoi che sia solo per qualche giorno – è tutto ciò che riesco a dire,
e mi rendo conto di quanto sono stata indelicata con le mie parole solo quando
lo vedo alzare gli occhi al cielo e sospirare.
-
Non è che possa farci qualcosa ormai – ammette.
Torno
a guardare fuori dal finestrino, con la testa piena di parole che vorticano e
che mi rendono più confusa di prima. La mia mano e quella di Peeta sono ancora
strette tra di loro, e questa è l’unica cosa che mi impedisce di estraniarmi
del tutto.
Peeta
ha ragione, ormai non possiamo più cambiare le cose e questo vuol dire che
dobbiamo continuare a fingere una volta tornati nel Distretto. Solo per qualche
giorno… vorrei davvero sperare con tutta me stessa che sia la verità, ma non
sarà realmente così.
Probabilmente,
dopo i primi giorni le telecamere di Capitol City smetteranno di seguirci per
concentrarsi su qualcos’altro, segnando così la fine della 74esima edizione dei
giochi, come è giusto che sia. Ma tra qualche mese torneranno.
Il
Tour della Vittoria.
Tutto
questo non finirà mai.
Non
ci lasceranno mai in pace.
Dovremmo
fingere per tutta la nostra vita?
La
prospettiva non è delle migliori e la sola idea che ogni pretesto sia buono per
ficcare il naso nelle nostre vite mi fa salire il sangue al cervello. Non basta
già il dover convivere per sempre con il rimorso, con il peso delle morti degli
altri tributi sulla coscienza e con il piccolo, minuscolo dubbio che avremmo
potuto fare qualcosa per cambiare le cose.
Ma
cosa?
Se
c’è qualcosa che Panem ha cercato di insegnare bene ai Distretti durante tutti
questi anni è il fatto che nulla di tutto questo si possa cambiare. Il
Distretto 13 è stato distrutto dopo i Giorni Bui, e loro non fanno altro che
ricordarcelo. Gli Hunger Games esistono proprio per questo, per ricordare ai
Distretti qual è il loro posto.
È
un mondo sbagliato e orribile in cui vivere.
-
Possiamo… possiamo rimanere amici? Dopo tutto questo? – gli chiedo, tornando a
guardarlo.
Peeta
annuisce e mi sorride. Ha davvero un bel sorriso, dolce e gentile. – Siamo già
amici – le sue parole sono in grado di rassicurarmi come davvero poche cose al
mondo.
Sorrido,
felice, abbassando lo sguardo. Siamo amici.
È
una certezza a cui posso aggrapparmi.
-
Sono
passate diverse ore da quando io e Peeta abbiamo parlato ed abbiamo raggiunto
quella specie di compromesso chiamata amicizia.
Subito
dopo, Effie è venuta a chiamarmi per mostrarmi l’abito che Cinna ha scelto da
farmi indossare per il ritorno a casa ed ha urlato quando ha visto la mia
faccia. Io me ne ero completamente dimenticata, e Peeta, che si trovava ancora
in camera con me, ha detto di non essersi accorto di nulla. Stava sicuramente
mentendo, ma dicendo così ha anche dimostrato di avere molto più tatto di
qualsiasi altro ragazzo, e di me, per certe questioni.
Effie
ha quindi cacciato quasi di peso Peeta per “occuparsi di me”, lamentandosi per
tutto il tempo che dovevo avere molta più cura del mio aspetto e che ci sarebbe
voluto un miracolo per sistemare quel “disastro” delle mie occhiaie.
Alla
fine di tutto mi ha lasciata andare e devo ammettere che, dopo il suo
passaggio, il mio viso ha di nuovo assunto un aspetto decente, anche se non
riuscirò mai a comprendere tutto questo bisogno di abbellirsi da parte degli
abitanti di Capitol City, tanto da renderli più inguardabili che apprezzabili.
Il
vestito che Cinna ha scelto per me è arancione, lungo fino alle ginocchia e
sembra svolazzare per via delle balze che compongono la gonna. Fa uno strano
rumore mentre cammino, ma tutto sommato mi piace e, in confronto ai vestiti che
Effie indossa di solito, risulta essere anche piuttosto sobrio.
Il
treno comincia a rallentare mentre si avvicina alla stazione, ormai dovrebbero
mancare solo una manciata di minuti alla fine del viaggio. Ancora pochi minuti
prima di tornare nel grosso circo mediatico che sono gli Hunger Games.
Raggiungo
le porte del treno, dove si trovano già in attesa Haymitch e Peeta. Lui indossa
un completo blu scuro, simile a quello che aveva durante l’intervista finale
con Caesar.
Mi
sorride mentre mi avvicino e sembra davvero felice di vedermi. – Che bel
vestito! L’arancione è il mio colore preferito – ammette, guardando la mia
gonna svolazzante.
Sento
le mie guance arrossarsi, colta alla sprovvista dalle sue parole. Non ne avevo
la più pallida idea… è ovvio che deve esserci lo zampino di Cinna dietro a
tutto questo.
-
Bene, piccioncini. Pronti ad entrare in scena? – ci chiede Haymitch quando il
treno entra nella piccola stazione del nostro Distretto, già piena di
telecamere e di persone venute ad accoglierci trionfanti.
Peeta
allunga la mano verso di me senza dire nulla, facendomi capire solo con il suo
gesto che devo afferrarla per poter dare ancora una volta il via alla nostra
recita.
Voglio
che tutto questo finisca presto, penso mentre il treno
si ferma.
Gli
prendo la mano stringendola forte, preparandomi per le telecamere, e già temo
il momento in cui dovrò lasciarla.*
*Hunger
Games, S. Collins
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