Nome: Ily Briarrott
(EFP), Ile_W (Forum)
Titolo: Closer to
the edge
Bonus: 9
Rating: Arancione
Fandom: Detective
Conan
Closer
to the edge
Le urla diventano
più forti, così tanto da riuscire a distinguerle
chiaramente oltre la porta della camera.
Premi il cuscino
sulla testa per non sentire, ti basterebbe anche che quei rumori
fastidiosi di oggetti che si frantumano si attutissero appena.
Non comprendi il
motivo per il quale ogni volta che tuo padre torna a casa si scatena
l'inferno; questa sarà la quarta in otto anni e sei
consapevole di non conoscerlo affatto. Una volta che ce l'hai di fronte
i suoi occhi chiari ti scalfiscono in profondità e non
riesci a delineare bene la sua figura costantemente avvolta dalla
stoffa nera dei vestiti.
Non ti piace -
non lo vuoi in casa - e la tua unica arma per difenderti è
chiudere la porta a chiave e aspettare, premendo il cuscino sulle
orecchie.
La voce di tua
madre ti entra in testa e percepisci una fitta rapida al petto, il
respiro stringe. All'improvviso, la tempia ti esplode e non puoi fare a
meno di sdraiarti sul materasso e stringere le palpebre.
Credi di riuscire
a vederle, quelle urla, una volta che chiudi gli occhi.
Voci avvolte
nell'oscurità.
Il nero
è l'unico colore che vedi e che avvolge ogni cosa.
Quando sembra che
tutto sia cessato e il silenzio diventa assordante apri la porta,
sempre silenziosamente, per evitare che qualcuno si possa accorgere
della tua presenza.
Raggiungi il
salone e il dolore alle tempie adesso è scemato, ma provoca
comunque delle fitte fastidiose che ti permettono di muovere la testa
con fatica.
«Mamma?».
La guardi di
spalle, in mezzo alla miriade di pezzi di ceramica sul pavimento, e non
riesci a evitare un sussulto di sbigottimento.
«Lascia
stare, torna in camera tua».
La vedi
accovacciarsi tra i cocci con un sacchetto di carta per raccoglierli e
rimani fermo a osservare le tracce umide tra i capelli biondi che le
scivolano sul viso.
La osservi
attento allungare la mano pallida per recuperare ciò che
resta del bicchiere di vetro, per poi ritrarla subito dopo con un
gemito. In questo esatto momento percepisci un dolore acuto al dito e
controlli la pelle perché hai l'impressione che una scheggia
ti abbia penetrato la carne nonostante tu non ti sia mosso di un
millimetro, ma non vi è nulla.
Sollevi lo
sguardo verso tua madre e rimani stupito nel vederla premere uno
strofinaccio contro il proprio indice per tentare di fermare
l'emorragia, nello stesso punto che continua a bruciare anche sul tuo.
Fa male, lo senti
attraverso una ferita che non esiste. Guardi il taglio di tua madre
sbigottito come fosse tuo – perché è il
tuo che continua a pulsare inspiegabilmente –
finché non incroci i suoi occhi chiari che ti mortificano,
spingendoti ad allontanarti da lì.
L'unica volta in
cui hai avuto a che fare così da vicino con la polizia
è stata quando tuo padre è tornato, dopo un paio
d'anni da quell'episodio, e lo hai visto tirare fuori una pistola per
volgerla contro tua madre.
Hai composto tu
il numero quando, sempre al sicuro in camera, hai provato la paura
– quella vera, che ti fa tremare l'anima – e ti sei
fidato di quella sensazione. Tuttavia non è grazie a loro se
tua madre è viva.
Devi ringraziare
qualcosa o qualcuno – ma non lo hai mai fatto e neanche
t'importa – perché l'uomo ha sbagliato mira prima
di scappare riducendo in mille pezzi il vaso di ceramica posto in
corridoio.
Da quella volta
non lo hai più visto.
Da quella volta
hai compreso che avresti dovuto imparare a cavartela da solo,
perché dopotutto lo sei sempre stato.
Ogni volta che ti
avvicini a lei, la frase è sempre la stessa: «vai
via, sono stanca per pensare a te adesso».
Volgi come sempre
lo sguardo verso il blister di pillole appoggiato sul tavolino e
osservi la donna che ti sta davanti. Sembra davvero stanca; sdraiata
sul divano, il viso pallido, non ha alcuna intenzione di alzarsi almeno
per qualche ora, come l'ultima volta. Sai che si
addormenterà a minuti e che non si sveglierà
prima di domani.
Il petto stringe
e fai fatica a respirare ma abbassi lo sguardo senza rispondere. Non
sentirebbe comunque.
«Ehi,
chiedi al biondo se ha fatto i compiti».
I ragazzini
intorno a te ridono, sanno benissimo che li hai sentiti. Ti ripeti che
oggi che non importa, ma non riesci.
«L'orfanello
dici?».
«Ma
quale orfanello? Ho sentito che il padre è in galera, faceva
parte di una grande organizzazione criminale”.
«Stiamo
attenti allora» risponde un altro in tono provocatorio. Ti
volti verso di loro e li fissi freddamente, mentre dentro di te inizia
a prevaricare un sentimento che probabilmente è sempre
esistito e che adesso necessita di venire alla luce.
Odio.
«Ve
l'avevo detto di non farlo arrabbiare, sai che paura».
Ti alzi di scatto
dalla sedia e raggiungi il bagno sotto lo sguardo contrariato della
professoressa: basta lanciarle un'occhiata eloquente per intimarla a
non seguirti.
Una volta davanti
allo specchio noti il cambiamento del tuo sguardo, della tua
espressione. Non provi altro, non vedi altri colori nella tua vita.
Solo quel nero
che ti ha sempre fatto compagnia.
Non vorresti
diventare come lui, non vuoi credere che quegli occhi siano identici ai
suoi.
La rabbia arriva
come una doccia ghiacciata; esci bruscamente dal bagno e decidi di
tornare a casa senza neanche avvisare. Prima di raggiungere l'uscita
noti qualche viso conosciuto, i compagni delle altre classi che stanno
spingendo contro un muro un ragazzino più piccolo.
Percepisci il fiato mozzarsi tuoi polmoni, il dolore che ti percorre la
colonna vertebrale.
Bene.
Fatelo.
Non
chiedo altro. Continuate pure.
Non comprendi i
tuoi pensieri, ma quelle sensazioni ti fanno sentire vivo. Quel dolore
è l'unica cosa che ti fa provare ancora qualcosa, in grado
di infliggerti una punizione e una benedizione allo stesso tempo.
Magari,
così riuscirai a non assomigliargli.
Forse
è ciò che meriti; è la punizione per
non essere riuscito a impedire tutto, tua madre sarebbe senz'altro
d'accordo.
Si voltano tutti
verso di te e il ragazzino ti chiede aiuto con lo sguardo, ma ti volti
e torni a casa con indifferenza.
Tutto di te
è diventato insignificante.
Sei un povero
ragazzino che ha avuto la sfortuna di nascere in una famiglia
disagiata, con un padre delinquente che non hai quasi mai visto e una
madre troppo presa dai suoi problemi per ascoltarti e che non faceva
nulla per interrompere il silenzio di una vita.
Non hai
più un'età, perché nessuno ti ha mai
permesso di viverla appieno. Hai undici anni ma potresti anche averne
venti, non ne hai idea.
Non hai un nome e
forse non ne hai mai avuto uno. Lo usava tua madre soltanto per
rimproverarti – per enfatizzare il vuoto delle sue giornate e
il peso che riuscivi a costituire per lei, pensavi.
Non ti sei mai
affezionato davvero a tutto questo e persino adesso che sei in
affidamento da un'altra famiglia senti che è tutto sbagliato
e che non è quello il tuo posto.
Hai bisogno di
quelle sensazioni particolari, di quell'empatia che ti permette di
sentirti vivo. E allora te ne vai, senza sapere dove. Te ne vai
cercando di trovare la strada che non vorresti intraprendere ma che ti
calza a pennello.
La senti tua
perché ti permette di essere circondato da quel colore,
quell'oscurità, l'unica cosa che ti ha sempre tenuto
compagnia.
E allora la vuoi.
«Gin,
che stai facendo?».
Adori il tuo
nuovo nome e il tuo posto all'interno di quella gerarchia ai piani
alti. Hai trovato finalmente una famiglia – o un qualcosa di
simile - una cerchia di persone che pendono dalle tue labbra, persone
che non hanno il potere di spingerti a scappare o a rinchiuderti, non
più.
Tendi il braccio
verso l'uomo che deve consegnarti i soldi e gli punti contro la
pistola, mirando bene alla testa.
«Avresti
dovuto pensarci prima. Gli errori si pagano sempre».
Premi il
grilletto e lo vedi accasciarsi a terra immediatamente; il dolore
adesso è qualcosa di indispensabile. I brividi partono dalle
tempie e s'irradiano in tutto il corpo, le ginocchia fanno male
nell'istante in cui lo vedi battere le proprie contro l'asfalto.
Ora che sei
diventato ciò che non avresti voluto diventare, ti prendi
anche le conseguenze. È l'ennesima punizione per aver deciso
di percorrere quella strada; un sentiero senza via d'uscita e carico di
vendetta.
L'omicidio
è qualcosa con cui hai imparato a fare i conti e l'empatia
diventa sadismo e poi, ancora, masochismo; provare la stessa paura, lo
stesso tormento delle vittime ti fa sentire bene. Un'unione particolare
tra queste e il carnefice, una linfa del colore del sangue difficile da
frenare.
E neanche vuoi
farlo.
Non ora che ti
senti bene.
Non adesso che
hai deciso di vivere per sempre con quell'oscurità.
* * * *
Note
dell'autrice
Prima
di tutto ci tengo a ringraziare Vintage per l'opportunità di
avermi fatto scrivere questa storia: mi sono divertita a immaginare un
ipotetico passato di Gin. Il risultato finale non mi convince per
nulla, devo ammetterlo, perché è la prima volta
che scrivo temi del genere ma in generale è stato bello.
Grazie a chiunque abbia voglia di lasciarmi un parere e alla prossima!
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