To remember (and let go)

di LadyPalma
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“Teddy! Teddy, dove sei? Oh, eccoti, finalmente!”
Andromeda si piegò all’altezza del nipote e lo scosse leggermente per richiamare la sua attenzione. Non era inusuale per lui girovagare per il treno e imbambolarsi a spiare gli altri passeggeri – era qualcosa che la faceva sorridere: era tipico anche di Ninfadora durante i viaggi. Ultimamente però succedeva spesso, appena messo piede sul treno. A  ogni domanda, lui rispondeva sempre che guardava una strana ragazza bionda, la quale si muoveva di continuo davanti a uno scompartimento socchiuso.
“E dov’è questa ragazza ora, Teddy?”
“Adesso se n’è andata, ma la incontro tutte le volte che prendiamo il treno per andare dalla zia Cissy e io me la ricordo. La prossima volta te la indico, nonna”.
Andromeda sorrise e passò affettuosamente la mano sui capelli rossi – ora verdi, ora blu, ora viola – di Teddy. Non avrebbe mai saputo se di lui c’era da apprezzare di più la memoria o la fantasia.





 
To remember (and let go)







Lavanda rifece la lunga treccia per tre volte – eppure era perfetta già all’inizio – prima di mettere la testa nello scompartimento quasi vuoto.
“Professor Piton” chiamò con voce squillante, imponendosi di non abbassare lo sguardo. “Posso sedermi insieme a lei per il viaggio?”
Lui distolse gli occhi dal finestrino per fissarla e lei fu sorpresa di trovarli più di gentili di quanto ricordasse. Lui, invece, sorpreso non lo sembrava affatto, anzi l’impercettibile sorriso sulle sue labbra voleva quasi suggerire che la stava proprio aspettando – era davvero possibile?
“È così tanto tempo che ciondola vanamente davanti al mio scompartimento, mi stavo giusto chiedendo quando il proverbiale coraggio Grifondoro sarebbe venuto fuori. Prego, si accomodi”.
Per quel giorno rimasero in silenzio tutto il tempo, ma si lasciarono con la muta certezza che il giorno dopo avrebbero ripreso gli stessi posti, vicini. Era un tardivo inizio.



 
**



Severus fissò le bustine ancora sigillate di cioccorane con un sopracciglio pericolosamente alzato.
“Dove le ha trovate?”
Lavanda si morse un labbro e abbassò per un attimo lo sguardo. “Un bambino ne aveva una sacca piena. Sa, il bambino con i capelli dai colori diversi, quello che prende spesso il treno con la nonna… Credo sia il figlio di Remus Lupin e Ninfadora Tonks”.
I sopraccigli alzati divennero due, ma il tono che gli uscì sembrava divertito. “Signorina Brown, ha rubato delle cioccorane a un bambino?”
“Sì, in fondo per lui sarà più facile procurarsele che per noi”.
L’argomento doveva essere piuttosto convincente se ben presto lo scompartimento fu invaso da due ranocchie di cioccolato. Le seguirono con gli occhi mentre saltellavano via nel corridoio, senza provare ad acciuffarle – che ci pensasse Teddy Lupin. A catturare la loro attenzione furono invece le due figurine.
“Cosa le è capitato?”
“Godric Grifondoro, proprio la mia figurina preferita” commentò lui con una smorfia vagamente ironica.
Ma il caso sapeva essere ben più ironico di così. Lavanda sollevò la sua figurina per mostrarla e Severus si ritrovò davanti il proprio volto.
Severus Piton, Ordine di Merlino di Prima classe. Wow, professore, è addirittura nelle cioccorane! Rimarrà famoso in eterno!”
“Sono proprio entusiasta, non vede? Quasi mi dispiace non poter firmare autografi”.
Lavanda inclinò la testa in modo pensieroso e poi sorrise. “Se trovo una piuma può sempre firmare un autografo a me”.
Severus la fissò perplesso – scherzava o parlava seriamente? La conosceva troppo poco, come donna e non come studentessa, per esserne certo. In ogni caso, scosse leggermente la testa e tornò a guardare fuori dal finestrino.
Pareva che il treno attraversasse quasi tutta l’Inghilterra, ma ai loro sguardi si offriva sempre e solo lo stesso scorcio della Londra Magica.



 
**



“Signorina Brown? Signorina Brown? Lavanda!”
La ragazza sussultò sul posto e tornò a fissare il professore. “Scusi, ero sovrappensiero”. Era facile esserlo in tutti quei giorni sempre uguali spesi su un treno, e certi giorni era più facile di altri. “Sbaglio o mi ha chiamata per nome?”
“Non riuscivo a svegliarla dal suo sogno a occhi aperti in nessun modo, dunque mi sono dovuto arrendere a utilizzare il modo più banale”.
“Non deve giustificarsi. Ormai ci conosciamo da un po’, siamo quasi… amici, non è così? Possiamo chiamarci per nome, suppongo”.
Signorina Brown, non siamo amici”.
Lei l’ignorò abilmente – lui e il modo in cui aveva marcato il suo cognome per tentare di rimettere le cose a posto. Ma ormai era tardi, e in fondo lo sapevano entrambi.
“Può chiamarmi Lavanda. Io posso chiamarla Severus?”
“Se dobbiamo proprio chiamarci per nome, credo che lei non abbia altra scelta che usare quello che i miei genitori hanno deciso di darmi, sì”.
Lavanda soppesò quell’informazione, deducendo la poca affezione per il nome e scartando l’ironia. Era sorprendente quanto bene riuscisse a fare lo slalom tra gli ostacoli posti dalle battute sarcastiche di Piton: era proprio quello, però, il segreto su cui continuava a funzionare così a lungo quel tacito accordo di restare compagni di viaggio. Era iniziato per necessità, era proseguito come scelta.
“Non le piace molto, vero? In effetti è un po’ duro, anche se le sta bene. Vediamo… posso chiamarla Sev?”
L’ex professore spalancò gli occhi, colto di sorpresa come di rado gli era capitato, e la sua espressione divenne forse per la prima volta davvero irritata. “Non si azzardi più a chiamarmi in quel modo” sibilò lentamente.
Lavanda abbassò lo sguardo e restò in silenzio per un po’. Quando però torno a rialzarlo, sulle sue labbra c’era un nuovo sorriso.
“Posso chiamarla SevSev, allora?”
Il tono sinceramente speranzoso con cui pronunciò quella frase suonò talmente inaspettato che la rabbia di Severus evaporò quasi subito – e con essa anche, per un attimo, i ricordi che quel primo nomignolo aveva riportato a galla. Perché se Sev era come lo chiamava la sua Lily, SevSev era qualcosa che neppure un bambino di due anni avrebbe osato pronunciare.
“Signorina Brown, sto cercando di capire se è davvero stupida o se semplicemente le piace dare l’impressione di esserlo”.
Il viso di Lavanda si rabbuiò per un istante. “Credevo ci fossimo accordati per chiamarci per nome”.
“La chiamerò per nome solo quando darà prova di buon senso”.
Nei giorni a venire, quella prova non giunse tanto frequentemente, ma lui si arrese comunque alla nuova abitudine di chiamarla Lavanda – e di farsi dare anche del tu.



 
**



Quel giorno Lavanda si presentò in ritardo con la treccia sciolta e il viso contratto in una smorfia di dolore. Sarebbe scoppiata in lacrime se avesse potuto, invece singhiozzava a vuoto ripiegandosi sul sedile.
“Che cosa succede?” domandò Severus non proprio allarmato – la ragazza era incline alle emozioni forti, dopotutto, non l’aveva vista piagnucolare platealmente in Infermeria durante il suo sesto anno? – ma certamente confuso.
Lei gli lanciò una rapida occhiata senza smettere di sussultare in preda a quel pianto che non voleva saperne di sciogliersi. “Ron è qui… con sua figlia… e suo figlio… e la G-granger”.
“Per Salazar, Lavanda, respira”.
Per la prima volta da quando si conoscevano, lei osò interromperlo e lui non riuscì a ribattere. Lavanda iniziò a ridacchiare istericamente – modo inverso di scaricare la tensione.
“Se respirassi cambierebbe forse qualcosa? Mi dici di respirare come se… Io non posso respirare, non posso piangere, non posso urlare, non posso fare nulla e io… ho appena visto la vita che avrei potuto avere…”
“Con il signor Weasley?”
“Sì, con Ron… o con qualcun altro… con chiunque altro, e invece… Avrei potuto avere tutto se solo… se solo Greyback non…”
Lavanda fu scossa di nuovo dai singhiozzi e questa volta nascose il viso tra le braccia. Severus si limitò a fissarla senza dire nulla: era un dolore che conosceva – altri capelli rossi gli apparvero davanti agli occhi – misto a un altro che gli era del tutto oscuro – cosa ne sapeva lui dei futuri rubati? Nagini era arrivato quando la fine era già scritta. Non provò ad avvicinarsi; non era mai stato bravo a consolare qualcuno e in quel momento non avrebbe potuto neanche se avesse voluto.
Fu la ragazza però improvvisamente a rompere l’invisibile muro di distanza che si erano impegnati tacitamente a mantenere. Con uno scatto improvviso si alzò in piedi e si lasciò cadere sul sedile opposto, proprio accanto a lui.
Gli crollò addosso, incurante dell’assenza di calore – era come abbracciare il nulla, eppure al tempo stesso non lo era.
Severus restò immobile, non le regalò l’illusione di un abbraccio, ma nemmeno si sottrasse – era come abbracciare il nulla, quindi perché fare tanto rumore?



 
**



Pioveva il giorno in cui rividero il bambino – ora ragazzo – dagli inconfondibili capelli multicolore. Non pensava più alle cioccorane, aveva un braccio attorno alle spalle di una ragazza dai capelli rossi e i due si guardavano persi l’uno negli occhi dell’altra. Guardava lei, Teddy, non guardò neanche una volta verso di loro. Lavanda li seguì nel corridoio del treno e li vide entrare dentro uno scompartimento. La bella ragazzina alitò sul vetro e poi tracciò qualcosa con il dito; cosa aveva tracciato esattamente Lavanda lo scoprì solo quando se ne andarono. T + V. Suo malgrado, riprese a fantasticare come spesso le accadeva, ma i ricordi – R + L – furono soppiantati in modo inconscio dal vuoto futuro – cos’aveva appena scritto sul vetro?
Si ritrovò a sorridere mentre cancellava quella S + L che non aveva motivo di esistere e poi sfilò una corsa verso il suo scompartimento, verso Severus. Non era strano che lui le fosse mancato in quelle impercettibili ore di separazione più di quanto le mancasse ormai il mondo fuori da quel treno?



 
**



Una volta attraversato il confine, tornare indietro era impossibile. La routine si era modificata per inglobare quel piccolo cambiamento e ora Severus e Lavanda sedevano sempre vicini – spalla contro spalla, mani che si sfioravano e abbracci che lei rubava con sempre minore imbarazzo. Non si erano scelti – e come avrebbero potuto? Lui era così spento, lei così poco brillante – ma avevano trovato il modo di trovarsi. Con nessuno avevano trascorso mai più tempo che l’uno insieme all’altra, e quando passi così tanto tempo con una persona finisci per darle importanza e per interpretare la sua presenza, se non gradevole, almeno irrinunciabile. Insieme erano abitudine, tutto qui, al di fuori della quale però non c’era più altro.
“Severus, raccontami qualcosa”.
“Non sono una balia, Lavanda, non racconto storie della buonanotte per tenerti compagnia”. Eppure era proprio quello che faceva delle sue giornate, ormai: le teneva compagnia.
“Non voglio una storia, voglio solo sapere qualcosa della tua vita”.
Severus soppesò quella richiesta, sorprendendosi di non esserne sorpreso. “Credevo avessi saputo tutto dai giornali abbandonati sui sedili, ti ho visto leggerli di tanto in tanto”.
“Sì, ma voglio sapere la tua versione. Andiamo, cos’hai da nascondere, in fondo?”
Iniziare a raccontare e lasciar passare le dita tra i capelli biondi di lei fu una simultaneità inspiegabile eppure in quel momento quasi naturale. Le parole gli uscirono fuori con una facilità insospettabile e i ricordi che riaffioravano facevano di volta in volta meno male – la violenza di suo padre l’aveva provata un altro, Lily era un nome che riusciva a pronunciare senza tremare. Erano brandelli di una vita che non gli apparteneva quasi più, dolori sbiaditi che per la prima volta si sentiva capace di poter lasciare andare.
Cosa significava questo? Non se n’era reso conto per tutto quel tempo finché non aveva iniziato a parlare, e non lo avrebbe capito fino a che non avesse smesso. Forse era pronto ad andare avanti.



 
**



“Severus!”
Lavanda aveva urlato il suo nome più volte, facendosi strada tra l’inconsapevole folla dei passeggeri. Lo raggiunse vicino alla porta, per fortuna ancora chiusa, e si fermò a pochi passi da lui con espressione ferita.
“Volevi scendere dal treno, non è così? Volevi andartene senza nemmeno… dirmi addio?”
Severus fece ruotare lentamente la testa. “Non me ne sarei andato. Ho solo approfittato di un tuo momento di disattenzione per dare un’occhiata”.
“Disattenzione?” gli fece eco in tono confuso. “Mi perdo talvolta nei miei pensieri, d’accordo, ma…”
“Ti succede un po’ troppo spesso, non credi? Ti sei accorta piuttosto… tardi che mi ero allontanato”.
“Sognavo a occhi aperti, va bene, ma questo è quello che si fa quando si viaggia!”
Severus le piantò addosso i suoi occhi neri – erano compassionevoli, lei li avrebbe preferiti mille volte crudeli – e quel singolo sguardo da solo bastava a svelare tutti gli anni di illusioni e autoinganni. Era davvero quella la resa dei conti, era quello il momento della verità?
“Forse dovremmo smettere di viaggiare, allora” sussurrò Severus piano e, prima che lei potesse aggiungere altro, alzò la voce per affermare con più forza la sua posizione. “È sempre stato tutto un sogno ad occhi aperti, non te ne rendi conto? Sognare ad occhi aperti è l’unica cosa che fai continuamente, ma non sistemerà niente”.
Lavanda si morse le labbra, le lacrime non scendevano – ma sarebbero scese, se avessero potuto. “Quindi vuoi proprio andartene. Allora vattene, perché non te ne vai? Va’ via!”
Lui le concesse un ghigno fugace, ricordo di quel sarcasmo che ora non sembrava essere più in grado di sostenere. “Vuoi davvero che me ne vada?”
Lavanda esitò e nell’attesa trasalì due volte. “No!” proruppe alla fine, afferrandolo per le braccia, anche se sapeva che era una presa inutile, perfino più inutile di quanto lo sarebbe stato normalmente. “Ti prego, Severus, non te ne andare non lasciarmi sola…”
Lui si limitò a guardarla, mentre il ghigno si tramutava in un sorriso vagamente comprensivo. Era per lei che non se ne andava, dopotutto: l’ultima promessa da mantenere, l’ultimo fragile legame con il mondo in cui aveva vissuto. La risposta era chiara nei suoi occhi – è per te che non me ne vado, sciocca ragazza – ma le sue labbra dissero altro, una proposta che aveva pensato a lungo ma che solo in quel momento trovava finalmente forma. “Andiamocene insieme, allora”.
“A-adesso?” balbettò lei, gettandosi un’occhiata intorno – gente che andava, gente che veniva, gente che non si fermava mai; mentre loro due erano fermi da sempre e non si decidevano ad andare. “Ma è troppo presto, io non sono pronta, io…”
“Troppo presto, dici? Il figlio di Lupin è nato durante la guerra, aveva sei anni quando gli hai rubato le cioccorane e adesso ne ha… quanti, diciotto? Per quanto ancora credi che possiamo andare avanti così? No, tu sei pronta, quello che ti manca è solo…”. Fece una pausa per godersi in anticipo il sapore ironico delle parole che stava per pronunciare. “È solo che ti serve un guizzo di coraggio… Il tuo orgoglio dovrebbe davvero impedirti che sia io a farti un discorso del genere”.
E quell’orgoglio in effetti emerse, in pugni chiusi agitati nell’aria e dichiarazioni urlate per le orecchie di nessuno. “Io non ho paura, io–”
“Tu sei stata molto coraggiosa” concesse lui con sincerità, “per quanto credo sia stato solo per stupidità, devo riconoscerlo: hai combattuto nella battaglia e hai tenuto testa ai mangiamorte, ma Greyback… Greyback ti ha uccisa, Lavanda” concluse con un soffio, sforzandosi in una gentilezza vana – quella verità tanto a lungo evitata e rimandata sarebbe suonata meschina detta da qualsiasi voce.
Lavanda restò immobile per un tempo indefinito, come per permettere a quella consapevolezza che aveva già toccato tanti anni prima il suo corpo di entrarle finalmente anche nella testa. Era morta, e così anche lui, e continuare a viaggiare non sarebbe servito a nulla – la destinazione non sarebbe mai stata un ritorno indietro, in ogni caso.
Severus attese per un po’, poi allungò semplicemente la mano in un unico deciso gesto. Lei capì subito e finì per afferrarla come fosse l’ultima ancora di salvezza rimastale. Del resto era proprio così, su quel treno loro non erano reali tanto quanto per lei l’unica cosa reale era lui – differenza ontologica.
“Non mi lascerai, Severus, non è vero?”
“Non avrei nessun altro posto dove andare, comunque”.
Lavanda gli strinse la mano più forte – era ancora niente, sempre niente, ma quel niente era tutto ciò che restava – e insieme scesero finalmente dal treno.
L’ineffabile li inghiottì subito: fuori, per loro, adesso non c’era la Londra Magica e forse non c’era mai stata veramente.



 
**


 
“Teddy! Teddy, tutto bene?”
Victoire scosse leggermente la spalla del suo fidanzato e poi si voltò verso la direzione del suo sguardo. Non riusciva a vedere nulla, se non le rotaie e sullo sfondo un treno in fuga – ma del resto neanche Teddy vedeva più nulla ora.
“Sì, scusami, tesoro. Mi è sembrato di vedere una ragazza che conoscevo scendere da quel treno”.
Victoire aggrottò le sopracciglia rossicce e si guardò intorno sulla banchina deserta. “Ma non c’è nessuno, dov’è andata? È tornata indietro?”.
Teddy sorrise e senza nessun motivo apparente la baciò. “No, credo sia andata avanti”.
 
 
 
 
 















***
NDA: Perdonatemi se le note saranno lunghe quasi quanto la storia stessa.
Non so se si è ben capito ma tutta la storia si sviluppa realmente su un treno con persone reali (tra cui Teddy) che parte dalla Londra magica; tuttavia per Piton e Lavanda è solo una sorta di “limbo” prima di lasciare definitivamente il mondo dopo la loro morte. Perché il treno? Banalmente perché è una metafora che viene spesso utilizzata per intendere il viaggio verso la morte.
Una nota sul tempo: l’ho tenuto volontariamente sul vago, parlando solo di “giorni”, mentre in realtà sono anni. Il ruolo di Teddy serve proprio a rendere l’idea di questo passare del tempo – ha sei anni quando loro due si decidono a parlare per la prima volta (anche se erano sul treno già da tempo, per questo lui l’aspettava) e ne ha diciotto quando scendono dal treno.
Una nota sulla loro natura: nella mia storia li interpreto non proprio come fantasmi ma come anime bloccate, per questo non restano nel mondo dei vivi (i fantasmi scelgono di restare invece) e per questo nessuno li vede – solo Teddy, cosa a cui non ho voluto dare spiegazione in modo che ognuno possa vederci ciò che vuole. Proprio per questa natura, le reazioni più fisiche non sono possibili (come piangere, sentire l’uno fisicamente l’altro, alitare sul vetro, respirare) e le ho inserite precocemente nel testo per far intuire il risvolto finale. Un dettaglio che li differenzia poi da vivi è il luogo fisico: 
Londra magica è il posto da cui parte il treno per i vivi, ma è anche quello dove loro (pur stando sul treno) restano sempre fermi (è l'immagine sempre fissa del finestrino) perché di fatto non viaggiano, quindi è come se oltre al tempo avessero anche un modo diverso di percepire lo spazio. Si muovono con il treno ma non nello stesso spazio.
Una nota sulla dinamica dell’andare avanti: come suggerisce il titolo (che è una citazione di Lost), Lavanda e Piton devono prendere davvero coscienza di essere morti, accettarlo, ricordare tutto ciò che ha avuto significato nella loro vita e poi lasciarlo indietro. È quello che succede a Severus quando rievoca la sua vita e la racconta a lei: ecco perché lui è pronto prima di lei ad andare oltre.
Una nota sulla caratterizzazione: Piton si comporta talvolta in modo un po' meno brusco del solito, ma questo è nella mia mente dovuto al fatto che è morto e la morte, oltre che il progressivo distacco dalla vita, ha alterato anche in parte la sua asprezza. Spero di non averlo reso troppo OOC in questo tentativo.
Un’ultima noticina per i capelli di Victoire: so che praticamente tutti la interpretano bionda, ma qui ho voluto renderla rossa anche per creare una sorta di rimando di Teddy a Piton e Lavanda, le controparti di tutti e tre i personaggi hanno in effetti in questo modo i capelli rossi (Ron, Lily e Victoire, appunto).
Credo di aver finito di tediarvi. Grazie per aver letto la storia ed essere arrivati fino a qui.
Lascio lo specchietto con i prompt che ho seguito per il contest di Bessie e che mi ha ispirato tutta la storia:
Lui: Severus Piton
Lei: Lavanda Brown
Quando: Nuova Generazione
Dove: Londra magica
Azione: Viaggiare
Come: Sognando ad occhi aperti

 




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