Dita Spezzate
Titolo: Dita Spezzate
Autore: SignorinaEffe87
Prompt: #26. Ispirati al verso di una canzone (Thirtydayshathseptember Challenge; Non Solo Sherlock – Gruppo Eventi Multifandom)
Fandom: Videogiochi > Pokémon Spada & Scudo
Tipologia: Alternate Universe – Japanese Folklore, One Shot, Slice of Life
Personaggi Principali: Samurai!Kabu, Dragon!Kibana/Raihan, Commodore!Rose
TW/Avvertimenti: BL/Slash/MlM (se non è la tua tazza di tè, non leggere, grazie)
Dalla Tana della Scribacchina:
di fatto, è il teaser trailer di una One (Long) Shot che avrei
intenzione di scrivere, ma che è ancora in fase di elaborazione.
In generale, l’idea per un
Folklore!AU su questi due, che covo da qualche tempo, mi è venuta
guardando le fanart di questa artista su Twitter (voxxslash).
“(…) ‘Cause the space between my fingers
Is right where yours fit perfectly.”
Owl City, “Vanilla Twilight”
Era solo, nell’oscurità, e non sentiva più il rumore del mare.
La paura montava, dal petto alla
gola, come un’onda nera e travolgente, come la marea che avrebbe dovuto
udire fuori dalla finestra, se quella stanza buia avesse avuto finestre.
Non sono più nel santuario.
“Non sei più nel santuario” gli
confermò una voce che riconobbe con avversione e timore, il graffio di
un chiodo arrugginito fin dentro le orecchie, “Ti ho riportato nella
capitale, Kabu. Non mi hai lasciato altra scelta.”
“Solo perché non era la scelta che mi avete imposto voi, Commodoro”
pensò, a denti digrignati, ma non glielo disse ad alta voce; come un
incubo, sperava che sarebbe scomparso soltanto ignorandolo.
I pensieri iniziarono ad affollarsi
nel retro delle sue tempie: come era stato catturato? Avevano preso
anche Yarrow e Rurina? Kibana era riuscito a mettersi in salvo?
Nell’unica lama di luce che la
porta socchiusa lasciava entrare, gli occhi del Commodoro Rose
scintillavano, come gemme in un tesoro che avrebbe maledetto chiunque
osasse toccarlo. Lui ci aveva fatto un patto, con quell’uomo potente e
pericoloso, un patto che aveva infranto, e di questa infrazione adesso
avrebbe dovuto pagare le conseguenze.
Non ricordava nulla di come fosse
arrivato lì, ma sperava soltanto che gli altri fossero al sicuro, in
qualche nascondiglio segreto del santuario che lui non aveva fatto in
tempo a raggiungere, o che forse aveva evitato per attirare gli uomini
della Capitana Olive lontano da loro.
Se tace, se non mi sbatte in faccia la loro cattura per piegarmi, allora significa che sono riuscito a impedirgli di prenderli.
Posso anche morire, sapendo che i miei compagni di viaggio sono liberi. Che Kibana è libero.
“Sei sempre stato un uomo
orgoglioso e testardo, Kabu, e io ti ho sempre ammirato per questo,
anche se eri una maledetta spina nel fianco, una che non mi posso più
permettere di tollerare” esordì Rose, mentre si avvicinava, elegante
come un predatore in agguato nell’erba alta, “Quando sei circondato da
persone che ucciderebbero la loro madre senza esitazione pur di
compiacerti, un vecchio guerriero che sfida apertamente la tua autorità
è un imprevisto quasi gradito.”
Non rispose, non avrebbe dato
alcuna importanza a quell’uomo innamorato soltanto del suono della
propria voce e del peso del proprio potere, anche se era costretto a
starlo a sentire.
“Credevo, però, che tu tenessi al
tuo rango e alla tua spada a sufficienza da obbedirmi, almeno questa
volta”: sorrideva, nel buio, un sorriso affilato come la lama di un
boia, “Ti avevo dato un solo ordine, Kabu, molto semplice: dovevi
portarmi la testa del drago del santuario marino. E, invece, cosa
scopro? Che ti sei infilato nel letto di quella… bestia, qualcosa che
mi sarei aspettato da una prostituta di strada, non da un guerriero che
rispettavo, in un certo qual modo.”
“Non ucciderò mai Kibana per voi,
Commodoro” ringhiò, un avvertimento futile, l’ultima resistenza di un
animale in trappola, “Lui è il mio consorte e io gli appartengo, come
non sono mai appartenuto né a voi, né a nessun altro.”
“Molto commovente… e assolutamente
stupido!”: tentò di resistere alla pressione dello stivale contro il
petto, ma Rose era più giovane, più arrabbiato e non aveva delle catene
a ostacolargli i movimenti. Si ritrovò steso sul pavimento, affamato
d’aria, incapace di emettere qualsiasi suono che non fosse un sibilo
strozzato.
“Forse penserai che adesso ti
ucciderò, Kabu. E invece no, perché non sono così magnanimo con chi si
permette di contrariarmi”: il suo sguardo era gelido e malevolo, come
l’oceano in tempesta che l’aveva quasi inghiottito mentre navigava
verso il santuario, la notte in cui aveva incontrato Kibana. La notte
in cui aveva tradito il despota.
“Troverò i tuoi amichetti, scoverò
persino il tuo adorato maritino squamoso, ma non sarai molto felice di
rivederli, quando te li porterò in dono.”
Avvertì la stretta sinuosa delle
sue dita attorno al polso destro, una presa ferrea, che lo costrinse ad
aprire il palmo, indifeso come un insetto rovesciato: “Intanto, però,
mi assicurerò che tu non riesca a brandire una spada, mai più!”
Riconobbe la propria voce che gridava nel silenzio quieto della stanza, strappandolo al dormiveglia tormentato dagli incubi.
Non era steso sul pavimento freddo
e lurido di una cella buia, ma sul materasso soffice di una camera in
penombra. Non era incatenato e schiacciato al suolo dal Commodoro Rose,
ma libero e raggomitolato contro Kibana, un enorme gatto coperto di
scaglie che russava piano nell’incavo del suo collo. Oltre le pareti,
riusciva a sentire di nuovo lo sciabordio fiero delle onde dell’oceano,
la sterminata distesa d’acqua che lo separava e lo proteggeva dal
tiranno a cui aveva voltato le spalle per un drago.
Non si sarebbe riaddormentato tanto
presto, non fino a quando il cuore non avrebbe smesso di battergli nel
petto come un uccellino impazzito, quindi sollevò la mano della spada,
quella che Rose gli avrebbe spezzato, anche nella realtà, se solo
avesse commesso l’errore di lasciarsi prendere.
Si soffermò a osservarla, nella
scarsa luce giallastra di una candela che non si era spenta del tutto:
era la mano secca e nervosa di un uomo non più giovane, che aveva
attraversato la vita guadagnandosi da vivere con il filo della propria
spada. C’erano calli e screpolature ormai rimarginatesi, e ricordava
ancora ogni singolo allenamento o duello con cui se li era procurati.
Rivide le macchioline candide, la traccia delle ustioni che gli
impacchi di erbe di Yarrow non erano riusciti a cancellare del tutto,
quando l’aveva salvato dal rogo del suo studiolo di folklorista. Anche
se lei l’aveva stretto forte, come se temesse di vederlo sparire come
una speranza infranta, non c’era più traccia della presa delle piccole
dita di Rurina, dopo che non aveva avuto il coraggio di lasciarla
morire di fame nel villaggio distrutto dei pescatori di perle. E, in
quell’istante, s’insinuarono fra le sue le dita scure di Kibana, gli
artigli del drago che avrebbe dovuto uccidere, nell’intreccio
indissolubile con cui si erano scelti, lo spazio esatto in cui
smettevano di essere divisi.
“Un brutto sogno?” gli chiese
Kibana, in un miagolio sonnolento, mentre gli stringeva più forte la
mano e appoggiava la fronte ruvida contro la sua.
“Sì, soltanto un brutto sogno.”
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