Le occasioni perdute

di Lapiuma
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7.
Il nostro ultimo incontro è breve, fortuito, dolorosamente imprevisto. È sera e sto tornando a casa dall’università, con un enorme catalogo di Caravaggio sottobraccio; sto rimuginando su un saggio di Zeri senza riuscire a venirne a capo e macino la strada sovrappensiero. Così, quando lo scorgo sull’uscio del mio palazzo, è come se precipitassi giù dalle nuvole. Mentre lo raggiungo, mi apro in un sorriso timido; ma dentro di me imperversano gli eventi di una settimana fa, mi scaldano e mi gelano: la festa, il litigio, il calore del suo abbraccio, il ritorno a casa in un gravido silenzio. Una speranza timida e folle si libra sopra di loro, nonostante i miei secchi rimproveri. 
“Ciao” questa volta non attendo che parli, non riesco a contenermi. Mi aspetto una risposta altrettanto spontanea, invece lui esita, rifuggendo il mio sguardo. Mi acciglio, stranita, ma il silenzio perdura, lui sembra non riuscire a spezzarlo. Ancora, non mi guarda. “Che hai?” la petulanza infantile ed acuta delle mie parole mi irrita, ma non riesco a spiegarmi la sua reticenza. “Devo parlarti” la sua voce mi risulta estranea, mi allarma: una fredda vena di panico soffoca il mio entusiasmo. Deglutisco, esitante gli chiedo se vuole salire. Lui, per un attimo, pare spaesato, mi lancia uno sguardo lucido di rimpianto che non riesco a razionalizzare. Mi scopro ad avere paura.
“Tra una settimana me ne vado” parla, ma le sue sono parole prive di senso. All’inizio non le comprendo, mi sembrano in un’altra lingua. Poi le ripete. Una, due volte. A un certo punto lo fermo, mi arrendo all’evidenza del loro significato. Gli chiedo perché. Mi dice che lo hanno accettato a Pisa per fare la magistrale. Da quando lo sa? Confessa, con gli occhi bassi, di averlo appreso un mese fa. Ma ha deciso definitivamente solo la scorsa settimana. Dopo che ha saputo tutto. Fa una pausa, mi prega di capirlo. Dice che ha bisogno di cambiare ambiente, di imprimere una svolta alla sua vita: in questa città tutti lo considerano alla stregua di un assassino. Vorrei dirgli che io non lo faccio, ma mi sentirei patetica. Lui, comunque, sembra intuirlo: mi accarezza con lo sguardo, poi mi dice che l’unica cosa che rimpiange di dover lasciare sono io. Non so se si aspetti una qualche reazione, ma io sono intrappolata in un istupidimento abbacinante, nebbioso, che contiene a stento il deflagrare del mio cuore. Non so cosa farmene del suo rimpianto, in fondo: non colmerà la sua mancanza. 
L’irrevocabilità della sua prossima assenza mi si impone alla mente in modo improvviso e categorico, mi mozza il respiro. Giungerei fino a pregarlo di restare, ma nessuno ha diritto di farlo. Frammenti dei nostri incontri mi si ripresentano all’attenzione, mi sorprende la loro esiguità e allo stesso tempo la loro importanza capitale. In realtà, tra noi non è successo nulla: ma quel nulla nella mia disperazione mi è parso qualcosa, se non un tutto. Così, accanto a una malinconia struggente, sboccia una calda gratitudine, la rincuorante consapevolezza che, nonostante la natura effimera del nostro legame, in me ora splende un frammento di lui e in lui un frammento di me. Incontro l’onice lucida delle sue iridi e ne divento assolutamente certa. Nessuno dei due sarà più solo. Sorridendo un po’ incerti, offuscati dalla commozione, ci stringiamo la mano. Una tacita promessa, un muto ringraziamento.
“Buona fortuna Giacomo”.
“Ad Maiora, Irene”.
 




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