II
I
won't go down
I'll
fight through the pain
I'll
be there right by your side
I'll
never let them bring you down
[Five
Finger Death
Punch – When The Seasons Change]
Osservai Ethan mentre
usciva di casa con un’espressione cupa
e corrucciata; mi rivolse appena un cenno di saluto mentre combatteva
per
chiudere il portoncino, che era difettoso ormai da anni –
forse l’avevo sempre
conosciuto così.
Dopo aver tentato di
chiuderlo diverse volte, sbattendolo
con forza e avergli mollato qualche pugno, il mio amico si arrese.
“Foda-se”
lo sentii borbottare in portoghese mentre si accostava a me.
“Andiamo?” mi
chiese poi.
“Siamo in
ritardo, non faremo mai in tempo a prendere il bus
delle undici” lo informai, incamminandomi verso la fermata
del pullman più
vicina.
“Che si
fotta anche l’autobus del cazzo” ringhiò
Ethan,
arrancando sull’asfalto accanto a me.
Sollevai un
sopracciglio e mi voltai appena per rivolgergli
un’occhiata interrogativa: quella mattina mi era bastato
scorgere la sua espressione
cupa e incazzata per capire che qualcosa non andava. Non sapevo se
fosse il
caso di chiedergli cos’avesse, in genere la nostra amicizia
non funzionava con
le domande.
“Che cazzo
hai da guardare?” sbottò lui dopo qualche
istante, palesemente nervoso. Non era da lui reagire così,
ennesimo segnale che
qualcosa non andava.
Mi strinsi nelle
spalle. “Che cazzo hai tu,
piuttosto?”
“Niente…
stronzate” borbottò, distogliendo lo sguardo e
puntandolo dritto davanti a sé.
“Sicuro?”
gli chiesi con una punta di preoccupazione. A
volte non sapevo proprio come fare con lui, avrei voluto che mi
raccontasse
quello che gli capitava per poterlo aiutare ma lui si teneva tutto
dentro.
“Sì,
cazzo!” sbottò, infastidito dalle mie insistenze.
Trascorse qualche istante di silenzio, poi Ethan riprese la parola.
“Oggi mia
sorella se ne va.”
Sgranai gli occhi e
dovetti sforzarmi per non immobilizzarmi
in mezzo alla strada. “Olivia?”
“Ti pare che
io abbia altre sorelle qui?”
“Come mai?
Dove va?” domandai, colto alla sprovvista.
Adesso si spiegava
come mai il mio amico fosse così nervoso:
nonostante fosse solo qualche anno più grande di lui, Olivia
aveva
rappresentato una madre per Ethan dal momento in cui erano scappati dal
Brasile; era l’unica ragazza tra i quattro fuggiaschi ed era
stata un punto di
riferimento per i suoi fratelli in quegli anni, il mio amico me ne
aveva sempre
parlato con grande rispetto.
“Qualche
tempo fa ha conosciuto un tizio di San Diego e dice
di essersi innamorata. Si devono sposare e lei andrà a
vivere con lui” spiegò
Ethan, passandosi una mano tra i corti capelli scuri già
umidi di sudore.
“E tu
l’hai conosciuto?” mi informai.
“Sì,
sembra un tipo a posto.”
“Quindi non
sei preoccupato?”
Ethan si strinse nelle
spalle. “Se osa trattare male mia
sorella, sarà lui a doversi preoccupare. Comunque se lei
è felice così, okay.”
Ma io sapevo che la
stava facendo più facile di quanto non
fosse: ostentava una certa indifferenza, però lo conoscevo
abbastanza bene da
notare la sua sofferenza. Doveva essere dura separarsi da una persona a
cui si
tiene veramente, salutarla prima che andasse a vivere in
un’altra città a
chilometri di distanza.
Prima se
n’era andato Arthur, ora Olivia.
E sarebbero rimasti
solo Ethan e Davi.
Lanciai
un’occhiata al mio amico e lo trovai con lo sguardo
assente, perso in chissà quali pensieri. Ethan sembrava
sempre così forte e
padrone di sé, ma anche lui, come tutti gli altri, rischiava
di crollare quando
i suoi punti di riferimento svanivano.
“Sembro un
deficiente, vero?” Volteggiai su me stesso in
modo che Ethan potesse vedermi per intero.
“Non
è che lo sembri: lo sei”
puntualizzò lui con un
sorriso ironico, per poi raddrizzarmi sulla punta del naso il paio di
occhiali
da sole dalla montatura rosso fuoco che avevo indossato per scherzo.
Gettai
un’occhiata alla bancarella davanti alla quale ci
trovavamo, esaminando con fare critico le decine di occhiali dai colori
e
modelli bizzarri che vi erano esposte. “Neanche Elton John
userebbe questa
roba” commentai con una risata.
“Oh,
aspetta, manca un piccolo dettaglio per completare
l’outfit!” esclamò Ethan, per poi
afferrare un improbabile cappello giallo in
stile cowboy e ficcarmelo in testa. Mi scrutò per qualche
secondo e scoppiò a
ridere. “Perfetto!”
“Sei un
coglione” lo accusai, scoppiando a ridere a mia
volta e levandomi di dosso tutti quegli accessori che mi stavano
già facendo
sudare e morire di caldo.
Gettammo tutto sui
tavoli della bancarella e continuammo la
nostra passeggiata nel lungomare in direzione del nostro chiosco di
fiducia,
gettando di tanto in tanto qualche sguardo al mare che quel giorno
ribolliva
placido sotto il sole bollente.
Osservai Ethan mentre
scambiava cenni di saluto con qualche
ragazza che passeggiava sul lungomare e con qualche gruppetto che si
era
radunato sulla spiaggia e non potei fare a meno di invidiarlo: Ethan
non aveva
alcuna difficoltà a farsi notare dalle donne, andava a letto
con una diversa
quasi ogni sera, mentre io…
Io non avevo ancora
fatto niente da quel punto di vista. Non
che me ne fossi mai interessato, ma ormai avevo tredici anni e il fatto
di non
essere mai stato con una ragazza mi metteva a disagio.
“Oggi mi
fissi tutto il giorno, stai cominciando a essere
inquietante” mi fece notare Ethan, dandomi di gomito.
Mi riscossi
all’improvviso: non mi ero accorto di starlo
ancora guardando mentre riflettevo.
“No,
è che… stavo pensando a una
cosa…” borbottai,
pentendomene subito dopo. Non mi andava affatto di rivelargli quanto mi
sentissi patetico, perché non riuscivo mai a frenare la
lingua?
Ethan si strinse nelle
spalle e non disse niente ma, anche
se non fece domande, stava aspettando che parlassi.
Forse avrei potuto
dirglielo davvero: essendo molto più
esperto di me – e avendo conosciuto la maggior parte delle
nostre coetanee
anche in intimità – poteva suggerirmi qualche
ragazza con cui provarci.
“Stavo
pensando…” Abbassai lo sguardo e mi sentii
avvampare.
“Sono stufo di essere un verginello sfigato” ammisi
con un filo di voce.
“Scopa con
qualche ragazza, no? Cosa stai aspettando?”
Entrammo nel chiosco e
prendemmo posto a un tavolino, già
sapendo che sarebbe diventato il ritrovo del nostro gruppo di amici.
Sbuffai e rivolsi
un’occhiata al mare. “E con chi potrei
provarci? Ho paura di sbagliare o di spaventarle…”
Ethan ci
rifletté per qualche secondo, facendo scorrere lo
sguardo tra le figure disseminate per la spiaggia; quella parte di
lungomare
era frequentata dai poveracci della nostra età
perché era abbastanza squallida
e facile da raggiungere con i mezzi pubblici, era un po’ come
andare all’Alibi.
“Perché
non ci provi con Bess? Mi sembra abbastanza
espansiva e troietta, potrebbe dartela facilmente”
commentò, accennando appena
verso un punto alle mie spalle.
Mi voltai cautamente e
adocchiai Bess Hadley, la ragazza in
questione, che chiacchierava con due sue amiche seduta sul suo telo da
mare.
Qualche volta avevo scambiato due parole con lei, era una tipa tosta e
lo si
poteva capire anche solo guardandola: a differenza di tutte le altre
ragazzine,
che sfoggiavano costumi colorati e allegri, lei indossava sempre un
bikini nero
che contrastava con la sua carnagione chiara. Era esuberante e diretta,
si
muoveva con disinvoltura e lascivia, come se aspirasse ad attirare su
di sé
tutti gli sguardi.
Annuii: potevo
provarci, Bess mi sembrava la tipa giusta ed
era anche molto carina.
“Tu sei
già stato con lei?” chiesi a Ethan.
“No. E poi
non è il mio tipo, le preferisco più
formose.”
“Ehi
ragazzi! Ma quanto cazzo ci avete messo ad arrivare?”
Una voce ruvida e squillante interruppe la nostra conversazione; ci
voltammo e
avvistammo le figure di Bogdan, Viktor e Jeff che ci raggiungevano.
Bogdan e Viktor erano
due fratelli di origini polacche che
vivevano nel nostro quartiere e che riuscivano a procurarsi sempre
l’erba più
buona, mentre Jeff era il loro migliore amico e li seguiva ovunque.
Loro tre
erano tra i nostri più cari compagni di avventure.
“Ehilà
stronzi, che si dice?” li salutò Ethan mentre
prendevano
posto attorno al nostro tavolino.
“Che
c’è, non sapete divertirvi senza di
noi?” li
punzecchiai io.
Bogdan – il
più grande tra i due fratelli – ci
mostrò il
dito medio con un sorrisetto e poi lanciò
un’occhiata critica al piano del
tavolino ancora vuoto. “Non avete ordinato da bere?”
Io e Ethan scuotemmo
il capo.
Viktor allora si
alzò. “Faccio un giro di birre per
tutti?”
Acconsentimmo
– io in realtà stavo morendo di fame, ormai
era quasi ora di pranzo – e, mentre il nostro amico si
avviava verso il
bancone, Bogdan si voltò verso Ethan e gli lanciò
un’occhiata complice. “Cos’ha
tuo fratello in lista in questi giorni?”
Ethan ci
rifletté su per un attimo. “Crack, ero, coca,
acidi… un po’ di tutto in realtà. Vuoi
comprare?”
“Nei
prossimi giorni voglio organizzare una serata di sballo
all’Alibi, tanto ormai sono amico del proprietario e non
avrà niente da ridire”
spiegò lui.
Rimasi piuttosto
colpito dall’idea di Bogdan: sapevo che
spesso all’Alibi si verificavano delle serate
all’insegna degli stupefacenti,
in cui ci si stonava come se non ci fosse un domani, e qualche volta vi
avevo
assistito, ma dal canto mio non mi ero mai spinto oltre alcol e
marijuana. Non
che avessi paura di provare cose nuove, ma le sostanze che assumevo mi
erano
sempre bastate per uscire di testa e divertirmi; ultimamente
però mi stava
annoiando assumere sempre le stesse cose.
Sorrisi tra me: quella
serata organizzata da Bogdan sarebbe
stata l’occasione per assaggiare qualcosa di diverso.
Qualche istante dopo
Viktor tornò con le birre – ovviamente
al chiosco non facevano il servizio al tavolo – e si aggiunse
alla
conversazione per pianificare la festa.
Presi a sorseggiare la
mia bibita rinfrescante e subito la
mia attenzione venne catturata da Bess e le sue amiche che, a qualche
metro da
noi, stavano riponendo tutti i loro averi nelle borse per lasciare la
spiaggia;
doveva fare davvero caldo a quell’ora sotto il sole.
Bess si
gettò lo zaino in spalla e si diresse a passo svelto
proprio verso di noi, per poi salire i gradini in legno e accostarsi al
nostro
tavolino, seguita poco dopo dalle altre ragazze.
“Ehi,
uomini! A me non lo offrite un sorso di birra?”
esordì, trascinando una sedia tra me e Viktor e prendendo
posto mentre
canticchiava la canzone di Bob Marley diffusa da un piccolo giradischi
sul
bancone.
“Col
cazzo” le rispose Viktor, beccandosi un pugno sul
braccio dalla ragazza. Lui e Bess erano stati in classe insieme e si
conoscevano da una vita, giocavano sempre a punzecchiarsi.
“Prendi un
sorso dalla mia” le dissi gentilmente, già pronto
a conquistarla – o almeno a provarci –, ma
l’ultima parte della frase venne
sovrastata da un’imprecazione di Ethan a gran voce.
Mi voltai nella sua
direzione e lo trovai con gli occhi
sgranati che fissava i bicchieri posati sul tavoo; infatti
un’ape doveva essere
stata attirata dal loro contenuto e ora ci svolazzava intorno.
Le amiche di Bess
gridarono e, sollevandosi di scatto dalle
loro sedie, fecero un balzo indietro.
“E dai,
è solo un’ape! Se stiamo fermi se ne va da
sola”
esclamai, per nulla turbato dall’arrivo
dell’insetto.
“Io devo
proteggere la mia birra, non sia mai che ci si
voglia tuffare dentro” affermò Viktor, prendendo
il suo bicchiere e spostandosi
qualche metro più in là.
“Perché
questa bastarda non se ne va?” mugugnò Ethan,
impietrito sulla sedia.
Scoppiai a ridere.
“Non dirmi che hai paura!”
“Non ho
paura…”
“Ho capito,
adesso la mando via” affermò Bogdan, per poi
sfilarsi la maglietta e cercare di colpire l’ape con
l’indumento, ma come unico
risultato ottenne di farla incazzare ancora di più.
Scattai in piedi.
“Guarda che così peggiori solo la
situazione!” cercai di avvertirlo; allungai bruscamente una
mano per bloccarlo,
ma proprio in quel momento l’ape si trovava nei paraggi e mi
conficcò il
pungiglione nel braccio.
“Ape del
cazzo, brutta bastarda!” gridai, crollando
nuovamente sulla sedia e portandomi una mano a coprire laddove mi aveva
punto.
Il dolore era stato così improvviso, sottile e intenso che
gli occhi mi si
riempirono di lacrime e digrignai i denti.
“Ma quanto
siete ritardati tutti quanti? Stare fermi e
aspettare che se ne andasse era troppo difficile, vero?”
commentò Bess con un
sospiro, poi si voltò verso di me. “Fammi vedere
se ti è rimasto dentro il
pungiglione.”
“Non faccio
vedere niente a nessuno” ribattei irritato,
premendo ancora più forte sul braccio nella speranza di
alleviare il dolore.
Lei si strinse nelle
spalle. “Fai come cazzo vuoi.”
“Prima mi
prendevi per il culo e adesso piangi” intervenne
Ethan rivolgendomi un sorriso ironico.
“Fottiti,
non sto piangendo!” E, giusto per mandare al
diavolo la credibilità della mia affermazione, una lacrima
mi scivolò lungo la
guancia. “Piuttosto, cosa cazzo si deve fare in questi
casi?”
“Servirebbe
qualcosa di metallico. Oppure dell’aglio”
osservò Jeff.
“Oppure
potresti disinfettare la ferita con dell’acqua di
mare” propose Bogdan con un’espressione per nulla
rassicurante; scambiò
un’occhiata complice con Viktor e Ethan, poi tutti e tre
sorrisero e io
cominciai a temere per la mia vita.
“Cosa state
architettando?” bofonchiai.
“Uno…
due…” cominciò a contare Bogdan,
fissando su di me il
suo sguardo da rapace.
Mi alzai dalla sedia e
cercai di scappare con un grido, ma
ormai era troppo tardi: al tre, sentii i miei amici afferrarmi e
trascinarmi
verso la riva tra risate, grida e imprecazioni varie. Cercai di
divincolarmi,
ma prima che potessi accorgermene mi ritrovai immerso in acqua con
ancora i
vestiti addosso; fortunatamente feci appena in tempo a prendere fiato e
chiudere gli occhi prima dell’impatto.
Quando riemersi,
dovetti levarmi dalla faccia le ciocche
corvine e fradicie prima di poter avvistare Ethan, Bogdan e Viktor che
ridevano
e mi salutavano dal bagnasciuga.
“Siete dei
pezzi di merda!” strillai, nuotando verso di loro
e lottando contro i vestiti e le scarpe che, inzuppati
d’acqua, si erano fatti
ancora più pesanti.
“Come va la
puntura d’ape?” mi domandò Bogdan con
fare
ammiccante.
“Brucia
tantissimo, porca puttana!” Era come se mi stessero
conficcando un ago nel braccio, il sale a contatto col punto infiammato
faceva
davvero male.
Quando uscii
dall’acqua, però, fui quasi grato ai miei
amici: ora avevo molto meno caldo di prima.
Mi sfilai la
maglietta, la lanciai in faccia a Ethan e poi
mi scaraventai prono sulla sabbia, chiudendo gli occhi.
“Guarda che
così ti bruci la schiena” mi fece notare Viktor
con un sorrisetto divertito.
“Colpa
vostra, ora devo stare al sole per asciugarmi.”
“Ah beh,
buona fortuna allora” mi liquidò Ethan, tirandomi
nuovamente la maglietta e voltandomi le spalle.
Ma prima che potesse
muovere un passo, allungai una mano e
gli afferrai la caviglia, rischiando di fargli perdere
l’equilibrio. “Tu, razza
di stronzo, dovrai portarmi il pranzo qui come risarcimento
danni!”
Lui
sospirò, ma sotto sotto sapevo che stava sorridendo.
“Sì, ma molla la presa, altrimenti per pranzo
mangerai solo sabbia.”
“Ma ieri
sera dove sei finito?” domandai a Sammy non appena
feci il mio ingresso nel garage di casa sua.
Trovai il mio amico
seduto sullo sgabellino della sua
batteria con lo sguardo assente e le labbra semiaperte; tra le mani
tremanti
stringeva le bacchette, ma pareva che le sue dita potessero mollare la
presa da
un momento all’altro. Sembrava quasi sbiadito, inghiottito
dall’afa estiva e
dalla penombra del garage.
Non appena si accorse
della mia presenza, si voltò a
guardarmi con espressione confusa, sbattendo le palpebre un paio di
volte. “Dov’è
Ethan?”
“Siamo scesi
da poco dal bus ed è andato a prendere la sua
chitarra a casa. È un vero peccato che tu non sia venuto al
mare neanche oggi, è
stato un delirio! Mi ha punto un’ape, mi hanno lanciato in
acqua con tutti i
vestiti… e penso di essermi bruciato la schiena”
raccontai, mentre recuperavo
il basso che era poggiato in un angolo dentro la custodia. Era meglio
se mi
portavo avanti e cominciavo ad accordarlo, almeno quando sarebbe
arrivato Ethan
avremmo potuto cominciare subito con le prove.
“Immagino
che vi siate divertiti” borbottò Sammy in tono
assente.
Mi voltai nuovamente a
guardarlo, sollevando un
sopracciglio: non era da lui essere così giù, in
genere Sammy era un’esplosione
di energia. In realtà era già da qualche tempo
che avevo notato delle stranezze
in lui, spesso spariva dalla circolazione senza dire niente e le poche
volte
che stava con noi sembrava avere la testa da un’altra parte.
Non lo riconoscevo
più.
“Sammy,
perché non vieni mai con noi al mare?”
“No,
è che… a me non piace il mare”
bofonchiò, sistemandosi nervosamente
un boccolo rosso fuoco dietro l’orecchio. Era palesemente a
disagio.
Lasciai perdere basso
e amplificatore e mi accostai a lui,
poggiandomi sul bordo di un tom della sua batteria. Lo scrutai con
attenzione e
solo allora mi accorsi che i suoi occhi chiari erano torbidi, il suo
viso
delicato era più pallido del solito e la maglietta che
indossava stava larga
sul suo corpo troppo magro.
“Ehi, che
cazzo sta succedendo?” gli chiesi allarmato,
sentendo un nodo formarsi in gola. Come potevo non essermi accorto
prima che
qualcosa non andava?
Sammy
abbassò lo sguardo e lasciò cadere le bacchette a
terra. “Niente.”
“Non
è vero! Ti prego, Sammy! Qualsiasi cosa sia, la
affronteremo insieme!” lo supplicai con una vena di isteria
nella voce. Ero
seriamente preoccupato.
Il mio amico
sollevò nuovamente il viso. “Okay, se lo vuoi
sapere seguimi. Ma mi raccomando: acqua in bocca, non lo devi dire a nessuno”
sibilò, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta che
collegava il garage al
resto della casa.
Lo seguii con la gola
secca e il cuore che batteva a mille;
all’improvviso il caldo estivo sembrava essere ancora
più opprimente. Lo
sguardo di Sammy, così serio e triste, mi aveva messo un
sacco d’ansia addosso
e ora non sapevo cosa aspettarmi. Però ero anche onorato del
fatto che, di
qualsiasi cosa si trattasse, aveva deciso di confidarla proprio a me.
Salimmo una breve
scalinata che ci portò al piano terra,
percorremmo un piccolo corridoio su cui si affacciavano diverse porte
– da una
di esse, probabilmente la cucina, proveniva il rumore di un rubinetto
aperto,
lo scontrarsi delle stoviglie e la televisione accesa – e
infine Sammy mi
condusse al piano di sopra, in camera sua. Non entravo spesso in casa
sua, ai
suoi genitori non piaceva avere gli amici di loro figlio in mezzo ai
piedi,
quindi se lui aveva deciso di portarmi lì doveva esserci un
motivo serio.
La camera di Sammy era
piccola e ordinata, la finestra era
rivolta verso ovest e la luce arancione del tramonto inondava ogni
angolo.
“Perché
siamo qui?” ebbi finalmente il coraggio di
chiedergli, torcendomi le mani sudaticce.
Il mio amico richiuse
per bene la porta e, con lo sguardo
basso, fece l’ultima cosa che mi sarei aspettato: si
sfilò la maglietta verde
che indossava, gettandola in fretta sul letto, e rimase per qualche
istante
immobile con le guance in fiamme.
Spalancai la bocca
incredulo e feci scorrere lo sguardo sul
corpo esile e pallido di Sammy, su cui spiccavano con disarmante
nitidezza dei
segni violacei e bluastri. Sul petto, sul ventre, sui fianchi, sulle
spalle: la
sua pelle era interamente ricoperta di lividi gonfi e scuri.
“Porca
puttana” riuscii soltanto a sussurrare, portandomi
una mano davanti alla bocca.
Non ero bravo in
queste situazioni, non sapevo mai cosa dire
per non sembrare inopportuno. L’unica cosa di cui ero certo
era che, qualunque
fosse il responsabile che aveva ridotto il mio amico in quelle
condizioni,
volevo trovarlo e spaccargli la faccia immediatamente.
Mi accostai a Sammy
per esaminare meglio quelle contusioni e
rimasi sconcertato nel notare alcuni segni giallognoli, lividi
più vecchi che
si accingevano a sparire, segno che erano lì da tanto tempo.
“Ecco
perché non vengo mai al mare con voi: non posso farmi
vedere in queste condizioni. Non mi tolgo mai la maglietta, tranne
quando sono
da solo” soffiò Sammy con voce roca, senza avere
il coraggio di sollevare lo
sguardo.
“Chi
è stato? Chi è il bastardo?” sbottai
allora, ma il mio
amico mi fece segno di abbassare la voce.
“I miei
genitori non lo devono sapere” spiegò, andando a
sedersi sul letto. Aveva le spalle incurvate e i capelli gli piovevano
attorno
al viso più pesanti del solito.
Presi posto accanto a
lui, cercando di contenere la rabbia e
non esplodere nuovamente. Non ero il tipo che si lasciava andare alle
reazioni
istintive ed esagerate, ma non sopportavo questo genere di ingiustizie
e
violenze, mi facevano incazzare come una belva.
“Sammy,
dimmi chi è stato. Lo risolveremo insieme” tentai
di
rassicurarlo, addolcendo il tono della voce più che potevo.
“È
cominciato tutto qualche mese fa” prese a raccontare con
lo sguardo basso, e la sua voce si incrinò immediatamente
sulle ultime parole;
anche se non mi permetteva di guardarlo negli occhi, avevo intuito che
si
fossero riempiti di lacrime. “Eravamo…
all’Alibi, io son andato in bagno e tre
tizi mi hanno seguito. Hanno aspettato che finissi subito dietro la
porta e
quando sono uscito mi fanno afferrato e sbattuto contro la parete. Mi
hanno
detto che sapevano che ero figlio di due genitori che lavorano, e che
quindi la
mia famiglia stava bene… e mi hanno chiesto dei soldi. Io ho
dato loro tutto
quello che avevo e li ho supplicati di lasciarmi in pace, ma loro mi
hanno riso
in faccia, mi hanno mollato una serie di pugni e mi hanno detto che
dovevo
continuare a dar loro dei soldi. Così hanno iniziato a
seguirmi ovunque e
chiedere sempre di più, e se provo a ribellarmi mi
picchiano. E mi hanno
minacciato che, se dirò qualcosa a qualcuno, faranno sparare
a mio padre… sono
in tre, sono grandi e io…” Un singhiozzo
interruppe il suo sfogo, seguito
subito da un altro e un altro ancora. Ormai Sammy stava piangendo
disperato, si
portava le mani sul viso ad asciugarsi gli occhi e tirava su col naso
in continuazione.
“Dobbiamo
fare qualcosa.” Mi sentivo morire, spostavo lo
sguardo dal viso sconvolto del mio amico al lenzuolo a righine gialle e
arancioni perfettamente steso sul letto, mentre il mio cervello tentava
di
elaborare una soluzione o un piano per affrontare quei bastardi, ma non
mi
veniva in mente niente. “Dobbiamo dirlo a qualcuno”
riuscii soltanto a
proporre.
“No, non
possiamo!” obiettò subito Sammy; ormai il suo
corpo
tremava vistosamente anche se era piena estate. “Non posso
mettere a rischio la
mia famiglia per questa cosa! L’unico modo per tenermi
lontano dai guai sarebbe
smetterla di frequentare voi e l’Alibi, perché
loro ormai sanno che mi possono
trovare lì ed è per quello
che…”
“Ma non dire
stronzate” lo interruppi con rabbia. “Noi abbiamo
una band, Sammy! E sei nostro amico, vuoi davvero perdere tutto e darla
vinta a
questi bastardi?”
Sammy
sollevò lo sguardo su di me e, per la prima volta da
quando eravamo entrati nella sua camera, ci fissammo negli occhi: i
suoi erano di
un celeste acceso, così simili ai miei ma più
tristi e gonfi di lacrime.
“Io non
vorrei allontanarmi da voi, però non so più come
fare. Quei tipi mi hanno preso di mira perché sanno che sono
il più debole, che
non sono cresciuto in strada come voi e vengo da una
famiglia… diversa.
E forse hanno ragione loro, io non sono fatto per
quest’ambiente” disse
mestamente.
Aggrottai le
sopracciglia. “Non stai parlando sul serio,
vero?”
Sammy
abbassò nuovamente lo sguardo. Era la prima volta che
lo vedevo così abbattuto, ormai lo conoscevo da quattro anni
e l’avevo sempre
visto sorridente e allegro; doveva soffrire davvero molto e sentirsi
incredibilmente umiliato per quella faccenda.
“Senti,
facciamo così: lo diciamo a Ethan e cerchiamo una
soluzione insieme” proposi con un sospiro.
“No! Ives,
non dire niente a Ethan!” si affrettò a replicare
lui. “L’ho raccontato a te e solo a te, e non deve
uscire da queste quattro
mura.”
“Perché?
Di lui ci si può fidare, se stiamo uniti possiamo
essere più forti.”
Sammy scosse il capo e
le sue guance andarono a fuoco. “Io
mi… mi vergogno di dirglielo, lui mi prenderebbe in giro
o… non voglio fare la
figura del bambinetto che non si sa difendere” ammise, e un
altro fiume di
lacrime prese a scorrere sul suo viso.
Io intanto non potevo
credere a ciò che stavo sentendo. “Ma
chi, Ethan? Ma stiamo parlando dello stesso Ethan? Lui non ti
prenderebbe mai
per il culo, anzi, sarebbe il primo a difenderti senza pensarci due
volte.”
“Appunto,
farebbe un casino e io non voglio, anzi, non
voglio coinvolgere nessuno. Per favore, non dirglielo, ti
prego… io non l’avrei
dovuto dire a nessuno, ma stavo troppo male e avevo bisogno di sfogarmi
e ho
scelto te perché… tu non giudichi mai nessuno e
sei sempre così comprensivo, ma
per favore, non dirlo a Ethan” mugolò, passandosi
per l’ennesima volta il dorso
della mano sul viso per scacciare le lacrime.
“Sammy”
mormorai soltanto, mentre gli occhi cominciavano a
pizzicarmi. Guardavo quel ragazzo così fragile, che aveva
ancora i tratti e
l’ingenuità di un bambino nonostante avesse quasi
quattordici anni, così
indifeso, tremante e coperto di lividi, e mi veniva una voglia immensa
di
abbracciarlo. Sapevo che non l’avrei mai potuto fare, sarebbe
sembrato un gesto
troppo strano, ma mi faceva così tanta tenerezza e gli ero
infinitamente grato
per essersi confidato proprio con me. Decisi in quel momento che sarei
stato
leale nei suoi confronti e che, se quella era la sua
volontà, avrei mantenuto
il segreto.
Ma cosa potevo fare
per lui? Esisteva un modo per farlo
stare meglio?
Afferrai la maglietta
abbandonata sul materasso e gliela
porsi con gentilezza, sperando che quel gesto bastasse per fargli
capire la mia
volontà di aiutarlo. “Stai tremando,
vestiti” dissi, ma mi parve la frase più
fuori luogo che potessi pronunciare.
Lui tirò su
col naso e si rigirò l’indumento tra le mani.
“Ti fa schifo vedere tutti questi lividi, vero? È
per quello che vuoi che li
nasconda.”
Quella domanda per me
fu come una pugnalata. “No Sammy, non
mi fa schifo. Mi fa male.”
Lui indossò
la maglietta e poi si strinse le braccia attorno
al corpo, ma sul suo viso si dipinse una smorfia di dolore; i lividi
dovevano
fargli molto male anche solo a sfiorarli.
“Ascolta,”
ruppi il silenzio, cercando le parole giuste da
utilizzare e puntando gli occhi in quelli di Sammy, “io non
sono molto bravo in
queste cose, non sono coraggioso e sicuro come sembro, ma ti prometto
che andrà
tutto bene. Possiamo trovare una soluzione, okay? Dato che loro ti
prendono di
mira quando ti trovano da solo, facciamo così: stai sempre
con noi, non
allontanarti mai da me e Ethan. Io farò in modo di tenerti
sempre d’occhio e se
verranno a cercarti li affronteremo insieme. Così, anche se
non abbiamo
speranze, almeno le prendiamo insieme!” Accennai un sorriso
sulle ultime parole,
sperando di alleggerire almeno un pochino l’atmosfera per
quanto fosse
possibile.
Sammy
ricambiò il sorriso, anche se i suoi occhi non
ridevano per niente. “Grazie Ives, sei un amico. Il migliore
che potessi
avere.”
Di nuovo ebbi
l’impulso di abbracciarlo e forse l’avrei
anche fatto, ma la paura di fargli male mi bloccò e
così mi limitai a sorridere
ancora di più, sperando di rassicurarlo ugualmente.
Sammy si
alzò dal letto e si sistemò la cascata di
riccioli
rossi con un gesto frettoloso. “Okay, adesso mi sciacquo gli
occhi e poi
scendiamo, magari Ethan è arrivato e ci sta
aspettando.”
Annuii e lo seguii
fuori dalla camera con un turbinio di
pensieri ad affollarmi la testa e lo stomaco sottosopra. Non sapevo
nemmeno io
come reagire a quello che avevo appena scoperto.
Mentre osservavo Sammy
entrare in bagno per rinfrescarsi il
viso, mi domandai come mai si fosse affidato proprio a me, che su certe
cose
ero così inesperto e insicuro.
Forse esisteva
qualcuno ancora più fragile di me.
♠
♠
♠
Ed eccoci alla fine del secondo capitolo, un po’
più lungo e
succoso del precedente! Volevo inserire qualche scenetta idiota, che
non so se
mi sia venuta bene, ma sono piuttosto soddisfatta dell’ultima
parte ^^
Anche se piango per Sammy, povero piccolo T.T
Piccole notine anche stavolta per spiegare alcune cose!
Foda-se è un’imprecazione in
portoghese (ricordo, per
chi non segue la serie, che Ethan è brasiliano) che vuol
dire letteralmente
“che si fotta”… sì,
è la frase preferita di Ethan in tutte le lingue XD
Olivia è la sorella maggiore di Ethan, ha sei anni
più di
lui (quindi qui ne ha circa una ventina), mentre Davi è il
fratello maggiore,
il primogenito della famiglia AraÚjo,
e
per mantenere se stesso e i suoi fratelli fa lo spacciatore; ecco
perché Bogdan
chiede a Ethan cosa Davi possa vendergli per sballarsi.
Per quanto riguarda
Sammy e la sua famiglia, dice che non è come gli altri
perché effettivamente
viene da un mondo un po’ diverso: anche se ora vive in uno
dei peggiori
quartieri di Los Angeles, i suoi genitori sono persone perbene
– suo padre
aveva una scuola di musica, ed ecco perché ha un sacco di
attrezzatura nel suo
garage e perché Ives e Ethan si appoggiano a lui per le
prove della band.
Perciò, anche se è cresciuto in mezzo a tutti
loro, viene da una famiglia
“normale” e sicuramente non si è fatto
gli anticorpi fin da piccolo come i suoi
amici.
Per quanto riguarda
il lungomare che ho descritto, non so se a Los Angeles esista/sia mai
esistita
una parte di lungomare del genere, ma mi piaceva troppo ricreare
quest’atmosfera e quindi me lo sono inventato, come
l’Alibi XD
In questo capitolo
poi sono apparsi alcuni nuovi personaggi, spero vi siano piaciuti e vi
abbiano
incuriosito!
E infine abbiamo
scoperto la più grande fobia di Ethan XD chi
l’avrebbe mai detto, lui che non
teme mai niente si lascia spaventare da delle dolci apette!
Quanto sono
disagiati i miei figlioletti *_________*
E niente, spero di
aver spiegato tutto e soprattutto spero che questo capitolo vi sia
piaciuto! Io
almeno ho adorato scriverlo, dalla prima all’ultima parola :3
Alla prossimaaaa! ♥
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