Ives
Not like the others
Richiusi la porta dell’ufficio del preside, poi mi voltai
verso i miei compagni di classe e presi a ridacchiare.
“Anche questa volta ce la siamo cavata” esultò Diego, dando
il cinque prima a me e poi a Gordon.
“Però forse è meglio smetterla con questi scherzi. Non avete
sentito cos’ha detto il preside? La prossima volta che la maestra Watson si
lamenterà di noi, chiamerà i nostri genitori… mio padre mi uccide!” sussurrò
Gordon mentre ci incamminavamo verso la nostra aula.
“E dai, non succederà niente! E poi è troppo divertente far andare
fuori di testa la maestra, avete visto come ha strillato oggi?” lo rassicurò
Diego, mollandogli una forte pacca sulla schiena e sorridendoci divertito.
“La prossima volta, al posto di metterla sulla sedia, la
gomma da masticare possiamo lanciargliela nei capelli!” suggerii io.
“Grande, Ives!” esultò Diego, mostrandomi il pollice
all’insù.
“Tanto ormai li sta perdendo, non sarà così grave se li
dovrà tagliare” aggiunsi.
Gordon si strinse nelle spalle. “È troppo esaurita, secondo
me è per quello che le stanno cadendo.”
Scoppiammo a ridere.
Mi guardai attorno per assicurarmi che i corridoi fossero
deserti, poi mi voltai verso i miei due compagni e scoccai loro un sorriso
complice. “Facciamo una gara? A chi arriva prima in classe!”
Gordon annuì.
“Ci sto!” accettò Diego con entusiasmo.
“Okay, allora, pronti sulla linea di partenza! Uno… due…
tre…” contai, mettendomi in posizione e concentrandomi.
“Via!” gridò Gordon, cogliendoci alla sprovvista e scattando
in avanti.
“Non vale, lo dovevo dire io! Sei partito prima!” protestai,
prendendo a correre a mia volta.
Nonostante il suo vantaggio arrivai alla porta della nostra
classe per primo, perché tra i tre ero il più veloce e l’avevo sorpassato senza
troppa fatica; quando rientrammo nell’aula, avevamo il fiatone, il volto
arrossato per la corsa e non riuscivamo a smettere di ridere.
La maestra Watson ci trucidò con lo sguardo, tra il brusio
generale dei nostri compagni. “Cosa stavate combinando là fuori?”
“Niente” risposi subito, mettendo su il mio miglior sorriso
innocente.
“Siamo sudati perché, anche se è autunno, fa ancora molto
caldo” improvvisò Diego.
“Va bene, andate a posto, mi avete fatto perdere già troppo
tempo oggi” ci liquidò in fretta in tono rassegnato, tornando a posare lo
sguardo sulla lavagna dove stava scribacchiando qualcosa. Sembrava quasi
infastidita dalla nostra presenza, ma del resto non aveva tutti i torti; da
quando era cominciato l’anno scolastico, gliene avevamo combinato di tutti i
colori.
Presi posto al mio banco insieme a Diego, mentre Gordon si
sedette in quello subito dietro il nostro, come al solito.
“Allora, dove eravamo rimasti? Ah già: esistevano diversi
tipi di dinosauri, alcuni si spostavano sulla terraferma, mentre altri vivevano
in acqua e altri ancora si spostavano in volo. Mi raccomando, bambini, prendete
appunti: ora vi elencherò alcune tra le specie di dinosauri più diffuse e le
loro caratteristiche…”
Mentre gran parte degli alunni apriva il proprio quaderno,
io poggiai la testa sul banco con fare annoiato e smisi di ascoltare la
spiegazione della maestra. Avevo solamente voglia di uscire e godermi le ultime
briciole d’estate che presto il freddo avrebbe portato via.
D’improvviso un gridolino si levò dall’estremità opposta
dell’aula, facendomi sobbalzare e interrompendo la cantilena della maestra
Watson; sollevai la testa e mi accorsi che Lisbeth, una mia compagna, era
saltata in piedi e fissava con occhi sgranati la finestra accanto a cui sedeva
di solito.
“Lisbeth, che c’è?” le domandò la maestra confusa,
sovrastando il borbottio che si era diffuso nella stanza; qualcuno si era addirittura
alzato dalla sua sedia per accostarsi al vetro.
La bambina, con le guance rosse per la vergogna, abbassò lo
sguardo. “È che… che lì fuori c’è una cavalletta e io ho paura” balbettò,
facendo qualche altro passo indietro.
“La finestra è chiusa, mica la cavalletta ti salta addosso!”
la prese in giro Matt, picchiettando sul vetro e poi voltandosi verso di lei
con un sorrisetto ironico.
“Tornate ai vostri posti! Lisbeth, anche tu!” Il tono della
maestra Watson si addolcì un po’ quando si rivolse alla bambina; Lisbeth era
una delle alunne più brave, attente e tranquille della classe, gli insegnanti
non la rimproveravano mai.
“Ma maestra, ho troppa paura!” ribatté, sistemandosi
nervosamente gli occhialini dalla montatura verde che le stavano scivolando sul
naso.
“Che sfigata” borbottò Diego, mentre un’espressione
divertita si dipingeva sul suo viso tondo.
“Lo fa solo per attirare l’attenzione” sussurrò Gordon a sua
volta in tono tagliente.
La Watson sospirò. “Qualcuno può scambiarsi di posto con
lei? Almeno se sta lontana dalla finestra, non vede la cavalletta.”
“Io!” si offrì subito Richard, uno dei bambini che stava al
primo banco.
Mentre facevano a cambio, Lisbeth lo ringraziò timidamente e
lui nemmeno le rispose; sapevo bene che le aveva fatto quel favore solo perché
voleva stare nell’ultima fila e non per gentilezza. Nessuno era mai carino con
Lisbeth.
Io sinceramente non capivo cosa avessero tutti contro di
lei: certo, era una tipa un po’ strana e timida, stava sempre per i fatti suoi
e non aveva amici, ma non dava mai fastidio a nessuno.
“Bene, adesso che tutti i problemi si sono risolti, fate
silenzio e prendete la penna in mano: vi devo dettare alcune date importanti
che dovrete imparare a memoria” riprese la parola la maestra.
Dopo aver assistito a tutta la scena in silenzio, posai
nuovamente la testa sul banco e chiusi gli occhi.
“E così quella cretina di Lisbeth ha paura delle cavallette”
sentii bisbigliare a Gordon in tono cospiratorio, segno che gli era venuta in
mente qualche idea.
“Allora possiamo usare questa cosa per farle qualche
scherzo” rispose subito Diego con lo stesso fare complice. “Ives, hai sentito?
Apri gli occhi, ci serve il tuo aiuto!”
Spalancai le palpebre e lanciai un’occhiata di sbieco ai
miei compagni di scorribande. “Perché io?”
“Perché tu sei il più veloce, il più piccoletto e il più
bravo a non farti scoprire. Sentite, facciamo così: ci procuriamo una
cavalletta e poi all’ora di ginnastica, quando tutti lasciano gli zaini negli
spogliatoi, la infiliamo tra le sue cose. Così Lisbeth si ritroverà una bella
sorpresa! Che ne dite?” propose Diego col suo solito sorrisetto furbo, forse
anche un po’ cattivo.
Lanciai un’occhiata a Lisbeth che, al primo banco, prendeva
appunti e teneva sempre lo sguardo basso. La verità era che non mi andava di
farle uno scherzo. Finché si trattava della maestra, dei bidelli o di qualche
altro compagno con cui andavamo d’accordo, non avevo nessun problema a
combinarne di tutti i colori; però non volevo prendermela proprio con lei, che
era troppo timida anche solo per chiacchierare con noi, che non sapeva mai
difendersi e aveva sempre le guance rosse per l’imbarazzo. Non era mia amica,
ma non volevo comunque trattarla male.
“Ives, ti abbiamo fatto una domanda” mi riportò alla realtà
Gordon, sporgendosi appena verso di me e dandomi un colpetto sulla spalla.
“Io… io… non lo so” bofonchiai, per poi abbassare lo
sguardo.
“E dai, sarà divertentissimo!” tentò di convincermi Diego
con un sorrisone.
“Mancini, Carter e Suarez! Di nuovo voi? Volete fare una
seconda gita dal preside?” tuonò la maestra Watson.
Io, Diego e Gordon ci voltammo di scatto e io misi su il mio
solito sorriso innocente.
“Non se la prenda, stavo… io e Diego stavamo chiedendo a
Gordon un paio di quei dinosauri che ha detto lei prima, perché ce li siamo
persi” inventai, giusto per provare a porre rimedio.
“Se foste stati attenti per tutta la lezione, non ve li
sareste persi! E adesso esigo silenzio assoluto, altrimenti sarò io stessa a
convocare i vostri genitori!”
Mi trattenni dallo sbuffare e incrociai le braccia al petto,
socchiudendo gli occhi.
“Ci serve il tuo aiuto perché tu, tra noi tre, sei quello
che potrebbe riuscirci meglio! Tra l’altro ottieni quello che vuoi con quel
faccino da angioletto, nessuno sospetta mai di te!”
Io, Gordon e Diego ci trovavamo nel cortile della scuola per
l’intervallo; come al solito, avevamo preso posto sul bordo di un’aiuola piena
di erbacce e ci facevamo scaldare dal sole tiepido di ottobre. Attorno a noi
volavano le risate dei nostri compagni di scuola insieme alle prime foglie
rosse e arancioni che si erano staccate dagli alberi.
Io tenevo lo sguardo basso e cercavo qualcosa di
intelligente da dire. Ero sempre meno convinto; non mi andava proprio di essere
cattivo con Lisbeth, ma non volevo nemmeno fare la figura del guastafeste con i
miei amici. Non potevo tirarmi indietro, altrimenti Diego e Gordon mi avrebbero
preso in giro.
“Io… ci devo pensare. Nemmeno a me stanno molto simpatiche
le cavallette” inventai.
“E dai, Ives! Non vedo l’ora di vedere la faccia di quella
smorfiosa quando si ritroverà quella bestiaccia nello zaino!” strepitò Diego,
scoppiando a ridere e battendosi un paio di volte la mano sul petto ampio.
“Strillerà così forte che la sentiranno fino a New York!”
ghignò Gordon, e la sua espressione cattiva affilò ancora di più il suo viso
magro e spigoloso.
“No, fino a Londra!”
“Fino in Australia!”
I due bambini risero soddisfatti.
Lanciai un’occhiata di sfuggita a Lisbeth: si trovava a
qualche metro da noi, in piedi all’ombra di un albero, e teneva lo sguardo
basso mentre sgranocchiava la sua solita ciambella alla marmellata. Da sola,
ovviamente. Indossava una maglia a maniche lunghe color panna un po’ troppo
larga per lei, dei pantaloni verdi sbiaditi e delle scarpe da ginnastica beige,
abbinate al suo zaino.
“Come mai la odiate così tanto?” chiesi d’istinto ai miei
amici.
“Tutti la odiano, Ives” spiegò subito Diego.
“Perché è una sfigata. Hai visto come si veste?” commentò
Gordon.
Abbassai lo sguardo sulla mia t-shirt stropicciata che un
tempo era stata nera, ma ormai era passata al grigio; nemmeno io mi vestivo
bene, zia Maura non aveva tantissimi soldi e li doveva dividere tra me e
Maggie, ma nessuno mi prendeva in giro per quel motivo.
Forse anche i genitori di Lisbeth erano poveri e non
potevano comprarle dei vestiti più belli.
“Ma non è solo questo!” aggiunse Diego con enfasi,
mettendosi addirittura in piedi. “È anche per come si comporta. Non vedi che
sta sempre per i fatti suoi e non gioca mai con le altre bambine? E sai perché
lo fa?”
Scossi il capo.
“Perché è snob. È antipatica e nessuno vuole stare con una
tipa come lei. Ed è anche la preferita di tutte le maestre!”
“Magari è solo un po’ timida” osservai.
“Chi se ne importa! Allora, possiamo contare su di te per lo
scherzo?” cambiò discorso Gordon, scoccandomi un’occhiata complice.
“Beh, io…” Presi a fissare le punte delle mie scarpe,
immerse tra le foglie secche, e in quel momento sarei voluto essere una di loro
per poter volare via alla prima folata di vento. Non sapevo più cosa inventarmi
per restare fuori da quell’idea troppo cattiva.
Presi fiato e aprii bocca, pronto a rispondere che li avrei
aiutati e che ci stavo, quando qualcuno alla mia destra si schiarì la gola e
chiamò il mio nome con un filo di voce.
Tutti e tre ci voltammo: Lisbeth si trovava proprio accanto
a noi, con lo sguardo basso, le guance in fiamme e un quadernetto blu stretto
tra le mani tremanti.
Le sorrisi. “Ehi.”
“Ives, ti è… ti è caduto questo. L’ho trovato per terra, in
classe, e c’è scritto il tuo nome” mormorò, porgendomi l’oggetto.
Mi misi in piedi, lo afferrai e lo esaminai per qualche
secondo. “Sì, è il mio. Grazie per avermelo restituito!”
“Di niente.”
Per un attimo riuscii a incrociare i suoi occhioni verdi, ma
lei subito arrossì e distolse lo sguardo per poi fuggire via, facendo oscillare
sulle spalle la sua disordinata coda di cavallo.
Osservai per un attimo il quaderno che Lisbeth mi aveva
restituito; era stata così gentile con me, ed era così tenera quando arrossiva
e non riusciva a guardare negli occhi le persone con cui parlava. Come potevano
pensare che fosse snob?
Nel mentre Gordon e Diego avevano preso a sghignazzare e
borbottare tra di loro, ripetendo ancora una volta quanto sarebbe stato
divertente infilarle la cavalletta nello zaino e che dovevano trovarne una
bella grande per farla spaventare ancora di più.
“Sentite, io… non ce la faccio” sbottai all’improvviso. Non
sapevo cosa mi fosse preso, ma non ero proprio riuscito a trattenermi.
I miei amici smisero di parlare tra loro e mi lanciarono
un’occhiata stranita.
“È… che… non voglio fare questo scherzo a Lisbeth. Lei non è
cattiva e non si sa difendere, ci resterebbe troppo male.”
“Ma è quello il bello dello scherzo!” mi contraddisse Diego,
sgranando i suoi grandi occhi scuri come se avessi parlato in cinese.
In effetti non era da me dire di no, ero sempre il primo a
entusiasmarsi quando pensavamo a qualche nuovo scherzo.
Ma stavolta era diverso.
“Gli scherzi sono divertenti quando alla fine ridono tutti”
mormorai.
“Ma infatti rideremo tutti” mi fece notare Gordon.
“Io non capisco proprio dove sta il problema!” sbottò Diego,
incrociando le braccia al petto con fare offeso.
“Non lo voglio fare e basta!” ribattei, stringendo più forte
il quaderno tra le mani. Ormai avevo preso la mia decisione.
“Va bene, sai che ti dico?” si arrese Gordon, voltandosi
verso Diego. “Non fa niente, ci penseremo noi a sistemare quella strega di
Lisbeth. Se Ives non lo vuole fare, peggio per lui: si perderà tutto il
divertimento!”
“Hai ragione, peggio per lui! E comunque, Ives, sei una
femminuccia!”
Mi sedetti di nuovo sul gradino e presi a sfogliare le
pagine piene di scarabocchi e qualche appunto di matematica, senza davvero
fermarmi a leggere; avevo le guance in fiamme, un po’ mi vergognavo di essermi
tirato indietro e di aver fatto la figura dello stupido. Però ero così, certe
volte non riuscivo a stare zitto davanti a quelle che consideravo ingiustizie.
Speravo almeno di aver fatto la scelta giusta.
Lanciai un’occhiata complice a Richard e calciai la palla
nella sua direzione; lui subito la bloccò col piede e prese a correre verso la
porta avversaria, mentre Michael gli stava alle calcagna e cercava di
rubargliela.
Sorrisi soddisfatto e mi passai una mano tra i capelli
corvini e sudati, cercando di scacciarli dalla fronte; tutti mi dicevano che
ero il centrocampista più bravo della classe, e in effetti era vero. Mi piaceva
un sacco giocare a calcetto con i miei compagni all’ora di ginnastica.
Sollevai gli occhi al cielo grigio e coperto di nuvole, poi mi
guardai attorno: in un angolo del campetto le bambine saltavano la corda,
mentre qualche altro nostro compagno si era seduto in panchina.
Non mi sfuggirono Gordon e Diego che borbottavano e
ridacchiavano tra loro con fare cospiratorio e allora mi tornò in mente lo
scherzo di cui avevano parlato qualche giorno prima. Me ne ero completamente
dimenticato!
Li osservai per qualche secondo: Gordon lanciò un’ultima
occhiata complice a Diego prima di avvicinarsi al maestro Strike, che era
intento a seguire la nostra partita; parlò con lui per qualche secondo e, anche
se non potevo sentire cosa si dicevano, capii che stava cercando di ottenere il
permesso per andare negli spogliatoi. Infatti poco dopo il bambino biondiccio
corse via con fare soddisfatto.
“Parata!” strillò all’improvviso Matt, facendomi sobbalzare
e cominciando a saltellarmi accanto.
Tornai a concentrarmi sul campo: Simon, il nostro portiere,
teneva la palla tra le mani con un sorrisone dipinto sul viso, mentre i nostri
avversari sbuffavano e si lamentavano.
“Sei il migliore, Simon!” esultò Richard, accostandosi al
suo migliore amico per dargli il cinque.
“Ives, ma tu stavi guardando? Ti sei perso una parata favolosa!
La palla era altissima ed era praticamente già nella rete, ma Simon ha fatto un
salto enorme e l’ha presa con due dita!” raccontò Matt entusiasta.
Gli sorrisi appena, ma in realtà avevo la testa altrove.
“Non l’ho visto.”
“Dai, dobbiamo ricominciare” disse Simon, lanciandomi il
pallone.
Lo afferrai e lo posizionai sul cemento sbiadito. “Palla al
centro!”
Dovevo concentrarmi sul gioco, ma di tanto in tanto mi
tornava in mente la scena di Gordon che correva verso gli spogliatoi e non
riuscivo a stare tranquillo. Se lui e Diego avevano davvero deciso di giocare
quel brutto scherzo a Lisbeth, presto sarebbe scoppiato il finimondo e tutti
l’avrebbero presa in giro ancora di più.
Ci pensavo e ci ripensavo mentre correvo e calciavo il
pallone, stavo perdendo la concentrazione: al posto di tenere gli occhi fissi
sul campo, li spostavo sempre su Lisbeth che saltava la corda insieme alle
altre bambine e mi sentivo in colpa.
Era meglio stare zitto o fare qualcosa?
“Ehi, che cavolo fai? Ives! La palla ti è passata
praticamente a un centimetro dai piedi e non l’hai presa, ma dove hai la testa?”
mi sbraitò contro Matt, quando mi lasciai sfuggire l’ennesimo passaggio
perfetto.
“S-sì… scusa, ma… ragazzi, sentite: io non gioco più, devo
andare a… fare una cosa” me ne uscii mentre indietreggiavo verso il bordo del
campo.
Ma cosa accidenti stavo combinando? Alla fine non ero
riuscito a trattenermi e come al solito avevo seguito l’istinto. Non ce la
facevo più a stare lì e far finta di niente.
“Ma cosa stai dicendo, Ives? E ci lasci così, in mezzo alla
partita? Avremo un giocatore in meno!” ribatté Simon, fulminandomi con lo
sguardo.
“È urgente. Buona fortuna!” conclusi, correndo via e
dirigendomi negli spogliatoi senza nemmeno chiedere il permesso al maestro.
Dovevo fare in fretta: l’ora di ginnastica stava per finire e presto tutti gli
alunni sarebbero rientrati negli spogliatoi per recuperare la loro roba.
Mi fiondai nello stanzino delle femmine – non poteva nemmeno
definirsi spogliatoio, era una specie di sgabuzzino buio e pieno di
attrezzature da palestra malconce – e cercai con lo sguardo lo zaino beige di
Lisbeth: era abbandonato a terra in un angolo. Mi accovacciai davanti a esso e
trovai la zip chiusa solo per metà, segno che non era stata la sua proprietaria
a toccarlo per ultima; LIsbeth era troppo ordinata e attenta per lasciarla
mezza aperta.
Cominciai a frugare all’interno della borsa e dopo alcuni
secondi trovai proprio quello che cercavo: una cavalletta enorme, talmente
grande che dovetti usare entrambe le mani per intrappolarla.
Ormai ce l’avevo quasi fatta, dovevo solo trovare il modo
per richiudere lo zaino di Lisbeth e sgattaiolare via…
Proprio in quel momento la porta si spalancò e quattro
bambine, tra cui Lisbeth, fecero il loro ingresso nello stanzino.
Ero fregato.
“Ives! Che cosa ci fai nello spogliatoio delle femmine?
Vattene subito!” sbottò Tracy indignata.
Ma non feci nemmeno caso a lei, troppo concentrato a osservare
Lisbeth: trovandomi in ginocchio davanti al suo zaino aperto – avevo cercato di
alzarmi con uno scatto, ma non ci ero riuscito –, era sbiancata e aveva
spalancato occhi e bocca. “Ives! Cosa stai facendo con le mani nel mio zaino?
Mi stavi rubando qualcosa!” mi accusò subito, facendo un passo in avanti. Nei
suoi occhi però non c’era rabbia, sembrava solo terrorizzata e imbarazzata.
“Ascolta, io… Lisbeth, volevano farti uno scherzo! Guarda
cosa ti hanno messo dentro lo zaino! Io volevo solamente toglierla!” mi
affrettai a spiegare, balzando in piedi e andandole incontro. Schiusi
leggermente le mani per farle vedere la cavalletta, ma non appena capì di cosa
si trattava, si lasciò sfuggire un grido e scappò nuovamente all’esterno.
Uscii a mia volta, liberai la cavalletta dove capitava e la
seguii; dovevo assolutamente spiegarle come erano andate le cose, non volevo
che pensasse che fosse colpa mia. Io non c’entravo niente, volevo solo darle
una mano, e invece ora mi odiava perché credeva fosse stata una mia idea.
La trovai in un angolo nascosto agli occhi del maestro e dei
nostri compagni, poggiata contro una parete, con le guance rigate di lacrime.
“Lisbeth, ascolta…”
“Non mi interessa! Volevi mettermi quel mostro orribile
nello zaino, vero?” sbottò tra i singhiozzi.
Mi poggiai al muro accanto a lei, ma Lisbeth si staccò e si
allontanò.
“Io non c’entro niente! Sono stati Diego e Gordon, te lo
giuro, li ho… li ho sentiti mentre ne parlavano e mi sono preoccupato e allora…
non volevo che tu trovassi la cavalletta e sono andato a toglierla…” tentai di
spiegare, ma man mano che parlavo sul volto della mia compagna si dipingeva una
smorfia dubbiosa.
“E come faccio a sapere che è vero? Perché dovrei credere a
te? Tu sei cattivo, Ives! Fai sempre scherzi a tutti, sei sempre con quegli
altri due! Eravate tutti d’accordo, vero?” Lisbeth tentava di gridare e
sembrare arrabbiata, ma non ce la faceva; ai miei occhi appariva solo molto
triste e delusa, mentre si sfilava gli occhiali e si asciugava le lacrime con
la manica della maglietta.
“Io non te lo posso dimostrare, però te lo giuro… non volevo
che ti spaventassi…” mormorai, abbassando lo sguardo e sentendo le guance che
andavano a fuoco. Non sarei mai riuscito a convincerla.
“Non ti credo.” Tirò su col naso, si passò una mano sugli
occhi e si rimise gli occhiali. “Ma stai tranquillo, non dirò niente al
maestro. Non sono una spia.”
Detto questo, se ne andò a testa bassa.
La osservai con un nodo in gola e gli occhi lucidi. Come
avevo fatto a cacciarmi in questa situazione? Ogni volta che cercavo di fare
qualcosa di buono, mi andava sempre male.
Forse aveva ragione lei a dire che ero un bambino cattivo.
Non riuscivo a essere buono nemmeno se mi sforzavo.
Tirai su col naso.
Lisbeth era intenta a scarabocchiare qualcosa su un foglio:
il suo banco era sommerso di penne, matite e pennarelli di tutti i colori.
Qualche volta avevo visto di sfuggita i quaderni con i suoi appunti: erano
tutti colorati e ordinati, pieni di schemi che facevano sembrare più
interessanti gli argomenti da studiare.
Il suo volto magro e delicato era corrucciato per la
concentrazione: aveva le labbra sottili leggermente piegate all’interno, gli
occhialini dalla montatura verde che le scivolavano sul naso ogni tanto e le
sopracciglia sottili erano aggrottate. I capelli ondulati color miele erano
raccolti in una coda di cavallo grazie a un elastico lilla.
Tutti in classe dicevano che era brutta, che aveva la faccia
da arpia e la prendevano in giro perché portava gli occhiali, ma in realtà era
molto carina.
Era solo un po’ particolare.
Quel giorno – come succedeva spesso – quando era cominciato
l’intervallo non si era mossa dal suo banco, non era uscita in cortile; aveva
portato fuori un foglio e si era messa a disegnare, ignorando tutto e tutti. Soprattutto
me: da quando era capitato il malinteso della cavalletta, qualche giorno prima,
non mi aveva più guardato nemmeno per sbaglio. Doveva essere molto offesa.
Presi un respiro profondo mentre scacciavo alcune ciocche
corvine dagli occhi, poi afferrai la bustina bianca che avevo posato sul mio
banco e mi avvicinai a lei.
Lei non parve accorgersi del mio arrivo.
“Ciao Lisbeth” la salutai, leggermente nervoso. Non era da
me, in genere ero così disinvolto, ma questa volta era un caso particolare.
Lei mi rivolse una breve occhiata, ma non mi rispose e
continuò a disegnare tante foglie colorate: rosse, gialle, arancioni, marroni.
Sembrava voler imprigionare l’autunno sul suo foglio.
Mi sedetti nel posto vuoto accanto al suo, che in genere era
occupato da Millie. “Che fai?” le chiesi, sporgendomi appena verso di lei.
“Ives, per favore… mi lasci da sola?” mormorò, ma non c’era
cattiveria nella sua voce; sembrava solo molto imbarazzata.
“In realtà sono venuto qui per darti una cosa” annunciai con
un sorrisone.
Lisbeth sollevò finalmente il capo e mi rivolse un’occhiata
confusa e interrogativa.
Le porsi la bustina che avevo in mano. “Tieni.”
Lei la afferrò sospettosa ed esitò qualche secondo prima di
aprirla.
Ridacchiai. “Non c’è una cavalletta dentro, stai
tranquilla!” la rassicurai, ma lei non sembrò apprezzare la mia battuta e
storse il naso con fare schifato.
Ma la sua espressione cambiò quando lanciò un’occhiata
dentro il contenitore di carta bianca; con gli occhi sgranati, estrasse la
ciambella alla marmellata che avevo comprato apposta per lei. Non avevo tanti
soldi, infatti avevo dovuto rinunciare alla mia merenda quel giorno, ma non
importava: dovevo assolutamente fare qualcosa per farmi perdonare da Lisbeth.
“Le ciambelle alla marmellata sono il mio dolce preferito”
mormorò, mentre le guance si facevano sempre più rosse.
“Lo so. Ti ho visto mangiarle all’intervallo un sacco di
volte e ho pensato che potesse farti piacere” ammisi con un sorriso, piegando
appena la testa di lato.
Lei poggiò la bustina sul banco e sbatté un paio di volte le
palpebre. “Perché l’hai fatto?”
“Perché tu non mi credi quando ti dico che non sono stato io
a farti quello scherzo, pensi che io sia cattivo. Non voglio che tu sia
arrabbiata con me.” Abbassai lo sguardo per un attimo, pieno di vergogna.
“Io vorrei crederti, ma non ci riesco. Gordon e Diego sono i
tuoi migliori amici, organizzate sempre un sacco di scherzi a tutti, fate tutto
insieme… e quando tutti mi prendono in giro, ridi anche tu. Sei come Gordon,
Diego, Matt e tutti gli altri.” Mentre parlava, aveva abbassato sempre più il
tono della voce e aveva preso a giocare nervosamente con la bustina della
ciambella.
“Ma io questa volta non ero d’accordo!” ribattei con
convinzione. “Non è bello spaventare così le persone. Lo so bene, io! E lo sai
perché?” Mi sporsi appena verso di lei e le lanciai un’occhiata complice.
Lei scosse il capo. “Perché?”
“Anche io ho una grande paura!” svelai.
I suoi occhioni verdi si illuminarono di curiosità. “Che
cos’è?”
“Ho paura delle bambole e dei bambolotti. E anche dei peluche.
Di tutti quei giocattoli che sembrano persone e animali. Hanno gli occhi, ti
possono spiare!” spiegai in tono cospiratorio e un brivido mi corse lungo la
schiena.
Lisbeth ridacchiò. “Ma le bambole non fanno male, sono solo
oggetti!”
“E se prendessero vita tutte insieme e ti aggredissero
durante la notte?”
Lei rise ancora più forte.
“Non fa ridere! È spaventosissimo!” ribattei, ma alla
fine mi lasciai contagiare. “E mia sorella Maggie ha un sacco di bambole in
casa… invece sai una cosa?”
Lei mi sorrise appena e si mise in ascolto, piegando la
testa di lato.
“Adesso fa ancora caldo perché siamo a ottobre, ma quando
arriverà l’inverno le cavallette se ne andranno tutte e tu non dovrai più avere
paura. E nessuno potrà più farti brutti scherzi!” la rassicurai, regalandole un
enorme sorriso.
“Grazie, Ives” mormorò raggiante, per poi aprire la bustina
e portare fuori la ciambella alla marmellata.
Solo allora mi accorsi che non era più imbronciata come al
solito, anzi, aveva cominciato a sorridere e a chiacchierare come tutte le
altre bambine. Non era affatto antipatica, ma forse nessuno l’aveva mai
conosciuta abbastanza per riuscire a capirlo.
“Ne vuoi un pezzetto?” mi chiese con gentilezza, porgendomi
il suo dolce.
“No, quella l’ho presa tutta per te! E poi a me non piace
tanto la marmellata.”
“E che cosa ti piace?”
“Il cocco e il cioccolato.”
“Anche a me piace il cioccolato!” si entusiasmò.
“Evviva, abbiamo una cosa in comune!” Sorrisi e la osservai
mentre mangiucchiava la sua ciambella, si sporcava le dita di marmellata e la
maglietta di briciole.
“Quindi tu non mi odi come tutti i nostri compagni?” chiese
a un certo punto, distogliendo lo sguardo.
Scossi il capo con decisione. “No, per niente. Anzi, mi
piaci un sacco: sei simpatica e, anche se sei un po’ timida e non ti piace
stare con le altre bambine, hai un sacco di cose da raccontare. E poi sei…
tutta colorata” conclusi con una risatina.
Lisbeth diceva pochissimo a parole, ma esprimeva tantissimo
con il suo modo di essere, di vestirsi, di disegnare e con la curiosità con cui
si guardava attorno.
La bambina arrossì fino alla punta dei capelli e prese a
fissarsi le mani. “Adesso ti credo, Ives.”
Mi illuminai e per poco non saltai in piedi. “Quindi mi
perdoni?”
“Certo. Tu non hai fatto niente, mi volevi solo aiutare.”
Lanciai un gridolino vittorioso e mi sporsi ancora di più
verso di lei, spalancando le braccia. “Grazie Lis! Dammi un abbraccio!”
Lei rise e, nonostante l’imbarazzo che le arrossava le
guance, lasciò la ciambella sul banco e mi abbracciò. Le sue dita sporche di
marmellata mi impiastricciarono un po’ la maglietta, ma non mi importava.
Ero felicissimo e adesso sapevo di aver fatto la scelta
giusta a non lasciarmi condizionare da Gordon e Diego: mi ero fatto una nuova
amica.
E poi Lisbeth quando rideva sembrava ancora più carina.
♥ ♥
♥
Questa storia è stata un parto plurigemellare con
complicazioni durante la gravidanza… e il risultato poteva anche essere
migliore MA! CHI SE NE IMPORTA, potevo forse lasciarmi sfuggire l’occasione di
mostrare il lato più pandoroso e dolcioso del mio piccolo bambino? *________*
Perché è vero che Ives, soprattutto da piccolo, si lasciava influenzare dagli
altri ragazzini e non si tirava indietro quando c’era da fare qualche bravata,
ma non dimentichiamo la sua grande sensibilità e il suo modo di fare impulsivo!
Avrà tutti i difetti di questo mondo, ma almeno ha dei buoni valori, IL MIO
TESORO DOLCE!!!!
Sì, ok, mi riprendo…
Spero che il personaggio di Lisbeth vi sia piaciuto! Io mi
sono già innamorata di questa bambina :3 forse perché somiglia a me quando
avevo la sua età, anche se io ero molto più arpia e antipatica AHAHAHAH XD
Per quanto riguarda i chiarimenti per la giudice: la storia
(così come l’intera serie di cui fa parte) è ambientata a Los Angeles, in un
quartiere povero e disagiato – motivo per cui ho descritto una scuola abbastanza
degradata. Temporalmente si può collocare negli anni Settanta, dal momento che
il protagonista è del ’68.
La famiglia di Ives è particolare: nei suoi pensieri nomina
zia Maura, che è appunto sua zia (sorella della madre), perché è lei a
prendersi cura di lui come se fosse un figlio – non faccio ulteriori spoiler su
che fine abbia fatto la madre per chi non conosce la serie XD
Maggie è la figlia di Maura, ha sei anni in più di Ives ed è
appunto sua cugina, ma lui la definisce sorella perché, essendo
cresciuto con lei e vivendoci insieme, la vede come una vera e propria sorella
maggiore.
Dovrebbe essere tutto!
Grazie a chiunque sia giunto (sano e salvo) alla fine di
questa shot e a chi segue assiduamente la serie! Davvero, per me è una gioia
IMMENSA raccontarvi di questi personaggi e ancora di più lo è vedere che
vengono apprezzati *________*
Alla prossima!!! ♥
|