Imprinting

di DanceLikeAnHippogriff
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Quando si era alzato quella mattina, la giornata era iniziata come tutte le altre. Aveva spento la sveglia, era scattato a molla giù dal letto per non darsi il tempo di rifugiarsi nel tiepido torpore delle coperte e aveva spalancato gli scuri, riempiendosi gli occhi della luce dei lampioni delle 6:00 del mattino.

Si era sciacquato la faccia, aveva fatto colazione perdendosi nel tepore del suo tè, si era lavato i denti, vestito, ed era uscito per raggiungere l’Università. Pronto ad affrontare un’altra giornata di lavoro a sviluppare la tesi di dottorato insieme ai colleghi.

Quel giorno, però, non ebbe voglia di fermarsi con loro per un aperitivo a fine orario di lavoro. Negli ultimi mesi si sentiva irrequieto, osservato. Preferiva di gran lunga rimanere tra le mura del suo appartamento a leggersi un buon libro o a guardare una serie, lasciando che un dolce senso di sicurezza e relax lo prendesse dalla punta dei piedi fino alle spalle, stanche e curve dopo le giornate passate davanti al computer. Non si era comportato da totale eremita, ma si era accorto anche lui di aver sviluppato questa tendenza che prima non gli apparteneva in modo così viscerale. In parte ne era anche felice perché riusciva ad andare a dormire a un orario decente.

Stiracchiò le spalle e allungò il collo, dando un po’ di sollievo alla schiena indolenzita, e frugò nella tasca dello zaino per trovare le chiavi del portone del condominio. Passò in rassegna il grumo informe di chiavi e portachiavi che era la sua salvezza, orgoglio e dannazione tutte insieme, cercando quella giusta senza fretta. Una macchina passò pigra nella strada alle sue spalle e si allontanò, accompagnata dal tintinnio dei portachiavi che cozzavano tra loro mentre Leo continuava la sua ricerca.

Infilò la chiave nella toppa, diede il colpetto di rito con il pugno vicino alla serratura del portone, e sentì il click metallico dei dentelli che si incastravano fino in fondo. Terribilmente soddisfacente. Fece per entrare, quando sentì un tramestio vicino ai cassonetti della via. Ci rivolse un’occhiata distratta: magari era la gatta dei vicini, non gli sarebbe dispiaciuto fare qualche grattino a quella grassona coccolona. Aprì il portone con una scrollata di spalle; era solo un barbone che faceva un po’ di casino cercando chissà cosa nella spazzatura.

Un’improvvisa sensazione di gelo gli elettrizzò la parte bassa della schiena e si propagò giù, fino alle gambe, nell’interno coscia, spingendolo a lanciarsi un’occhiata alle spalle, per scaramanzia. Il barbone lo stava fissando dalla fine dell’isolato, muovendosi a passi sconnessi, come a volersi avvicinare a lui.

Oh, col cazzo. Col cazzo proprio, pensò Leo, e batté in ritirata con un sorriso nervoso verso la salvezza della tromba delle scale. Lasciò andare la porta e si avviò verso i gradini, sentendosi investire dal dolce tepore che portava con sé il senso di sicurezza; non era sfuggito a chissà quale pericolo, si sentiva terribilmente stupido per aver provato… paura? Disagio? Qualunque cosa fosse, ormai se l’era lasciata alle spalle. Gli dispiaceva non essersi fermato, però… Magari quella persona aveva bisogno di qualcosa?

Scosse la testa con forza. Aveva mille cose da fare e la giornata non era ancora finita, quindi era meglio che si affrettasse a rientrare in casa e a caricare il PC. Però, arrivato alla terza rampa di scale, non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa non andava. Saltellò sul posto e sentì il tintinnio rassicurante delle chiavi nello zaino e il peso del telefono nella tasca. Non si era dimenticato niente, quindi perché…?

Il portone… Non aveva sentito che si chiudeva. Emise un gemito di frustrazione e si avviò mestamente giù per le scale. Il vecchio del piano terra gliene aveva dette di tutti i colori quando si era dimenticato di chiuderlo l’ultima volta; diceva che così entravano “bestie” nel condominio e che i “giovani smidollati” non avevano “le palle” di eliminarli una volta per tutte. E dato che non aveva voglia di beccarsi un’altra ramanzina eterna era meglio che rimediasse subito per non pentirsene il giorno dopo. Quel tipo avrebbe avuto il coraggio di fermarlo anche mentre stava per uscire per lavoro…

“Mi scusi…” Esordì, girando l’angolo e notando una figura sul portone. “Se deve entrare può chiudere lei il portone?”

Non ricevette risposta. Leo aguzzò la vista, cercando di capire se fosse uno degli inquilini del palazzo. “Scusi?” Tentò di nuovo, ma arrivato alla fine della rampa di scale fece uno scatto verso il portone, in panico.

Chiunque fosse, quella persona stava male. Molto male. La afferrò per le spalle, cercando di sorreggerla mentre la figura si afflosciava a peso morto contro di lui. “Ehi?!”

L’odore acre di sangue gli trapanò il cervello. Sentì il respiro incastrarglisi nel petto; per quanto ingoiasse aria, sembrava che i suoi polmoni non riuscissero a mandargli abbastanza ossigeno al cervello. Merda merda merda merda merda, era l’unica parola che continuava a ripetere mentalmente mentre cercava di tenere sveglio quello che capì essere un ragazzo terribilmente malconcio.

“Ci sei? Rimani con me! Ehi!” Gli diede qualche schiaffetto, inutilmente. “Qualcosa, dì qualunque cosa, ma rimani sveglio! Ehi!”

Nel panico più totale, pensò che non poteva certo lasciarlo steso sul pavimento conciato a quel modo. Se lo portava su in casa forse sarebbe riuscito a fare qualcosa fino all’arrivo di un’ambulanza. Se lo issò per bene contro di lui e lo trascinò dentro, verso il gabbiotto dell’ascensore, dove pigiò con furia il tasto del suo piano, pregando che quella macchina infernale si muovesse. Il ronzio dei cavi sembrò ritagliare un momento di pausa innaturale in cui il mondo si era fermato e lui era lì, chiuso in un ascensore con uno sconosciuto reduce da quella che sembrava una brutta rissa. Era ricoperto di sangue, i vestiti ne erano pregni. Sentì un conato di vomito farsi strada su per l’imboccatura dello stomaco. Gli girava la testa. La giornata era iniziata così bene, così bene….

Quando arrivarono al pianerottolo, sentì un flebile gemito vicino all’orecchio. “Scusa… Posso…?” Lo sconosciuto cercò di reggersi in piedi, ma non fece altro che afflosciarsi ancora di più addosso a lui.

Leo lo ignorò, occupato ad armeggiare con il mazzo di chiavi, ma si sentì rincuorato dal fatto che fosse ancora cosciente. Forse non era troppo tardi.

“Posso- entrare?” Ripeté lui con un filo di voce.

“Ehi…!” Entrò e richiuse la porta con il piede. “Pensavo fossi morto… Ti prego, parlami, continua a parlarmi, va bene?” Se lo issò meglio in spalla e si avviò lungo il corridoio, deciso a farlo adagiare sul divano.

Il ragazzo prese a soffiare come un gatto, torcendosi nella sua presa, ignorando le sue ferite come in preda a un dolore inimmaginabile. Nella sua furia, gli artigliò una spalla, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi, le pupille ridotte a una fessura, la sclera iniettata di sangue: “Dillo…! Ti prego!”

“Sei in un lago di sangue, porca puttana! Le buone maniere possono aspettare!” Leo era sempre più disorientato, il cervello che lavorava alacremente, e per l’adrenalina non sentì neanche le unghie dello sconosciuto che gli affondavano nei vestiti. Lo tenne stretto, cercando di evitare che aggravasse le sue stesse ferite. “Tu non stai bene, hai bisogno di un medico! Sta’ calmo, ti prometto che andrà tutto bene!” Lo adagiò a fatica sul divano, cercando di essere il più delicato possibile, ma il ragazzo continuava a dibattersi per il dolore, ora inarcando la schiena ora raggomitolandosi su se stesso per poi scalciare di nuovo, ansante.

“Ti prego…” Esalò di nuovo. L’attacco di cui era stato preda sembrava averlo lasciato sfinito. “Brucia…” Cercò di afferrargli il polso, ma il braccio gli ricadde inerte fuori dal divano, penzolante. “Dillo, che posso-” Un attacco di tosse gli mozzò il fiato in gola, lasciandolo boccheggiante.

Leo fece scorrere lo sguardo per la stanza, febbrile, alla ricerca del cellulare; nel mentre, si tastava il corpo con le mani, nella speranza di trovarselo in qualche tasca. “Sì, certo! Tutto quello che vuoi, va bene, va bene! Qualunque cosa sia! Adesso sta’ buono!” Non ci capiva più niente, sentiva solo il sapore acido del vomito e della bile che gli carezzava la gola all’odore sempre più acre e ferrigno del sangue. Stava impregnando ogni cosa, compresi i suoi pensieri. Doveva fare in fretta. Lottò con la fodera della sua tasca, che sembrava non voler lasciare il suo telefono, e digitò più in fretta che poteva il numero del 118, sbagliando un paio di volte per la fretta di pigiare i tasti.

Passarono alcuni secondi in cui sembrò che il mondo si fosse improvvisamente fermato. Dai dai dai. Sentiva solo il petto che si alzava e si abbassava, ritmico, il rumore del sangue che gli ronzava nelle orecchie, il segnale d’attesa del centralino dell’ospedale. Troppo lento, ci stavano mettendo troppo a rispondere. Lanciò un’occhiata alla macchia cremisi che si stava allargando sul divano, a quella già fiorita sul petto del suo ospite inatteso. Trasalì quando incrociò quegli occhi sbarrati, vitrei.

“Leo…” Rantolò. “Niente dottori. Niente ospedale. Ti prego…”

Il biondo proruppe in una breve risatina isterica. “Ah ha, no no, col cavolo. Ne hai bisogno e io non voglio guai.” A ogni intervallo tra gli squilli del telefono, il nodo che aveva in gola aumentava. “Andrà tutto bene, ma hai bisogno di un’ambulanza e ti serve ADESSO.”

Distolse lo sguardo di colpo, sentendo lo scatto alla risposta dall’altro capo del telefono. “Pronto?!” La sua voce si era fatta acuta per il sollievo misto a tensione che gli chiudeva la gola. Si schiarì la voce e riprese subito dopo: “Sono con un ragazzo gravemente ferito, è ricoperto di sangue!” Una pausa. “Sì, è con me, l’ho portato in casa.” Un’altra pausa. L’ospite a cui dava le spalle si trascinò giù dal divano, con un movimento inspiegabilmente felpato. “Lo so, me ne rendo conto... Potrebbe mandare subito un’ambulanza al mio indirizzo?”

“Leo…!” Il moro soppresse un gemito, reggendosi al tavolino da caffè. “Per favore, metti giù il telefono.” La sua voce era suadente, calma. Non c’era traccia di stanchezza né di dolore. Quel suono gli trapanò il cervello, facendo risuonare ogni neurone a una frequenza diversa.

Si fermò, inebetito. Quando aprì la bocca, le sue parole gli sembravano completamente sconnesse dai suoi pensieri, ovattate. “Mi scusi, devo essermi sbagliato.” Fissò fuori dalla finestra senza davvero guardare. Ascoltò parole che non riuscì a registrare. In testa aveva solo quel suono vibrante, intenso; riempiva ogni cosa, i suoi sensi ne erano inebriati. “Me ne rendo conto. Mi dispiace. Buona giornata.” Appena pronunciate queste parole, abbassò il telefono e senza guardarlo premette il pulsante di fine chiamata.

“Scusami…” Rantolò quello cadendo in ginocchio, gli arti ormai inerti.

Leo rimase qualche attimo fermo impalato, senza sbattere le palpebre, sospeso in un sogno. Il telefono gli scivolò lento dalla mano, atterrando di schermo sul pavimento con un sonoro colpo sordo. Leo trasalì, e spostò lo sguardo dalla mano vuota al pavimento. Glissò sul telefono e si soffermò sul grumo di vestiti sanguinolenti che si stava muovendo flebilmente sul tappeto. Sbatté le palpebre. Vestiti semoventi? “Cosa stavo facendo…?” L’odore del sangue lo colpì come uno schiaffo, risvegliandolo completamente dalla sua trance.

Il cumulo si mosse, gemendo. “Scusami… Colpa mia…”

“Porca merda, ma cosa-?!” Si precipitò al fianco dello sconosciuto, cercando di metterlo supino. “Ehi! Ehi! Merda…! Hai bisogno di un medico!”

“Ci siamo già incontrati…” Continuò l’altro con un filo di voce, cercando di mettere a fuoco il volto del biondo.

“Tu stai male, non sforzarti.” Si guardò intorno, facendo scattare lo sguardo in ogni angolo; poi si ricordò del telefono sul pavimento e si sporse per afferrarlo, sbloccando lo schermo nel mentre, pronto a digitare il numero del 118. “Tranquillo, ci penso io…!”

“Leo… Non puoi chiamare un’ambulanza. Non per me… Scusami… Ci siamo- già incontrati.” Il suo petto si alzava e si abbassava a un ritmo irregolare, preoccupante.

Il biondo esitò, il pollice pronto a premere il pulsante di chiamata. “…non ricordo di averti mai visto. Ma tu sai chi sono…?” Fece scivolare lo sguardo dal telefono al ragazzo quasi esanime davanti a lui un paio di volte, poi si decise a malincuore. “Va bene. Niente ambulanza.” Deglutì, sforzandosi di non strozzarsi con la saliva che non riusciva a passare oltre il nodo che aveva in gola. “Niente dottori. Quindi? Cosa ti serve?”

Il moro si rilassò visibilmente alle sue parole, come se fino a quel momento fosse rimasto teso come una corda di violino senza saperlo. “Riposo…” Come a voler rispondere al suo sguardo scettico e interrogativo, aggiunse: “Una stanza. Buia. Dovrei riprendermi…”

“Riposo?” Sbottò il biondo, tremando, quasi sul punto di vomitare da quanto quella situazione era diventata assurda. “Entri in casa mia ricoperto di sangue e- e- e vuoi farti un riposino?! Tutto qui?!” Sobbalzò all’improvviso attacco di tosse che colpì il ragazzo. Aveva un che di… bagnato, liquido. Spiacevole. Il suo cervello entrò automaticamente in panico. “Va bene, okay…!”

Cercò di sollevarlo facendo attenzione, sorreggendolo, e iniziò a farsi strada verso la camera da letto. “Ti porto in camera mia e chiuderò le tapparelle. Dovrebbe andare bene…”

Il ragazzo rimase in silenzio e non oppose alcuna resistenza, lasciando che l’altro lo adagiasse sulle coperte. Leo si precipitò a chiudere le tapparelle, facendo sprofondare la stanza nell’oscurità, fesa solo dalla lama di luce che entrava dalla porta. Solo allora il moro si lasciò sfuggire un gemito sommesso, un suono pieno di dolore, ma anche sollievo. “Scusa… Le lenzuola…”

Leo fece spallucce. “Quelle le posso lavare, la mia coscienza no.” Si diede mentalmente dello stupido per la sua mania di voler fare dello spirito anche in situazioni di merda. “No, okay, scusa, lascia stare. Riposa quanto vuoi, verrò a controllare più tardi. Va bene?”

Non ricevette alcuna risposta. Il ragazzo era già caduto in un sonno profondo, immobile, così come l’aveva appoggiato sul letto.

 


 

Note dell'autrice: Smetterò mai di usare gli stessi due personaggi per mille storie e universi diversi? Ai posteri l'ardua sentenza. Per ora: NO. E sono anche scesa nel girone dell'inferno riservato a chi si infila troppo a fondo nel mondo delle storie di vampiri.

CrispyGarden, ti ritengo personalmente responsabile per il dettagliatissimo universo che stiamo costruendo per questa storia.

 

 





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