Quando Regulus Arcturus Black si svegliò era notte. Si alzò a sedere
con un colpo di reni, iniziando a tossire forte per espellere l’acqua
che aveva respirato, tanto che dovette poi girarsi di lato per
rigurgitare. I suoi succhi gastrici misti all’acqua di mare si
riversarono sulla strada di sampietrini di quella zona portuale, dove
per fortuna non passava anima viva.
Una volta ripreso e svuotato, si alzò. Era tutto bagnato e tremava
appena per il freddo. Aveva un gran mal di testa e non ricordava con
esattezza cosa gli fosse successo, aveva solo ricordi confusi.
Non riconosceva nemmeno quella zona, quindi iniziò a camminare, alla
ricerca di un’indicazione o di qualcuno al quale chiedere – anche se si
sentiva un vero schifo e, di certo, doveva parere un ubriaco strafatto,
non un membro della grande e potente famiglia purosangue dei Black.
Acqua.
Quella la ricordava, fin troppo bene.
Profonda, fredda, salata.
Un medaglione.
Era il medaglione di Slytherin, che sembrava avere intrappolato un
serpente nell’ambra.
Un mestolo.
No.
Era…
Una conchiglia.
Dalla quale beveva un’acqua diversa, assetante e color smeraldo.
Una pozione.
Si fermò di colpo, stringendosi la parte interna dell’avambraccio
sinistro, dove il Marchio Nero era celato dai vestiti zuppi.
Al solo ricordo, gli stessi dolori che lo avevano devastato poco
prima gli tornarono in mente.
Lo stomaco che gli si rivoltava e la bruciante sete non erano
niente, rispetto a quel che aveva patito nella propria mente.
Aveva sentito una voce che lo umiliava, ricordandogli di quanto
fosse un fallito.
Nonostante avesse vomitato, la pozione della disperazione era già
entrata in circolo nel suo corpo e avrebbe avuto bisogno ancora di
qualche ora perché l’effetto svanisse del tutto e lui smettesse di
sentirsi addosso il peso di tutti gli sbagli che aveva commesso.
Era stato uno stupido a unirsi ai Mangiamorte; una nullità, nel suo
desiderio di voler cambiare l’esito di una guerra; patetico, nel
cercare di vincere contro un avversario come l’Oscuro Signore; egoista,
nell’aver fatto la spia ai genitori, quando aveva scoperto che il
soulmate del fratello era un mezzosangue, solo perché lui non aveva mai
trovato il proprio e quindi anche Sirius non lo meritava. La solitudine
nel non aver mai incontrato il proprio soulmate lo aveva masticato,
torturato e, infine, inghiottito.
Si era detto che una persona odiosa come lui non si meritava
un’anima gemella, e lo aveva rinnegato come ogni Mangiamorte, anche se,
in realtà, molti degli adepti di Voldemort erano già delle coppie, così
il loro sacrificio all’Oscuro Signore non era stato molto oneroso.
Il tatuaggio del soulmate sull’avambraccio sinistro era stato
coperto dal Marchio Nero: un teschio dal quale fuoriusciva un serpente.
L’unica famiglia che aveva scelto erano i Mangiamorte, e nessuno oltre
Voldemort poteva reclamare la sua vita.
Quella decisione, però, lo aveva turbato, facendolo vivere nel
rimorso.
Aveva cancellato l’unica prova che lui appartenesse al proprio
soulmate, colui che stava aspettando da quando i genitori gli avevano
spiegato cosa fosse quel disegno sulla pelle. Anche se si fossero
trovati, era certo che non sarebbe più stato voluto, avendo preso una
decisione così drastica.
Con quella certezza nel cuore, aveva iniziato a guardare Voldemort
con occhi diversi, togliendo il velo dell’idolatria che gli avevano
imposto i genitori, e aveva capito quanto fosse sbagliato ciò che
faceva il Signore Oscuro – ciò che aveva sempre fatto anche lui.
Decise di tradirlo quando Kreacher, il suo unico amico, venne usato
per fare il lavoro sporco e rischiò di non tornare mai più a Grimmauld
Place numero dodici. Regulus voleva distruggere il Signore Oscuro – o
almeno una parte di lui – e, invece, cosa aveva fatto?
Niente.
Fu una voce dentro di sé a rispondergli, mentre si sentiva ghermito
da mani ossute e gelide che lo tiravano verso il cuore dell’abisso e
gli toglievano il fiato. Regulus si portò le mani alla gola, quasi come
se volesse strappare quelle mostruose dita che gli serravano la
trachea, ma non trovò nulla. Era tutto nella sua mente. All’improvviso,
una mano calda, pesante e grande si posò su una spalla del minore dei
Black, riportandolo di colpo alla realtà.
Trasalì, girandosi, e vide dietro di sé una figura alta e snella che
lo sovrastava in altezza, avvolto in un lungo mantello verde a fantasie
dorate.
«Vous allez bien?». Era un ragazzo dai tratti mediterranei,
poco più grande di lui. Regulus lo guardò confuso e questi parlò
direttamente in inglese: «Stai bene?».
«No...», ammise Regulus, sorpreso di riuscire a parlare.
Nonostante i suoi vestiti fradici, l’altro ragazzo non allontanò la
mano inguantata da lui.
«Sei appena stato catapultato qui, vero?», gli chiese, porgendogli
un sorriso di cortesia. Parlava inglese in maniera fluente, ma il suo
accento francese era molto marcato.
Regulus si strinse tra le braccia, trovando le forze solo per
annuire.
«Vieni, ti porto da me».
Tutta quella gentilezza puzzò a Regulus, che rimase fermo sul posto.
Non era abituato a ricevere senza dare in cambio qualcosa. «Non
occorre», disse educato ma deciso.
L’altro ragazzo continuò a tenere le labbra piegate in un sorriso.
«Tranquillo, so che sei spaventato. Non riceviamo molte visite qui, ma
sono certo che sei uno a posto, come tutti noi».
«Dove mi trovo?», chiese Regulus, senza muoversi.
L’altro capì che aveva davanti una persona cocciuta e sospettosa, e
che non si sarebbe fidata, se non dopo aver ricevuto delle risposte.
«Si chiama Sielunmaisema. È un luogo che conoscono solo gli elfi».
Regulus strabuzzò gli occhi. Non ne aveva mai sentito parlare. «E,
geograficamente parlando, dov’è?».
«Nessuno lo sa, ma tanto che importa? Non possiamo andare molto
lontano da qui», disse lui, facendo spallucce. Sembrava proprio che la
cosa non lo turbasse.
«Un incantesimo di esilio?».
«È più complicato di così, ma sì, è una cosa del genere», disse lui,
estraendo una bacchetta di legno di ciliegio. «Sei fradicio. Permettimi
almeno di asciugarti. Dagli abiti sembri un mago come me, corretto?».
Regulus preferì annuire e basta, lasciando che l’altro usasse una magia
riscaldante per asciugargli i vestiti tramite l’aria. Andava
decisamente meglio. «Allora l’unica cosa che devi sapere con urgenza è
che qui non puoi usare la Smaterializzazione. Tutti quelli che ci hanno
provato si sono spaccati e sono morti».
Il Black annuì, mentre si beava di quel calore, ringraziandolo per
l’avviso. «Come ti chiami?», domandò.
«Corvus, tu?».
«RAB».
«Enchanté de vous connaître, mon cher RAB. Ora mi segui? Io
e i miei genitori ti daremo tutte le risposte che vorrai».
«Un attimo...», lo fermò ancora Regulus, guardandosi intorno. «Hai
visto un elfo domestico in giro? Ha le orecchie e il naso lunghi e
spioventi, oltre che un caratteraccio orribile con gli estranei».
«L’elfo non è venuto con te. Non ci sono schiavi qui».
«Kreacher è mio amico!», disse Regulus, piccato.
Corvus gli sorrise di nuovo, in maniera più calda. «Pardon,
dovevo immaginarlo».
*
Il ragazzo francese accompagnò Regulus a piedi in un luogo poco
distante dal porto: un enorme teatro chiuso e scuro. Per entrarvi fu
sufficiente passare dal retro, usando delle semplici chiavi.
«Vivi qui?», chiese Regulus, varcando la soglia insieme a lui.
«I miei genitori sono degli artisti», spiegò l’altro, facendogli
strada mentre accendeva magicamente le lampade a olio man mano che
passavano per i corridoi.
Nonostante il posto all’apparenza lugubre, Regulus non si sentiva a
disagio. Non era la prima volta che andava a teatro di notte, i
genitori lo avevano portato spesso agli spettacoli per maghi che si
tenevano dopo l’orario di chiusura o infrasettimanali – lontano dagli
occhi indiscreti dei babbani.
Grazie a una porta di servizio, arrivarono direttamente nel golfo
mistico, dove di norma si collocava l’orchestra.
Regulus sollevò gli occhi argentati al palco, vedendo due maghi alle
prese con le prove di uno spettacolo. I due utilizzavano delle sagome
magiche che riconobbe subito, sentendo le battute: “E così la Morte
con riluttanza gli consegnò il proprio mantello dell'invisibilità. Il
primo fratello raggiunse un lontano villaggio, armato della bacchetta
di Sambuco...”.
«“La storia dei tre fratelli”...», sorrise Regulus. Sua madre gliela
aveva letta spesso quando era piccolo.
Corvus annuì. «È la preferita di papà», spiegò, indicando il mago
che muoveva la sagoma della morte. «A me piace “La Fontana della Buona
Sorte”».
Regulus non ebbe il cuore di dirgli che era quella che odiava di
più: parlava di un viaggio stupido nel quale quattro soggetti
avevano rischiato la vita per nulla. «Preferisco “Baba Raba e il ceppo
ghignante”». La storia che prendeva in giro l’ignoranza dei babbani
sulla magia.
«Potresti venire a vederlo. Lo inscenano tra qualche settimana».
Regulus scosse il capo. «Devo tornare da dove sono venuto, ho una
missione da compiere», disse a Corvus, facendolo ridere. «Che c’è? Lo
trovi divertente?».
«Vuoi tornare a casa per rivedere il tuo soulmate?», gli chiese
diretto.
Sul volto di Regulus si dipinse un’espressione ferita. «Non ho un
soulmate».
«Tutti ne hanno uno. Che sciocchezza...».
«No, io non posso più averlo». Regulus si strinse il polso sinistro,
sentendosi il braccio tremare.
Tu lo desideravi così tanto che ne hai artefatto uno.
Di nuovo quella voce nella propria testa.
Quella maledettissima voce che assomigliava alla propria.
«Cosa intendi, mon cher?».
Hai rinunciato ad aspettarlo.
Hai rinunciato a trovarlo.
Lui non ti troverà mai.
Lui non ti vorrà mai.
Sei solo.
Rimarrai solo.
Morirai da solo.
«Il mio tatuaggio è stato coperto...».
Lo hai fatto coprire tu.
Lo hai deciso tu.
Regulus guardò a occhi sbarrati davanti a sé, iniziando a tremare.
E ti ricordi a malapena com’era fatto.
Non ti era mai piaciuto.
Due bollenti lacrime gli solcarono le guance.
Era illeggibile.
Non ti meriti un soulmate.
Corvus, vedendo l’altro in quelle condizioni, poté sentire tutta la
sua sofferenza come se fosse propria. Era raro che gli capitasse di
essere così empatico. «Mon cher, per favore, non piangere...».
Corvus si accucciò davanti a lui, prendendogli le mani tra le proprie.
In quel momento Regulus, nella sua corporatura esile, gli pareva ancora
più piccolo. «Sei solo un po’ scosso, vedrai che dopo aver mangiato e
dormito ti sentirai meglio e ti verrà in mente...».
«No!», sbottò Regulus. Stringendo forte le mani dell’altro. «Nessuno
è mai riuscito a leggerlo, nessuno ha mai capito cosa rappresentasse!
Come pretendi che io mi possa ricordare uno scarabocchio?!». In quel
momento, l’ansia e il panico presero il sopravvento, assieme alle
lacrime, che sfuggirono dagli argini dei suoi occhi. «Devo fermare il
Signore Oscuro. Devo trovare Kreacher! Io… voglio fare qualcosa di
buono, per una volta, in vita mia!».
Corvus si morse il labbro inferiore, in pena.
Quando qualcuno arrivava in quel posto, era sempre un trauma
dovergli dire la verità. Sarebbe stato ancora più traumatico per quel
giovane che era ossessionato dal ricordo di qualcosa che, ormai, in
quel luogo non aveva più importanza.
Voleva dirglielo, ma sapeva che non avrebbe retto il colpo in quelle
condizioni. Decise che fosse meglio abbracciarlo e basta, per offrirgli
un po’ di conforto, sperando non si allontanasse. Ma a Regulus, in
quelle condizioni, serviva solo uno scoglio al quale aggrapparsi per
non farsi trascinare via dalla corrente. Si lasciò scivolare sulle
ginocchia e si strinse a quel ragazzo francese, piangendo contro di lui
così forte che non si accorse che le prove dei due attori erano state
interrotte dal suo pianto.
Regulus non si era mai sentito così.
Quella pozione era davvero capace di portare le persone alla pazzia.
Corvus rimase lì a offrirgli tutto il supporto che poteva dargli,
iniziando a coccolare piano i suoi capelli, neri come i propri, per
cercare di calmarlo un po’.
Quelle dolci carezze resero gli effetti latenti della pozione più
facili da gestire, ma Regulus ebbe bisogno di parecchi minuti per
potersi riprendere abbastanza da lasciare finalmente il petto di
Corvus. Pigolò un “grazie”, vedendo poi che i genitori del ragazzo li
avevano raggiunti.
«Corvus, caro… chi è questo ragazzo? È nuovo, vero?», chiese la
donna, porgendogli un sorriso gentile.
«Sì, mamma. Si chiama RAB. Era amico di un elfo».
Anche l’uomo a quel punto sorrise. «Allora sarà senza dubbio una
brava persona. Vuole trattenersi a cena qui con noi? Così potremmo
parlargli di Sielunmaisema».
Corvus però intervenne subito: «RAB è molto stanco. Rimandiamo a
domani. Gli ho già detto di non usare la Materializzazione per nessun
motivo». A quel punto non rimase altro che terminare l’altra parte
delle presentazioni. «Mon cher, loro sono Musidora e Xavier, i
miei genitori».
«È un piacere, grazie per l’ospitalità», disse il minore dei Black,
passandosi il palmo della mano sulle guance, per cancellare le lacrime.
Guardò la coppia di coniugi: non assomigliavano per nulla a Corvus –
tantomeno il loro accento –, però i loro visi, in qualche modo, gli
erano famigliari.
Dove li aveva già visti?
***
La famiglia di Corvus abitava nel retro del Teatro. Tra camerini e
stanze, c’era il loro soggiorno con una cucina in stile babbano, anche
se Musidora utilizzava la propria magia per preparare la cena.
«Quindi non ci sono gli elfi domestici qui?», domandò Regulus. «Non
ho mai imparato nessun incantesimo di cucina», spiegò, scusandosi se
non aiutava con la cena. Sarebbe stato un trauma per lui doversi
mettere ai fornelli – era certo che avrebbe avvelenato qualcuno, in
primis se stesso.
«No, qui ce la caviamo da soli», sorrise Rastrick, apparecchiando
con la magia.
«Capisco...».
«Se vuoi posso insegnarti io a cucinare: le mie origini francesi
sono una garanzia!», intervenne Corvus, pavoneggiandosi. «Io faccio
tutto alla maniera non-magique nel mio regno di farina, uova
e zucchero!».
Regulus ci mise un attimo a capire che per “non-magique”
Corvus doveva intendere i babbani. Forse era così che li chiamavano in
Francia? «Non preoccuparti: non credo che avrò molta fame», ammise,
prima di ritrovarsi sotto al naso una porzione di roast beef dal
profumino delizioso.
«Ma qualcosa dovrai pur mangiare, RAB», canticchiò Musidora.
Quelle tre persone erano davvero gentili, forse troppo. Regulus era
molto insicuro e ormai non si fidava più di nessuno, ma pensava anche
che se Corvus avesse voluto giocargli qualche brutto tiro lo avrebbe
potuto fare benissimo mentre piangeva disperato. Che figura, a
pensarci. Eppure il ragazzo francese non aveva fatto alcun commento, ma
anzi lo aveva tranquillizzato come meglio aveva potuto.
«Grazie a tutti...», mormorò mogio il minore dei Black, veramente
grato per come lo avevano accolto. Prese la forchetta e iniziò a
mangiare piano, trovando quella carne a dir poco squisita.
«Corvus?», lo chiamò il padre. «Domani puoi andare dal Sindaco ad
avvisare che...».
«Oh, no! Sapete che non mi piace ronzargli attorno. Andateci voi, s'il
vous plaît...», si lagnò Corvus, facendo sospirare entrambi i
genitori. «Sapete che non gli sto simpatico».
«Oh, esagerato...», sbuffò Musidora. «Lui vuole bene a tutti qui».
Xavier si rivolse a Regulus, ancora serio e spento: «Il nostro
Sindaco è uno tosto ma gentile. Non ascoltare Corvus, sono sicuro che a
te piacerà. È l’inventore della Metropolvere».
Regulus lo guardò un po’ strano. Sapeva che a inventare la Polvere
Volante per utilizzare la Metropolvere era stata Ignatia Wildsmith, ma
in effetti non aveva mai sentito parlare dell’inventore della
Metropolvere in sé. Non si fece altre domande, limitandosi ad annuire.
«Da dove vieni, caro?», domandò Musidora, mentre, finito di servire
la famiglia, si sedeva al tavolo a propria volta.
«Londra», rispose lui, telegrafico, dopo aver inghiottito.
«Oh, quindi hai studiato a Hogwarts, come mio marito. In che Casa
eri?».
Regulus rispose senza timore: «Slytherin». Se volevano cacciarlo da
lì per essere una viscida serpe, se ne sarebbe andato lui stesso a
testa alta.
Per sua fortuna, però, non pareva che Xavier covasse del rancore
verso la Casa verde-argento. «Da dove vengono i più virtuosi, come il
mio amico Ephraim Slughorn che vive qui vicino… Ho ancora la sua
uniforme scolastica tra i costumi di scena. Potrebbe starti. Io ero nei
Ravenclaw, e vengo dal Gloucestershire», commentò Rastrick, sporgendosi
un po’ di più verso Regulus e coprendosi la bocca con una mano, con
fare complice. «Lei invece è americana, viene da Ackerly», soffiò
abbastanza forte perché tutti lo potessero comunque sentire.
Regulus poté solo annuire, mentre Musidora guardava male il marito.
«Sì, ma mi hai sposata lo stesso!», sbuffò.
Corvus fece roteare gli occhi. «Per favore, RAB non ha voglia di
sentire le vostre frecciatine da vecchia coppia sposata», li prese in
giro.
Regulus non aggiunse nulla, continuando a mangiare in silenzio,
ascoltando in maniera distante lo scambio di battute tra i tre.
Si sentiva ancora uno straccio e una brutta sensazione alle viscere
lo faceva desistere dal chiedere spiegazioni.
Kreacher di certo era scappato da quella grotta, esattamente come
c’era riuscito la prima volta. Forse sarebbe stato il caso di fermarsi
lì a dormire per la notte. L’indomani mattina avrebbe salutato i suoi
ospiti e avrebbe trovato il modo per tornare a casa, anche se Corvus
gli aveva detto che non era possibile allontanarsi da Sielunmaisema.
Sperò solo che, nel frattempo, Kreacher si fosse messo al sicuro e
fosse riuscito a distruggere quel medaglione.
*
Finito di cenare, il minore dei Black si accomiatò e Corvus lo condusse
a un camerino adibito a stanza per gli ospiti. Era semplice e spoglio,
e una porta a soffietto dava l’accesso a un bagno, in cui Regulus notò
subito la doccia stretta a base quadrata con delle odiose tendine
biancastre. Per lui, che era solo di passaggio, sarebbe andato più che
bene, nonostante fosse abituato solo agli alberghi cinque stelle.
«Ti lascio gli asciugamani e l’accappatoio sulla sedia, nel caso
volessi farti una doccia, mon cher».
Regulus scosse il capo. Ci mancava solo di avere degli altri
contatti con l’acqua! «Va bene così, dormirò e basta», disse,
stringendosi l’avambraccio sinistro.
Corvus rimase un attimo sulla soglia. «Se vuoi compagnia per
stanotte, puoi dormire insieme a me», gli propose, vedendolo ancora
scosso e triste. Regulus sollevò gli occhi argentati, come a chiedere
spiegazioni per quella proposta. «Mi sembri segnato da ciò che ti è
accaduto prima di essere catapultato qui, mon cher. Se
volessi un po’ di compagnia lo capirei». Il ragazzo rimase sul vago, ma
dentro di sé sperava che Regulus accettasse quell’invito. Era una preda
facile, che sarebbe caduta senza indugio nella trappola di un abbraccio
e di qualche bacio perché entrambi passassero una notte insieme a
riempir di sospiri il buio.
Regulus si strinse nelle spalle. Era sempre stato molto orgoglioso e
non aveva mai chiesto aiuto alla famiglia, men che meno al fratello
Sirius, ma per i momenti difficili aveva sempre avuto la compagnia di
Kreacher, che non lo aveva mai lasciato solo.
Gli avrebbe fatto piacere spegnere la luce sapendo che c’era
qualcuno lì con lui, ma non voleva arrecare ulteriore disturbo e non
aveva colto la leggera sfumatura audace delle parole dell’altro. Era
davvero troppo stanco per pensare che Corvus ci stesse provando con
lui. «Sei molto gentile, ma non voglio abusare della tua pazienza»,
disse piano.
«Va bene, ma se avessi bisogno di qualcosa, mi trovi al camerino
numero undici». Sapeva bene che non valeva la pena insistere, sarebbe
stato solo controproducente. Stava per andare via, quando sentì la voce
di Regulus.
«Grazie», mormorò il londinese, girandosi di schiena alla porta.
«Per avermi accolto… e per prima, a teatro... ».
«Non ho fatto nulla...».
«Esatto. In quel momento mi sono spezzato e tu mi sei rimasto
vicino, offrendomi conforto. La mia famiglia mi ha insegnato a prendere
vantaggio da qualunque situazione, ma tu non lo hai fatto… Mi fa
piacere respirare quest’aria così diversa».
Corvus sorrise, nonostante sentisse un pugno allo stomaco. Almeno,
Regulus aveva detto più di due cose in croce. Forse si stava davvero
riprendendo. «Qui a Sielunmaisema ci sono simpatie e antipatie, ma
nessuno si approfitterebbe mai di qualcun altro, soprattutto al momento
del suo arrivo», spiegò. All’inizio lo aveva soccorso perché era
compito di ogni buon cittadino dare il benvenuto a un ospite e metterlo
in allerta sul pericolo della Materializzazione, nel caso fosse stato
un mago. Solo dopo aveva cominciato a guardare Regulus con occhi
diversi, interessati. Quel ragazzino non aveva uno spiccato sex appeal
ed era sottopeso, ma Corvus lo trovava comunque molto carino. «Bonne
nuit, RAB».
«Buona notte a te, Corvus».
Il ragazzo francese chiuse piano la porta, lasciando Regulus da
solo.
I sensi di colpa iniziarono a smangiucchiare Corvus come fossero dei
piccoli tarli. Di solito non gli importava molto dei sentimenti del
prossimo, ma il non avere la coscienza pulita come pensava Regulus gli
faceva male. Il ragazzo francese sapeva di avere tratto quanto più
vantaggio poteva da quella situazione: aveva creato un contatto tra lui
e quel nuovo arrivato, era diventato qualcuno sul quale poteva contare.
Era stato premuroso all'apparenza, ma solo perché sapeva che i legami
curati da mani gentili erano nodi da marinaio difficili da sciogliere.
Si allontanò dal camerino numero quattordici, sicuro che quel testone
avrebbe avuto una prima nottata terrificante, esattamente come ogni
prima notte lì a Sielunmaisema, dove i ricordi si avviluppavano nella
mente stanca e turbata.
Come predetto da Corvus, il minore dei Black dormì solo qualche ora,
lasciando la luce accesa. Ogni volta che chiudeva gli occhi, sentiva il
mare travolgerlo e gli Inferi trascinarlo sul fondo. Scorgeva anche
qualcos'altro, che però non riusciva a vedere bene. Erano dei puntini e
due linee.
***
Quando al mattino Regulus si alzò, si sentì un cencio. Davanti al
gigantesco specchio del camerino, poté vedere l’immagine dell’ombra di
se stesso: lui che era sempre curato, aveva il colorito più pallido del
solito, i capelli neri scarmigliati e sporchi, profonde occhiaie. In
più puzzava di sudore e salsedine.
Era impresentabile.
Non sarebbe mai potuto uscire dal camerino in quelle condizioni,
nemmeno se vi fosse scoppiato dentro un incendio, figurarsi tornare a
casa! I genitori lo avrebbero scambiato per un barbone!
Avrebbe dovuto accettare il gentile invito di Corvus di farsi una
doccia, la sera prima.
Si spogliò, lasciando i suoi abiti sul letto e vi fece sopra un
incantesimo per pulirli dalle croste di sale, poi andò in bagno.
Rispetto alla sera, Regulus si sentiva molto più tranquillo. Ormai
la pozione della disperazione aveva abbandonato del tutto il suo corpo,
grazie all’urina e al sudore notturno dato dai brutti sogni,
regalandogli un po’ di ristoro e una mente più lucida.
Il contatto con l’acqua non fu poi così male come pensava. Si lavò
in fretta – usando la magia per contenere gli schizzi, al posto delle
tendine –, per poi infilarsi l’accappatoio morbido che si era portato
in bagno.
Una volta che fu tornato nella stanza principale del camerino, sentì
bussare in maniera piuttosto insistente.
Andò ad aprire, frizionandosi il lato sinistro della testa contro il
cappuccio dell’accappatoio, ma non fece in tempo ad arrivare alla porta
che essa si aprì.
«Buongiorno, Corvus», disse, vedendo il ragazzo francese varcare la
soglia. Aveva una bassa pila di vestiti sottobraccio e pareva
preoccupato.
«Bonjour», rispose lui, tirando un visibile sospiro di
sollievo. «Non rispondevi e mi stavo preoccupando», disse sincero.
«Perché?», domandò Regulus, soffermandosi a guardare i bei tratti
del viso del ragazzo francese. La sera prima non aveva notato quanto
fosse avvenente.
«Perché credevo avessi avuto qualche problema… Ci mancava solo avere
un morto a teatro: porta malissimo. Scusa se sono entrato, mon
roudoudou».
Gli occhi scuri di Corvus andarono a posarsi sulla parte interna del
polso sinistro di Regulus, esposto oltre la manica dell’accappatoio
grazie alla posizione.
Regulus seguì il suo sguardo e abbassò il braccio, in imbarazzo. «È
tutto ok, davvero», mormorò.
«Va bene». Corvus sorrise e gli posò la mancina al lato del viso,
ancora caldo e umido dalla doccia. «Però non hai dormito bene...»,
notò, passandogli con gentilezza il pollice sotto un occhio, dove era
quasi violaceo.
Regulus arrossì a quel tocco, ma non arretrò. Non sapeva spiegarsi
il perché, ma quella mano, seppur invadente, non lo disturbava come
avrebbe dovuto. «È stata una notte da schifo», ammise, abbozzando un
sorriso.
Corvus si rasserenò a quell’espressione: era la prima volta da
quando era arrivato che le labbra di RAB si arricciavano in quel modo.
Era un inizio. «Vieni a fare colazione o torni a dormire?».
«Al momento non riuscirei a chiudere occhio nemmeno se volessi. Mi
cambio e scendo», rispose l’altro.
«Va bene». Corvus fece scivolare via la mano, e Regulus dovette
resistere alla tentazione di bloccargliela e continuare a godere di
quella piccola carezza. Gli mancava il contatto umano. Un fratello
assente, una famiglia severa e poco propensa all’affetto, e la totale
mancanza di un soulmate erano stati un mix di solitudine micidiale per
lui, ma di certo non avrebbe mendicato un po’ di coccole dal primo che
passava. Era Corvus, con il suo fare gentile, a farlo sentire a proprio
agio. «Intanto prendi questi. Sono abiti della scuola di Slughorn di
qualche anno fa; mio padre pensa ti possano far sentire a tuo agio.
Dice che Hogwarts è stata una seconda casa per lui».
Regulus annuì e accettò quegli abiti puliti e morbidi. Erano molto
meglio dei propri riassettati alla bell’e meglio con la magia.
«A dopo», mormorò Regulus, tornando a chiudersi in camera, cercando
di non pensare troppo al gesto dell’altro. Dopotutto era francese, ben
sapeva che i mangiarane erano molto meno rispettosi della
privacy altrui, a differenza degli inglesi.
Dall’altra parte della porta, Corvus perse il proprio sorriso mentre
si rimboccava la manica della camicia e si guardava il tatuaggio
sull’avambraccio sinistro: nero come una lavagna intonsa. Quel
ragazzino gli era piaciuto fin da subito, ma gli aveva detto di aver
coperto il proprio tatuaggio con qualcos'altro che aveva la forma di un
serpente.
Per un attimo, durato un’intera notte, Corvus aveva sperato che RAB
non fosse il suo vero nome e che quel sentimento che provava per lui
fosse in realtà il bozzolo che racchiudeva qualcosa di molto più
grande.
Poteva cercare di fare il duro e nasconderlo, ma anche a lui, come a
Regulus, faceva male vedere che qualcuno era riuscito a trovare la
propria anima gemella, mentre lui non avrebbe mai saputo cosa
significasse.
*
Quando Regulus andò a fare colazione, sentì i genitori di Corvus che si
stavano preparando per uscire.
«Tesoro, noi andiamo dal Sindaco ad avvisare del nuovo arrivato.
Visto che non ti piace presenziare davanti a lui, resta qui a badare a
RAB e raccontagli tutto, d’accordo?».
«Oui, maman».
«E preparagli qualcosa che gli piace. Anche se è magro avrà
fame...».
«Oui, papa».
«Se non ti crede portalo pure fino al limitare del bosco, ma tornate
per pranzo!».
«Oui, oui...».
«E non parlare in francese con lui, se non lo conosce!».
«D'accord!».
«Come hai detto che si chiama il suo elfo?».
«Cracker… ou quelque chose comme ça...».
«Un nome insolito… Speriamo di trovarlo presto negli archivi. Au
revoir!».
«À bientôt!».
Solo quando Regulus sentì i passi allontanarsi, spuntò in cucina.
Vide Corvus che prendeva delle uova dal frigo, mentre sui fornelli
c’era una padella che scaldava.
«I tuoi sono usciti?», chiese il giovane Black, guardandosi attorno.
Corvus annuì, senza girarsi. «RAB, ma tu parli francese?»
«So due parole in croce».
«Tipo?».
«Toujours Pur», rispose prontamente l’altro. «Sempre puro».
Corvus rimase incuriosito da quella risposta. «Mi sarei aspettato
cose tipo un saluto o del cibo. Dove lo hai sentito?».
«È il motto di famiglia...», rispose lui, senza specificare che
fosse riferito alla purezza del sangue.
Corvus capì che era un argomento un po’ delicato e decise di
sorvolare. «Ti piacciono le crêpes?». Vedere Corvus così magro gli
faceva venire ancora più voglia di mettersi ai fornelli. Voleva che
mangiasse qualcosa preparata da lui, anche se semplice.
«Non credo di averle mai assaggiate...».
«La tua famiglia ha un motto francese, e tu non hai mai mangiato
crêpes?».
«Già...».
«Parbleu, è inconcepibile! Allora te le preparerò, così
saprai quanto sono deliziose, fatte dalle mie mani».
Regulus si sedette a tavola, nello stesso posto che aveva occupato
la sera prima, accorgendosi solo in quel momento di essere affamato.
«Sei molto sicuro di te», notò, senza mezzi termini.
«Sul cibo sì», annuì Corvus, iniziando a cucinare alla maniera
babbana. Sarebbe potuto essere etichettato benissimo come pallone
gonfiato, se avesse avuto quell’atteggiamento per tutto il resto e non
solo per la sua cucina.
Regulus sospirò e non disse nulla, richiamando dalla credenza alcuni
piatti e disponendoli sulla tavola.
Appena i dolci con ripieno di cioccolata, panna, fragole o
confettura furono messi in tavola, spolverati con dello zucchero a velo
e serviti assieme a del buon tè, i due ragazzi cominciarono a mangiare.
«Ti ringrazio moltissimo per l’ospitalità», iniziò Regulus, mentre
le sue papille gustative frizzavano di eccitazione per quel buonissimo
piatto francese. «Avrei voluto ringraziare anche i tuoi genitori, prima
di andare via».
«Puoi restare qui quanto vuoi, anche se il Sindaco ti affiderà una
casa e...».
«Devo andare via subito dopo colazione. Non posso attendere oltre».
Corvus lo guardò con un sorriso mesto. «Non è così facile. Volevo
aspettare che tu finissi di mangiare, ma a quanto pare è ora che tu
sappia cos'è questo posto e che ti sia chiaro che non è possibile
andare via da Sielunmaisema». Non era stato usato nessun tono di sfida
o di superiorità, ecco perché Regulus continuò a mangiare sereno. Lui
aveva conosciuto la spietata tirannia di Voldemort verso i babbani e
coloro che li aiutavano: sapeva discernere chi voleva imporsi e chi
voleva solo mettere al corrente di come stavano le cose.
Sentendo un clima tranquillo tra loro, Corvus continuò a parlare,
tra un boccone e l’altro: «Sai, qui ci sono pochissime persone
imparentate tra di loro… soprattutto sono i genitori con i figli, ma
nel caso della mia famiglia non è stato così. Prima si prendeva cura di
me la vecchia Josephine, poi qualche anno dopo lei se ne andò per
sempre. Furono Musidora e Rastrick ad adottarmi di nuovo…».
«Avevo notato che non vi somigliate affatto», disse Regulus, per
niente sorpreso.
«Già, inoltre ho tenuto il mio cognome di nascita: mi chiamo Corvus
Lestrange V». Era la prima volta che Corvus si presentava con il
proprio nome completo, il quale fece trattenere il fiato al ragazzo
londinese.
Lestrange?!
Era parente del marito di sua cugina Bella?
Regulus cercò di fare un attimo mente locale: non gli pareva che
Rodolphus avesse dei parenti francesi, anzi, il ceppo dei Lestrange si
era ormai estinto in quello stato.
«Qualche problema?», gli chiese Corvus, notando il suo stato
d’animo.
«No, nulla… è solo che a Londra conosco qualcuno con il tuo stesso
cognome», rispose vago.
«Oh, sì… Deve essere il ceppo inglese della mia famiglia», annuì
l’altro. «Ho notizie piuttosto vecchie, in realtà, ma credo di poter
affermare con certezza che tu stia parlando di loro. Con la mia morte,
in Francia è stato potato l’ultimo ramoscello dei Lestrange».
Per fortuna, Regulus aveva ingoiato il boccone prima di sentire
l’ultima frase di Corvus. «Come, scusa?!», domandò, sicuro di aver
capito o sentito male.
«Io ero il figlio di Corvus Lestrange IV. Dopo di me non ha più
avuto una prole: io e mia sorellastra siamo morti, dunque addio
Lestrange francesi».
«Tu sei morto? Sei un fantasma?», chiese Regulus, capendo solo dopo
che non poteva essere: gli spettri non sentivano la fame, né mangiavano
comune cibo.
«No, non sono un fantasma. Sono morto esattamente come te, mon
cher,
e ci troviamo entrambi in un posto incantato dagli elfi». Corvus
immaginò il panico che dovesse provare Regulus in quel momento. Per lui
era stato molto più facile affrontare la cosa, ma per chiunque altro,
ritrovarsi lì, dopo essere stato strappato alla vita, doveva essere
molto difficile.
Regulus rimase a fissare il piatto semivuoto dinanzi a sé. Non
riusciva a capacitarsi delle parole di Corvus: lui era morto, eppure,
avvertiva la fame e la stanchezza, aveva ancora il senso del tatto, i
propri ricordi e provava emozioni. Non si sentiva affatto morto.
Tentò comunque di restare sintonizzato sulle parole di Corvus, senza
perdersi tra i meandri della propria mente.
«Qui non vengono tutti i morti, RAB. È un posto speciale creato da
un elfo pittore, ecco perché solo gli elfi ne sono a conoscenza. Tu sei
finito qui perché, quando sei morto, vicino a te c’era un elfo che ti
voleva bene. Per non farti morire e basta, dandoti in pasto all’oblio,
ha trasferito la tua anima qui».
«Ma cos’è questo posto?», chiese a quel punto Regulus, con un
trapanante principio di emicrania che rischiava di sfondargli il
cranio.
«Siamo dentro un quadro», rispose subito Corvus. «Qui possiamo
continuare a far vivere le nostre anime, basta che non lasciamo questo
posto: se ci allontaniamo da esso non possiamo più tornarvi e allora ci
aspetterà la vera morte».
Regulus pensò a Kreacher: di sicuro era stato lui a mandarlo lì
quando gli Inferi lo avevano affogato sott’acqua. Purtroppo aveva
senso, anche se non aveva mai sentito parlare di quel posto.
«Ho bisogno di un attimo per riprendermi», ammise Regulus, smettendo
di mangiare.
«Certo, lo capisco. Se vuoi posso andare...».
«No, ti prego, resta», disse Regulus. Fu il suo turno, quella volta,
di avere per primo un contatto con l’altro. Posò una mano su quella di
Corvus, stringendogliela appena. Non voleva rimanere solo a dover
affrontare tutto quello.
La sua vita era finita: non avrebbe mai più potuto essere utile
contro la causa di Voldemort. Sperò solo che il suo martirio fosse
servito a qualcosa e che Kreacher fosse riuscito a trovare il modo per
distruggere quell’Horcrux, così da aver indebolito il Signore Oscuro
per quando avrebbe incontrato il suo degno rivale.
Tristemente, sentì che l’unica presenza che gli sarebbe mancata
sarebbe stata quella di Kreacher, ed era certo che, di rimando, nessuno
avrebbe davvero pianto per la sua morte, a parte il suo amico elfo
domestico.
Non aver mai trovato il proprio soulmate non si era rivelata una
cosa così negativa: se lo avesse incontrato da prima avrebbe senz’altro
sofferto molto di più – non si può rimpiangere qualcosa che non si è
mai conosciuto. Nonostante cercasse di mantenere un tono e di pensarla
in maniera positiva, sentì gli occhi inumidirsi e dovette passarvi la
mano sopra a cancellarne le lacrime, per non tornare a piangere di
nuovo davanti a Corvus. Di sicuro pensava fosse un piagnone, ma in
realtà l’onore di Regulus gli aveva sempre impedito di versare delle
lacrime, se non davanti a Kreacher. Era come se si sentisse a proprio
agio davanti al Lestrange.
Corvus, intanto, osservava il londinese, triste di non poter fare
nulla che non fosse stringergli la mano. Lo sentì tirare su con il
naso, poi tornò a fissare di nuovo il proprio piatto.
Regulus era morto, ma poteva ancora sentire la fame e gustare del
buonissimo cibo. Sarebbe stato uno spreco buttare quelle ottime crêpes,
dopo che gli era stata donata quella seconda occasione. Con la mano un
po’ tremante, il minore dei Black riprese la forchetta e si sforzò di
tornare a mangiare. «Dimmi di te», soffiò, senza lasciar andare la mano
di Corvus. «Che ti è successo? Chi era l’elfo che ti ha salvato?».
Voleva saperne di più su di lui, sicuro che prima o poi avrebbe dovuto
rispondere a propria volta alle medesime domande.
«La mia storia non è niente di che. Ero ancora molto piccolo quando
sono morto, pochi mesi, da quanto mi dicono».
Regulus spalancò gli occhi. «Ma le tue fattezze… avrai poco più
della mia età».
«Ah, sì… In questo quadro non si è eterni: si invecchia, anche se
con ritmi diversi. Io ho quasi vent’anni anni, ma mi hanno detto che
quando sono arrivato qui sono stato sospeso in una sorta di limbo per
decenni, come se fossi stato in coma, poi diciannove anni fa ho
iniziato a dare dei segni di vita e con essi a invecchiare. Non sono
l’unico che ha avuto questa sorta di ibernazione: è piuttosto comune»,
spiegò Corvus.
«Capisco...».
Il Lestrange gli carezzò lieve il dorso della mano con il pollice.
«Sono stato salvato dalla mia balia Irma, una mezzelfa alle dipendenze
della mia famiglia. Un giovane assetato di vendetta aveva fatto un Voto
Infrangibile, giurando che avrebbe ucciso la persona che mio padre più
amava al mondo, ovvero io. Così Irma portò via dalla Francia me e la
mia sorellastra; ci siamo imbarcati su una nave diretta in America, ma
ci fu un naufragio. Facendotela facile, c’è stato uno scambio di
bambini nella culla: Irma, la mia sorellastra e un altro bimbo si sono
salvati, io sono affogato nell’oceano al posto di quel bambino. Per mia
fortuna, Irma aveva posto su di me l’incantesimo per portarmi qui a
Sielunmaisema quando il transatlantico era salpato, e non eravamo poi
tanto distanti l’uno dall’altra quando sono morto».
Regulus annuì, intristito. «Mi dispiace...».
«Va bene così. Non rimpiango nessuno, non avendo mai davvero
conosciuto nessuno. Ero talmente tanto piccolo che, in pratica, non ho
ricordi di prima della mia morte. La mia famiglia è stata Josephine, e
ora sono Musidora e Rastrick. Mai i Lestrange».
Regulus annuì piano. «E tua sorellastra? Hai detto che anche lei è
morta...».
«Sì, ma è morta da adulta, lontano da Irma, e non credo che la
nostra badante avesse fatto un incantesimo anche su di lei: ero io
quello nel mirino. Da quanto ne so è una magia molto complicata, che
gli elfi possono effettuare solo un quantitativo esiguo di volte,
inoltre non possono essere costretti a farla: è un potere che viene dal
cuore. È un regalo per i loro amici umani, non per i loro padroni».
Regulus si emozionò a quelle parole. Era bello sapere che per
Kreacher non era stato solo un padrone, ma qualcosa di più.
Intanto, c’erano davvero troppe informazioni, cose da apprendere e
da mettere al posto giusto, come tasselli di un gigantesco puzzle.
«Come fai a rimembrare cosa ti è successo prima di morire, se mi hai
detto che non ricordi nulla della tua vita?», domandò Regulus. Stava
cercando di capire e aveva bisogno di tutte le informazioni possibili.
«Il Sindaco è capace di estrapolare anche i ricordi più erosi dal
tempo e vederli nel Pensatoio, ma i ricordi di un neonato sono davvero
difficili da comprendere: è stato merito di Josephine, che era parente
di qualcuno coinvolto in quella storia, che poi lo ha raccontato a me».
Il minore dei Black sospirò e strinse più forte la mano di Corvus.
«Va bene… Vorrei rimanere in silenzio, ora».
Il problema di una richiesta del genere, è che non esiste un modo
per porgerla in maniera gentile: ha sempre un alone negativo che chiede
all'altro di tacere. Corvus, però, stese le labbra in un caldo sorriso
e annuì, tornando a mangiare. Era come se capisse che Regulus,
introverso, necessitasse di un po’ di tempo senza ulteriori
informazioni, concentrandosi su ciò che gli era stato detto.
Dopo qualche attimo, il minore dei Black terminò il dolce che aveva
nel piatto, con grande soddisfazione di Corvus.
«Vieni, ti porto in un posto».
«Dove?», domandò il più giovane.
«Al limitare del bosco».
Regulus si pulì il muso dallo zucchero a velo e annuì. Il Lestrange
lo tirò appena per la mano, e lo condusse all’esterno del teatro, senza
rompere quel contatto.
«Dobbiamo proprio tenerci per mano?», domandò Regulus, quando furono
all’aperto.
«Ti dà fastidio? Voi inglesi siete proprio freddi...», ridacchiò il
ragazzo francese.
«È solo che...», borbottò Regulus, guardandosi intorno. Tutti coloro
che incontravano lungo la strada si limitavano a salutarli, senza fare
commenti e senza soffermarsi sulle loro mani strette l’un l’altra.
«Non ti senti a tuo agio?», concluse Corvus per lui, in tono
divertito.
«Già...», mormorò Regulus, facendo scivolare la mancina via da
quella stretta. Non erano bambini, né compagni: non potevano fare certe
cose. Quel pensiero gli fece battere più forte il cuore. «Corvus?», lo
chiamò piano. «Tu… non hai mai conosciuto il tuo soulmate, vero?».
«Purtroppo si può dire che io non sia vissuto abbastanza per
conoscerlo».
«Capisco...», mormorò piano lui, continuando a seguirlo, senza
riuscire a fermare i propri occhi perlacei che andavano a curiosare al
polsino della camicia del ragazzo, osservando la poca pelle esposta.
Purtroppo vide ben poco: sembrava tutto nero. «Ti manca non averne
uno?».
«Un po’ sì, ma credo sia più che altro gelosia verso chi lo ha
trovato», disse Corvus con un’alzata di spalle. «Essere vivo, anche se
a metà è più importante, non credi?», disse, sorridendogli ancora.
Il minore dei Black si sentì colpito da quelle parole. Calzavano
bene per entrambi. «Hai ragione… Ormai devo rivedere la lista delle mie
priorità, visto l’accaduto», gli sorrise.
I due camminarono in silenzio per diversi minuti, con Corvus che
ogni tanto indicava qualche animale, pianta particolare o frutto
commestibile del bosco.
Appena furono arrivati a una grande quercia secolare, nei pressi di
un fiume, Corvus diede a Regulus la bella notizia tanto anelata dai
piedi di quest’ultimo. «Eccoci, siamo arrivati», lo avvisò, mentre
spostava alcuni rami da un passaggio. «Questo ti convincerà del tutto».
Regulus lo seguì, e poté così vedere un’enorme cornice in ottone,
prima coperta dalla folta vegetazione. Attraverso di essa, vide una
stanza vecchia e piena di polvere, con pareti e pavimento in pietra,
illuminata solo dai raggi del sole che filtravano da una finestra
chiusa e incrostata di sporco.
Regulus iniziò a tremare.
Era tutto vero.
Quella ne era la prova inconfutabile.
Era morto ed era finito dentro a un quadro in un posto sperduto.
Corvus lo vide tremare e gli cinse le spalle da dietro. «Non
preoccuparti, va tutto bene», mormorò piano, posando un lato della
faccia contro i suoi capelli neri.
Regulus chiuse gli occhi, respirando forte, mentre afferrava gli
avambracci di Corvus, tenendolo ancora più stretto a sé. Era finita,
ora doveva solo ricominciare da capo. «Regulus Arcturus Black», mormorò
piano. «È questo il mio nome completo». Era arrivato il momento di
essere sinceri con colui con il quale avrebbe condiviso il vicinato e
che lo aveva accolto. Non aveva più senso tenere celata la propria
identità in un luogo come quello: era certo che non ci sarebbe stato
nessun altro legato ai Black o alla causa di Voldemort lì. Nessuno
degno della fiducia e dell’amicizia di un elfo.
«Regulus, hai detto?», sussurrò piano Corvus.
«Sì, esatto». Il minore dei Black non seppe cosa fare quando sentì
anche l’altro ragazzo tremare forte.
«N'est pas possible», mormorò lui, stringendolo più forte. «Tu
es mon soulmate».
Regulus non parlava francese, ma quell’ultima frase la capì nella
sua interezza.
Rimase lì, abbracciato all’altro, con la testa e il cuore che gli
scoppiavano.
*
Corvus aveva conosciuto solo il mondo all’interno del quadro.
La vita che avrebbe dovuto vivere gli veniva narrata man mano dalle
persone che arrivavano a Sielunmaisema. Da loro aveva saputo della
morte della sorella, di nuove magie che venivano inventate, dei diversi
scandali tra maghi.
Fu Josephine a spiegargli il lato buio di ciò che aveva ereditato,
quel qualcosa di appartenente alla vera vita che continuava a
perseguitarlo.
L'étrange, lo strano.
Da generazioni il tatuaggio del soulmate dei Lestrange era
sempre stato un rebus quasi indecifrabile, tanto che i Lestrange
sembravano essere stati maledetti.
“Impara a non provare mai amore per nessuno, Corvus. Proprio come
tuo padre e tutta la sua ascendenza. Solo così non soffrirai. Tanto qui
non potrai mai incontrare il tuo soulmate”.
Cresciuto fin da piccolo con quelle parole, il giovane Corvus aveva
deciso di seguire i consigli della vecchia signora che lo aveva
adottato.
Cercava di essere gentile con il prossimo per avere quante più
persone dalla propria parte, in caso di bisogno. Non gli importava che
alcuni si fingessero amici, poiché anche lui, come un artista di
teatro, recitava solo una parte – poteva metterci tutta la passione che
voleva, ma non sarebbe mai stato vero.
Si era solo concesso di provare un po’ di affetto per coloro che
facevano parte della sua famiglia: Josephine, Musidora e Xavier. Gli
altri rappresentavano solo delle persone con le quali gli piaceva
trascorrere del tempo, e niente di più. Non aveva alcuna empatia per
loro.
Avrebbe dovuto capire fin da subito che c’era un atavico motivo se
con RAB – Regulus Arcturus Black – sentiva il petto pesante e un
tiepido calore all’altezza dello stomaco. C’erano dei sentimenti sopiti
in lui che non sapeva nemmeno di possedere.
Corvus e Regulus tornarono a teatro in silenzio, tenendosi per mano.
Era stato Regulus stesso a tenderla verso il ragazzo francese, vedendo
quanto la notizia del suo nome lo avesse scosso.
Solo quando furono in cucina, Corvus diede cenno di essersi un po’
ripreso.
«Vuoi da bere?», chiese, prendendo una fiasca in vetro dalla parte
alta della dispensa.
«No, grazie», rispose Regulus, sedendosi a tavola.
Corvus lo raggiunse e posò un bicchierino a centro tavola,
riempiendolo a metà. «Non so come tu faccia a voler restare sobrio,
prendilo comunque», rispose cupo, portandosi poi direttamente la
bottiglia alle labbra, bevendo da essa.
Il Black spalancò gli occhi nel vederlo così. Gli era parso un tipo
equilibrato e posato, ma si era sbagliato. «Non dovresti esagerare...»,
gli disse un po’ preoccupato. Voleva risposte anche lui, non dovergli
tenere la testa mentre vomitava nel water.
Dopo una lunga sorsata, Corvus poggiò la bottiglia sul tavolo e la
richiuse facendo tintinnare il tappo, quindi si sedette accanto
all’ospite. Rimase ancora in silenzio, a guardarsi le mani posate sul
grembo.
«Hai detto che sono il tuo soulmate, ho capito bene?», Regulus gli
ricordò in maniera educata le sue ultime parole in francese al limitare
del quadro.
«È corretto, sì», rispose l’altro in un mormorio.
«Posso vedere il tuo tatuaggio?», domandò Regulus. Aveva la bocca
secca e cuoceva di aspettativa, anche se sentiva il cuore oppresso
dalla paura. Era certo che Corvus lo avrebbe rifiutato.
Il ragazzo francese si arrotolò la manica sinistra della camicia,
mostrando l’avambraccio a Regulus. «A prima vista non vedrai niente di
che», lo avvisò.
Regulus inarcò un fine sopracciglio nel constatare che il polso di
Corvus aveva tatuato solo un rettangolo nero.
«Non capisco», ammise lui. «L’unica cosa che può portarti a me è il
colore: Black, come la mia Casa».
«Sai lanciare un incantesimo di Rivelazione?».
«Sì».
«Allora fallo. Io da solo non posso, a quanto pare».
«Perché?», chiese Regulus. Anche i suoi genitori avevano provato
quel metodo per vedere il suo tatuaggio, ma non era servito a nulla.
«Per la maledizione dei Lestrange», disse lui. «Nella mia famiglia
solo il possessore del tatuaggio può rivelarlo agli altri, vincendo il
dolore. Il mio caso, però, è diverso: deve essere qualcun altro a
farlo».
Regulus annuì e, presa la bacchetta, fece un Revelio contro quel
tatuaggio, sperando che qualche forza magica prendesse un gessetto e
scrivesse su quella lavagna.
Corvus urlò forte e Regulus fece per interrompere l’incantesimo, ma
fu fermato dal Lestrange: «No! Continua! Devi vederlo o non ci
crederai!». Mentre sentiva lo sfogo comparire sulla sua pelle, doloroso
e cocente, Corvus si chiese perché lo stesse facendo. Nemmeno il whisky
che aveva bevuto prima lo aveva aiutato a rendere meno terribile quel
dolore. Era stato grazie all’aiuto di Josephine se aveva scoperto come
vedere quel rebus, e aveva un foglio sul quale si era appuntato tutto e
sul quale aveva studiato mesi, richiuso nella grande biblioteca di
Sielunmaisema. Avrebbe potuto far vedere solo quel foglio a Regulus,
invece voleva mostrargli l’originale.
Una volta terminato l’incantesimo, sull’avambraccio di Corvus erano
spuntate delle dolorose vescicole, piene di pus biancastro. «Corvus,
stai bene?», domandò preoccupato Regulus.
«Sì… guarda i segni», disse lui, indicandoglieli. Aprì il pacchetto
di zucchero a velo che stava ancora sul tavolo e si intinse il dito,
iniziando a tracciare delle linee che unissero i puntini, fino a
formare delle figure rigide e apparentemente senza senso. Ogni linea
era una sofferenza per Corvus, ma non mollò.
«Questa è la costellazione del Leone», spiegò il ragazzo francese,
indicando poi una pustola più grande delle altre. «E questa è Regulus,
la sua stella più luminosa». Poi spostò la mano all’altra forma
romboedrica. «Questa è la costellazione di Boote, e questa è Arcturus,
anch’essa la sua stella più luminosa». Gli occhi neri incrociarono
quelli chiari di Regulus Arcturus Black, che fissava l’altro con il
fiato sospeso. «Sei tu, mon cher».
Regulus iniziò a tremare.
Col senno di poi era facile decifrare codici e rebus, un po’ come le
fattucchiere e le chiromanti babbane che facevano finta di leggere il
futuro grazie a degli indizi o accompagnando il cliente nella lettura.
«Ma come…?», mormorò Regulus, tenendosi la testa con una mano. Era
molto confuso e aveva paura.
«Non so come sia possibile, ma non ci sono dubbi: sei tu il mio
soulmate». Corvus provava un misto di gioia e timore. Anche se in fondo
al cuore sperava di poter incontrare la propria anima gemella, gli
sembrava così impossibile che non aveva mai considerato l’eventualità
che potesse succedere davvero.
«Ma non sapremo mai se tu sei il mio...», mormorò piano Regulus,
tirandosi il polsino del maglione quanto più verso il dorso della mano.
Si sentiva mortificato, il Marchio Nero sembrava bruciargli come quando
il Signore Oscuro li richiamava a sé.
«Fammi vedere, magari insieme possiamo venirne a capo».
«Ormai è coperto!». Accortosi di avere alzato la voce, Regulus si
mise in piedi, tenendo lo sguardo basso. «Scusa, io… vorrei ritirarmi
un attimo nel camerino che mi hai dato per stanotte».
Corvus annuì e lo lasciò andare, capendo almeno in parte il suo
stato d’animo.
Regulus andò nel camerino senza guardarsi mai alle spalle e si
sdraiò
sul letto ancora sfatto, fissando il soffitto bianco sopra di sé.
Non avrebbe chiuso occhio, ma almeno sarebbe rimasto da solo per
sfogare qualsiasi sentimento, senza che la vergogna lo frenasse.
Si guardò di sfuggita la spira del serpente che compariva dal suo
polsino e sospirò. Era proprio vero che per quanto uno cerchi di
scappare veloce dal proprio passato, non sarebbe mai riuscito a
sfuggirgli.
*
Regulus ricordava fin troppo bene quando era entrato a Hogwarts. Suo
fratello maggiore Sirius era al terzo anno ed era stato smistato nella
Casa Gryffindor, al contrario di ogni buon Black che si rispettasse,
Slytherin da generazioni.
Anche se erano in due Case differenti, Regulus aveva notato che il
fratello aveva un piccolo gruppo di amici e sembrava molto affiatato
con un Mezzosangue in particolare.
Anche il tatuaggio di Sirius era un rebus. Nessuno in famiglia era
riuscito a venirne a capo, e se Sirius c’era riuscito aveva fatto di
tutto per tenerlo segreto. La famiglia era certa che sarebbe stato uno
non di sangue puro, o peggio un babbano!
Ma c’era qualcosa di strano nel modo in cui Sirius guardava quel
Gryffindor con delle vistose cicatrici che gli deturpavano il volto.
Regulus cercò in tutti i modi di spiare quale fosse il tatuaggio che
Remus Lupin aveva sull’avambraccio sinistro, ma nessuno lo aveva mai
visto, perché il Gryffindor non girava mai con le maniche rimboccate,
né tantomeno corte, neppure nelle giornate più afose. Ovviamente,
Sirius negava ogni qualsiasi legame con lui che andasse oltre
l’amicizia.
Fu quando Regulus era al terzo anno che poté a scoprire la verità
che aveva sempre saputo. Grazie alla sua bravura sulla scopa, era
riuscito ad arrivare fino alla torre Gryffindor e spiare il fratello e
Remus da una finestra, sorprendendoli in atteggiamenti abbastanza
intimi da permettergli di vedere il segno del soulmate sul polso di
Remus: era una scritta graffiata da larghe cicatrici oblique, grosse
come quelle che aveva sul viso. C’era scritto Black, ma il nome era
ormai illeggibile.
Quando Regulus chiese spiegazioni a Sirius, non andò a finire bene.
Regulus era un’acqua cheta rispetto al fratello, che invece si
accalorava subito, soprattutto per difendere ciò a cui teneva.
“Lo dici solo perché sei geloso e vorresti che Remus sia tuo, è
così?”.
Quell’attacco da parte del fratello lo aveva lasciato spiazzato.
“Non dire fesserie. Non mi importa di lui! È un Mezzosangue! Non
potrebbe mai essere il mio soulmate! E poi che ne sai che è lui la tua
anima gemella?”. Non era la prima volta che Regulus mentiva a se
stesso, e a quel tempo non se ne accorgeva nemmeno, imbottito di
pregiudizi sul sangue dati dalla sua famiglia. In realtà il proprio
cuore anelava un soulmate e lo avrebbe voluto anche se fosse stato un
Magonò, ma la sua parte razionale non lo avrebbe mai accettato, perché
per lui non era contemplabile apparire sotto una luce negativa alla
propria famiglia.
Inoltre, era geloso. Geloso marcio. Non di Remus in sé, ma del modo
in cui lui guardava Sirius, delle loro mani che si sfioravano in mensa,
di quelle carezze che riceveva.
Perché Sirius, che era la pecora nera della famiglia, pareva aver
trovato il proprio soulmate, e invece Regulus, che era il perfetto
figlio dei Black, no?
“Lo so perché me lo ha detto. Prima che avesse un incidente aveva
scritto il nome “Sirius” sul braccio”.
“E tu gli credi? Quel poverino sembra disperatamente alla ricerca di
attenzioni… Farebbe di tutto per trovare qualcuno che lo accetti”.
Proprio come Regulus.
“Sì, gli credo”.
“Ma tu non sai chi è il tuo soulmate”.
“So chi ha il mio nome scritto sul suo corpo da
quando è nato. Io ho comunque delle responsabilità verso di lui e non
posso voltargli la faccia o lasciarlo indietro. Io mi fido di lui, non
solo perché è il mio soulmate, ma anche perché lo amo. Ma non pretendo
che tu possa capire cos’è l’amore”.
Regulus, sentendo il fratello dire che di rimando Remus era il
proprio soulmate, lo aveva guardato con un misto di stupore e
disprezzo. “Hai decifrato il tuo tatuaggio?”.
“Già, compare solo con la luce diretta della luna piena”. Regulus
non sapeva che il destino era stato burlone con loro, non permettendo a
nessuno dei due di poter leggere chiaramente il proprio nome su quello
dell’altro.
“Sembra quasi fatto apposta perché la mamma non lo avesse mai potuto
scoprire prima e non ti avesse mozzato il braccio quando eri
piccolo...”.
“Il tuo invece è ancora un pasticcio, vero? Non c’è nessun soulmate
per te, Regulus. Perché nessuno vorrebbe mai un ragazzino viziato, snob
e insopportabile come te”.
Quelle parole colpirono duramente il minore dei Black. Se lui non
aveva il proprio soulmate, allora non avrebbe potuto averlo nemmeno
Sirius.
Durante le vacanze di Pasqua, Regulus fece la spia davanti ai
genitori, ma loro, anziché fare in modo che i due non si vedessero più,
lasciarono che il figlio maggiore tagliasse i ponti con loro e andasse
via di casa – sarebbe andato a vivere con il suo soulmate se avesse
avuto la possibilità, ma i genitori di Remus erano molto protettivi
verso il figlio, e allora Sirius trovò riparo a casa di James Potter,
uno del suo quartetto di amici.
Regulus aveva sbagliato i propri calcoli, offrendo al fratello la
libertà che aveva sempre voluto, e facendo ricadere su se stesso
il peso di essere l’erede dei Black.
*
Regulus non seppe quanto tempo era passato da quando si era sdraiato,
ma doveva essere stato un tempo cospicuo, perché venne destato dai
propri pensieri da un leggero bussare.
«Reg, mon cher? Il pranzo è pronto», lo chiamò Corvus
dall’altra parte della porta.
Regulus si alzò piano dal letto. «Entra, per favore», chiese
all’altro, il quale non se lo fece ripetere due volte. «Vorrei
parlarti», spiegò Regulus, dando anche l’implicito ordine a Corvus di
chiudere la porta.
Appena i due furono l’uno davanti all’altro, il più giovane prese un
profondo respiro, ripensando alle parole del fratello maggiore –
Sirius, che aveva sempre avuto ragione, ma Regulus non era mai riuscito
a vederlo. «Tu porti il mio nome su di te. Io, invece, non saprò mai
chi è il mio soulmate. Nonostante questo, io ho delle responsabilità
verso di te… quindi…». Corvus lo guardò speranzoso, storcendosi appena
le dita delle mani che teneva dietro la schiena. «Quindi, per favore,
non lasciarmi da solo». Alla fine Regulus cedette, mostrandosi di nuovo
debole davanti a Corvus. Quello che aveva più bisogno di un soulmate
era lui stesso, non il ragazzo francese.
Corvus gli sorrise e gli andò incontro, abbracciandolo per le
spalle. «Oui, mon roudoudou», sussurrò piano, dandogli un
bacio tra i capelli.
Regulus lo cinse a sé di rimando, afferrandosi stretto al retro
della sua camicia, come se avesse paura che Corvus potesse scomparire.
Rimasero lì in quel medicamentoso abbraccio finché Musidora,
preoccupata, non venne a vedere perché ci mettessero tanto. Prima di
chiamarli, si commosse nel vedere il figlio che sembrava finalmente
essersi avvicinato a qualcuno mosso dall’affetto e non da quanto questi
potesse essergli utile.
Corvus aveva già detto ai genitori che Regulus era il proprio
soulmate, e tutto si era risolto in maniera positiva.
Anche se il tatuaggio sull’avambraccio di Regulus sembrava essere
destinato a rimanere nascosto e perduto per sempre.
***
Quel pomeriggio, Regulus andò dal Sindaco per le presentazioni e per
avere delucidazioni sul fatto di non aver trovato nei registri nessun
elfo di nome Crackers. A nulla valsero le scuse di Corvus per
aver capito – e quindi riferito – male: i genitori lo costrinsero ad
accompagnare il suo soulmate.
Nonostante Regulus fosse piuttosto stizzito, i due arrivarono alla
loro meta camminando mano nella mano, come per fargli capire che c’era
già un legame tra loro e che se ci fossero stati davvero dei problemi
Regulus sarebbe comunque rimasto.
Il Sindaco li accolse nella sua casa incantata: enorme al proprio
interno, nonostante dall’esterno sembrasse solo una piccola capanna di
pietra.
«Tervetuloa», li salutò nella propria lingua madre, dando
loro il benvenuto e facendoli accomodare nel proprio studio. Regulus si
guardava intorno ammirato: sembrava di essere dentro a un vero e
proprio castello governato da un vecchio monarca con una lunga barba
candida, vestito di umili abiti dai colori della foresta. Inoltre
l’odore di biscotti, cannella e cioccolato che aleggiava per quella
casa gli stava facendo venire l’acquolina in bocca, nonostante avesse
da poco finito il pranzo.
Corvus sembrava un po’ a disagio, ma prese subito la parola:
«Sindaco Joulupukki, questo è Regulus, il mio soulmate». Lo presentò
con onore e una stilla di commozione nella voce. «So che lo sai già, ma
il suo elfo non si chiama Crackers. Ecco perché non è stato trovato nei
registri. Si chiama Kreacher...», si scusò, mentre Regulus si
imbronciava.
«Controlleremo immediatamente», lo rassicurò Joulupukki, mettendogli
una mancina sulla spalla e spingendo verso il basso per farlo sedere a
forza sul divano, dunque porse la mano destra a Regulus. «Benvenuto,
figliolo. So che ti è stato già spiegato cos'è questo posto».
Regulus gli strinse la mano, magra e nodosa come i rami di un
albero. «Sì. Siamo dentro a un quadro».
«Non è un quadro qualunque, Regulus: è stato dipinto dal mio elfo
domestico Vesa. Avevo tanti elfi che lavoravano per me e la mia
famiglia, ma lui ha sempre avuto un posto speciale nel mio cuore, e
questo quadro è stato il suo ultimo regalo prima di morire. Sielunmaisema,
il paesaggio dell’anima». Mentre raccontava quelle cose, gli occhi
verdi di Joulupukki si inumidirono. Vesa era ancora nel suo cuore per
quello splendido regalo. «Lui ha esaurito la poca magia che gli
rimaneva per permettermi di vivere qui, per dare a ogni persona amata
da un elfo la possibilità di un futuro se la vita fosse stata strappata
loro troppo presto», spiegò lui. «Il tuo elfo ti voleva bene, Regulus.
Ecco perché sei qui». Nonostante l’aspetto, il Sindaco era gentile e
accogliente.
Il Black sorrise appena. «Mi manca», sussurrò piano.
«Lo so. Hai un cuore gentile, Regulus».
Il ragazzo, però, scosse il capo. «Ho fatto cose molto brutte in
passato. Ho riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate e questo mi
ha fatto ferire altre persone...».
«Ma sento che sei pentito di ciò che hai fatto».
«Sì».
«E che hai cercato un modo per poter fare ammenda».
Regulus ridacchiò mesto. «Lei questo non può saperlo».
«Invece lo so, ragazzo mio. Lo so...», sorrise lui. «Come so che
speri che ciò che hai fatto possa essere servito a qualcosa e anche che
ti stai chiedendo se ti offrirò i biscotti appena sfornati dei quali
senti l’odore».
Regulus trasalì appena. «Non è educato usare la Legilimanzia»,
disse, andando sulla difensiva. Gli era stato insegnato a blindare la
propria mente, come c’era riuscito quell’uomo?!
«Sono un Legilimens molto potente, tanto da riuscire a leggere sia
la mente che il cuore delle persone, e ho tramandato questa mia abilità
innata a tutta la mia generazione. Nonostante le tue barriere di
Occlumanzia siano potenti, riesco a leggere almeno i sentimenti che
filtrano attraverso di essa. Non prendertela a male, Regulus».
Il ragazzo si sedette, sbuffando. Non gli piaceva essere così
esposto. «E lei è contento di avermi qui a Sielunmaisema, nonostante
quello che ho fatto?».
«Finché non mi permetterai di vedere le tue memorie, non saprò
esattamente cosa hai fatto e come hai tentato di porre rimedio, ma sono
dell’idea che un futuro grandioso non richieda un grandioso passato. Io
sono qui per offrirti un futuro oltre la morte, Regulus, e credo ci sia
qualcuno che vorrebbe davvero che tu restassi», rispose lui, osservando
il ragazzo francese. «Non ti ho mai visto così empatico con qualcuno,
Corvus, si vede che è il tuo soulmate».
Il Lestrange guardò altrove e fece scivolare la mano a quella di
Regulus, limitandosi ad annuire.
«Eppure sento dell’ansia in te», aggiunse il vecchio.
«Non è niente», rispose il ragazzo francese.
«Capisco, Regulus non ha ancora decifrato il proprio tatuaggio».
«Merde! La smetta di leggermi nel pensiero!», sbottò
Corvus, iniziando ad alterarsi.
Regulus guardò l’altro ragazzo, preoccupato. «Non hai studiato un
minimo di Occlumanzia?». Ora capiva perché non gli piaceva stare vicino
al Sindaco.
«Non ci sono bravi Occlumanti qui...».
«Ti insegnerò io», gli sorrise, carezzandogli il dorso della mano
con il polpastrello.
Joulupukki sentì una grande sintonia tra di loro, un supportarsi
reciproco, senza fare delle debolezze dell’altro la propria forza.
Erano di certo anime gemelle, anche se nei loro cuori acerbi era stato
piantato quel seme prezioso solo da poche ore.
Regulus tornò a guardare il Sindaco, poi prese lentamente la propria
bacchetta in legno d’olmo, portandosela alla tempia. Aveva fatto la
propria scelta. Voleva stare lì con Corvus, vivere la vita che gli era
stata strappata dagli Inferi, anche se questo voleva dire mettere a
nudo tutto ciò che avrebbe voluto nascondere del proprio passato. «Di
quanti ricordi ha bisogno?».
«Di tutta la tua vita, Regulus Arcturus Black».
*
Dopo che il giovane aveva acconsentito, Joulupukki lo aveva aiutato a
estrarre tutti i suoi ricordi grazie alla propria magia, e aveva
impiegato giusto il tempo di un profondo respiro nel Pensatoio per
guardare tutti quei diciotto anni di vita.
I due giovani avevano fatto giusto in tempo a mangiare un paio di
biscotti inzuppati nella cioccolata alla cannella che il Sindaco era
già di ritorno, asciugandosi il viso con un panno.
Regulus lo guardò, sentendo una stretta allo stomaco che gli fece
rimpiangere di aver osato sgranocchiare qualcosa nell’attesa.
Gli occhi di Joulupukki, però, erano come un placido lago sulla cui
superficie si riflettevano le fronde degli alberi. «Ho visto chi eri e
chi volevi diventare con il tuo eroico gesto. Eri pronto a salutare
la morte come una vecchia amica,
ma non andrai con lei, non oggi. Sono sicuro che il tuo futuro qui a
Sielunmaisema sarà degno di ciò che ti meriti», disse, porgendogli un
sorriso.
Regulus si alzò di scatto e fece un cenno d’inchino con la testa.
«Grazie!».
Corvus guardò un po’ confuso i due e si alzò per posare una mano
sulla spalla di Regulus, ricordandogli che lui era lì.
«Prima di cercare nei registri il numero della tua chiave di casa,
vorrei farvi un regalo che sarà molto gradito a entrambi».
«Regalo?», fece eco il ragazzo francese, di colpo interessato.
Joulupukki scosse il capo, ridacchiando. «No, Corvus, non è uno dei
miei soliti regali per la festa di Yule: è qualcosa di diverso».
Il Black sentì il cuore rimbombargli nelle orecchie, con una strana
sensazione addosso. «Hai visto il mio tatuaggio prima che lo
coprisse il Marchio Nero», capì, trattenendo il fiato.
«Ho visto dell’altro, Regulus. Il tatuaggio che ti è stato fatto
sopra quello del soulmate lo copre, ma non ne cela il rebus: non è così
potente».
«Può togliermi il Marchio Nero?», chiese, pendendo dalle sue labbra.
«No, essendo legato a doppio filo con la maledizione Morsmordre, ciò
che mi chiedi va oltre il mio potere, ma posso creare le condizioni
affinché tu possa vedere il tuo tatuaggio del soulmate».
Regulus ricordava a malapena il pasticcio di curve e linee sul
proprio polso. Annuì, non sapendo che Joulupukki voleva fare di meglio
per lui.
Li condusse in cucina, dove riempì d’acqua un pentolone, facendoci
sciogliere dentro del sale. Tanto sale.
«Spero che tu non voglia cucinare...», mormorò Corvus, storcendo il
naso.
Il Sindaco ridacchiò, percependo anche la curiosità di Regulus, che
non aveva la minima idea di cosa stesse allestendo l’uomo, soprattutto
quando gli mise la pentola davanti.
«Il tatuaggio di Corvus è in parte legato alla maledizione della sua
famiglia, ma si presenta solo grazie al dolore imposto da altri,
esattamente come tu hai sofferto per questo Marchio Nero. Quindi il tuo
tatuaggio appare di sicuro in ricordo di ciò che più è stato doloroso
per Corvus: perdere la vita».
Regulus guardò il catino, ricordando che il ragazzo gli aveva
raccontato di essere morto affogato nelle fredde acque dell’oceano.
«Come fa a sapere che funzionerà?», chiese Regulus.
Il Sindaco sorrise. «Perché l’ho visto, anche se tu nei hai a
malapena memoria».
Il Black si sollevò la manica del mantello, poi del maglione e, dopo
aver tentennato appena, si sbottonò il polsino, rivelando agli occhi
dei presenti il segno della propria vergogna.
Né Corvus, né Joulupukki proferirono parola, guardando Regulus che
immergeva l’avambraccio nella salata acqua gelida. Appena il tatuaggio
fu del tutto avvolto nel liquido, undici piccoli puntini iniziarono a
risaltare, seguiti da una V dello stesso colore. Cinque dei puntini
divennero un po’ più grossi, e unendoli si poteva formare un trapezio
con una sorta di coda. Regulus sentì gli occhi pizzicargli dalla gioia.
Non era il tatuaggio che a mala pena ricordava: quello era del tutto
nuovo. Finalmente era stata trovata la chiave di lettura per poter
accedere al rebus finale: il suo segno del soulmate si era rivelato.
L’immagine di quei puntini gli balenò alla mente. Il Sindaco aveva
ragione: li aveva visti mentre gli Inferi lo strappavano alla vita,
affogandolo nell’acqua salata di quella caverna.
Corvus impallidì nel vedere quei puntini, del tutto simili come
concetto ai propri: li aveva già studiati nelle sue infinite ricerche
sulle costellazioni. «Corvus...», mormorò, facendo girare gli occhi
emozionati di Regulus verso di sé. «Quella costellazione si chiama
Corvus…», disse, incredulo.
Regulus sorrise contento, indicando poi il numero romano V. In
inglese non si utilizzavano molto quel tipo di numeri, ma essendo
cresciuto in una casa nobile li conosceva bene.
«Manca il mio cognome, però...», notò Corvus con una nota di
rammarico nella voce.
Regulus scosse il capo. «Anche sul tuo tatuaggio mancava il mio».
«Ma era nero».
«E questo è strano», sorrise Regulus. I suoi occhi brillavano di
felicità.
Nessuno dei due notò un piccolo cuore, disegnato con tratto sottile
come un filo di ragnatela. Era ciò che legava Corvus a Josephine Kama,
la donna che lo aveva adottato e dalla quale avrebbe dovuto assumere il
cognome, se lo avesse accettato. Non lo fece presente: non ce n’era
bisogno. Anche se non fosse stato un Legilimens avrebbe capito che i
due erano felici così senza ulteriori ovvietà. «Vi lascio un attimo
soli, vado a prendere le chiavi della casa di Regulus», disse il
Sindaco, lasciando la cucina diretto ai propri archivi.
Appena i due furono soli, Regulus tolse l’avambraccio dall’acqua. Il
tatuaggio del soulmate tornò a essere invisibile, lasciando solo il
posto al simbolo dei Mangiamorte. Il Black non si asciugò nemmeno,
facendo per nasconderlo sotto gli strati di vestiti, ma Corvus lo
bloccò, afferrandolo per il polso in maniera gentile.
«Non vergognartene. Fa parte di te e io non ti odio per averlo
coperto, qualsiasi siano state le tue ragioni».
Regulus si sciolse a quelle parole, senza opporre resistenza. «Forse
una volta che avrai saputo la mia storia, non sarai più così contento
di essere il mio soulmate».
Prima che le tenebre potessero inghiottire di nuovo il cuore di
Regulus, Corvus lo tirò a sé. «Nemmeno io sono così candido come credi.
Qualcosa del mio cognome è rimasto in me, nonostante qui abbiano fatto
di tutto per farmi crescere come una persona migliore». La mano dei
Corvus salì al viso di Regulus, accarezzandoglielo piano. «Anche se non
ti conosco, mon cher, sono felice di essere il tuo soulmate».
Essere accettato per quello che era.
Non per la famiglia.
Non per il sangue.
Regulus aveva sempre desiderato qualcuno capace di non dar peso al
suo discutibile passato, per offrirgli un nuovo e luminoso futuro.
Insieme.
«Allora aiutiamoci a vicenda a migliorare, Corvus». Regulus soffiò
quelle parole in tono delicato, contro le labbra dell’altro, prima di
annullare le distanze e sentire un dolce e lungo bacio scaldarlo
dentro, come a dargli di nuovo vita.
Corvus allargò appena gli occhi, stupito da tutta quella grinta, ma
li richiuse subito, gustandosi quella piccola unione che aveva
desiderato dalla sera prima.
Appena Joulupukki si riavvicinò alla porta e avvertì gli allegri e
dolci pensieri di Corvus, uniti alla calda sensazione di famiglia da
parte della mente di Regulus, decise di dare ai giovani qualche altro
minuto prima di interromperli.
Il loro nuovo futuro era appena iniziato.