NdA:
Ciao a tutti,
rieccomi dopo
circa tre anni a rimettere mano alla storia. Mi spiace essere sparita
ma è stato un periodo caotico e duro, durante il quale anche
se
scrivevo parecchio non avevo la serenità d’animo
per
studiare e incastrare bene la trama ed esprimermi al meglio, per
questo non me la sono
sentita di pubblicare qualcosa che alla fine non mi
convinceva.
Ma veniamo al presente. Ho lasciato il racconto a metà di
una
battaglia, ho immaginato che riprendere da lì darebbe una
sensazione di straniamento, catapultati in mezzo a qualcosa di cui non
si sa più né il come né il
perché; tempo
fa, ne ho parlato sul gruppo FB e lì mi è stato
chiesto
di fare un riassunto: ho accolto la richiesta “a modo
mio”
nel senso che ho deciso di raccontarvi una storia che ancora non
conoscete, mentre vi ricordo anche dove ci siamo lasciati. Questi primi
nuovi capitoli sono infatti il terzo
intermezzo di That,
è fatto di amori, intrighi e follie varie che coinvolgono
alcuni
degli adulti di cui so amate leggere e in particolare è
dedicato
a Fear, un personaggio misterioso che ha intrigato parecchi di voi. Che
c’entra fare una digressione adesso?
dirà qualcuno. La
trama ora è ferma, mettere questo intermezzo ora mi
permette di fornire dettagli e fatti utili alla trama che
verrà,
senza dover interrompere poi di nuovo la storia tra qualche capitolo, e
di fare un ripasso "arricchito" da
un punto di vista alternativo, dando il tempo a chi vuole di rivedersi
più o meno in dettaglio dove siamo
rimasti… Il capitolo
finale di questo intermezzo sarà infine il capitolo che
aspettate da tre anni, perché la trama
dell’intermezzo
finisce dove riprende la storia, la battaglia finale sulla spiaggia di
Morvah.
Bon, spero che queste prossime pagine vi appassionino come in passato e
che
la mia capacità di rendere questo mondo non si sia
arrugginita
troppo durante questa pausa lunghissima. A presto. Valeria
NB: In questo primo capitolo troverete tanti nomi impronunciabili, non
sono impazzita, sono il nome in forma gaelica scozzese di varie
località reali della Scozia: Herrengton come sapete non
esiste,
è frutto della mia fantasia ma quando ho cominciato a
scrivere,
tanti anni fa, senza
saperlo ho
descritto luoghi che assomigliano molto
a luoghi reali: vi lascio alle note finali per i dettagli.
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Intermezzo
III - LIES - Parte prima
Il moccioso di Inverawe
Herrengton, Scourie - lun. 26-29 ottobre 1908
La barca toccò riva al tramonto.
Dinanzi a noi, ad oriente, sopra le colline, pulsavano le prime stelle
autunnali nel cielo nero di novilunio; alle nostre spalle,
l’incendio che aveva acceso isole e scogli, quando
l’ultima
falce di sole si era inabissata in mare, si smorzava in un tripudio di
blu e viola.
Le nebbie ci avevano accompagnato per tutto il viaggio da Miughalaigh (1) a Steornabagh (2) e, dopo quattro
giorni, quel mattino, si erano a poco a poco diradate, permettendoci la
traversata fino alla baia di Bada Call (3):
l’antica Magia del Nord proteggeva le Terre da nebbie e
tempeste,
durante i Sabbath, così che nessun Mago mancasse alle
celebrazioni o incorresse in qualche incidente; al di fuori dei riti,
però, solo l’abilità del nocchiero nel
dominare la
Magia delle Rune, incise sul legno della barca, poteva salvare i
viandanti dalla furia del mare e degli altri elementi.
Come un mantello, l’oscurità dalle alture
piombò
rapida su di noi. La spiaggia, stretta e rocciosa, sparì tra
i
massi, accatastati a formare un’alta, minacciosa scogliera:
cercai con lo sguardo, mosso da curiosità ma, da quella riva
dalla prospettiva stretta, non era possibile intuire neppure la sagoma
del maniero degli Sherton. Durante l’ultima parte del
viaggio,
mentre in silenzio risalivamo la costa fino agli archi di roccia di
Sgobhairigh (4),
non avevo
staccato gli occhi dal profilo delle colline, sperando di intravedere
da lontano le leggendarie torri di Herrengton stagliarsi contro il
cielo ma le sommità dei rilievi erano rimaste tutto il tempo
nascoste da una tenace coltre di nubi basse, immobili, innaturali.
E ora, mentre faticavamo per tirare in secca la barca e il mare
ingrossava fin oltre le mie ginocchia, era l’aria che
respiravo a
sembrarmi ferrosa e opprimente: un’oscurità
profonda,
palpabile, che poco aveva a che fare con la notte, permeava ogni cosa
attorno a noi, soffocante. Mio nonno ci raccontava, davanti al fuoco,
delle antiche maledizioni che nei secoli erano state lanciate a difesa
del maniero degli Sherton e di come i boschi che proteggevano
Herrengton fossero brulicanti di creature magiche e sortilegi
potentissimi, al punto che, per quanto nel loro mondo i Babbani la
distruggessero, nel nostro la foresta che ricopriva quelle terre
restava intatta e impenetrabile, come al tempo dei Daur (5).
Fu allora, mentre ripensavo a quei racconti, che lo vidi: alla nostra
destra, tra gli alberi, apparve un vecchio immerso in una
luminosità lattiginosa, irreale. Vestiva una lunga tunica
grigia
che si muoveva lieve alla brezza, come la folta criniera di capelli
bianchi, sciolti sulle spalle, la cui attaccatura, a punta al centro
della fronte, dava una forma a cuore al suo viso rugoso, cotto dal
sole, e punteggiato da due profondi occhi d’acciaio, fissi su
di
me. Muto, teneva alta una lanterna nella mano destra e nella sinistra,
quasi abbandonata a terra, una bilancia dai bracci piegati verso il
basso (6).
Mi fissò
arrancare tra gli scogli, mentre frammenti di conchiglia laceravano le
mie carni e il mio sangue si mescolava all’acqua; come misi
il
piede sulla sabbia, le braccia della bilancia si raddrizzarono, e
l’uomo mormorò a fior di labbra qualcosa che non
sentii, i
suoi occhi così carichi di risentimento che i peli mi si
rizzarono dalla paura. Infine sparì, insieme alla luce, in
silenzio com’era apparso.
Mio padre, un uomo taciturno che mal tollerava le intemperanze dei suoi
figli, durante quel viaggio era stato persino più ombroso
del
solito ed io sapevo che non era il caso di infastidirlo, eppure, scosso
dalla visione del vecchio, lo presi per la manica della tunica e lo
feci voltare verso di me.
«Cosa vuoi? Lasciami
immediatamente!»
«L’avete visto anche
voi, vero? Chi era quell’uomo, padre?»
«Io non ho tempo da perdere
con le tue sciocchezze, muoviti, ci stanno aspettando!»
«C’era un vecchio
là in fondo,
sulla spiaggia, è impossibile che voi non
l’abbiate
visto!»
«Non c’è
nessuno, fine della
discussione! E ora svegliati, o ti sveglio io con la frusta!»
Mio padre, ostinato, non alzò lo sguardo nella direzione che
gli
indicavo, s’impegnava, anzi, a non guardare neppure me.
Ripresi a
camminare dietro di lui voltandomi ancora e attardandomi,
finché
perse del tutto la pazienza e mi tirò un manrovescio, poi mi
prese con forza il braccio e mi trascinò per il sentiero in
salita che si apriva tra gli alberi.
Mi imposi di ricacciare indietro le lacrime, insieme
all’odio,
pregando in cuor mio di avere presto l’occasione di fuggire
via,
lontano da lui.
*
Un tempo, quando era convocata a Herrengton, la mia famiglia poteva
contare sui Draghi. Sarebbe piaciuto anche a me averne uno, e non solo
perché in quel momento mi sentivo morire, con le piaghe ai
piedi
e le ferite sulle gambe, la fame e il fiato ormai esaurito:
l’arrampicata sulla scogliera, a perpendicolo sul mare di
nuovo
in tempesta, si faceva sempre più dura, la foresta si
infittiva
e strane voci e sagome sinuose provavano a distrarmi e sottrarmi al
controllo di mio padre.
«Ci sono
potenti e antichi spiriti in quella foresta…» diceva
mio nonno, sornione, «Gli
spiriti di vecchi rimbambiti e ragazzini stupidi che hanno fatto una
brutta fine per non aver ubbidito ai genitori!»,
bofonchiava mio padre, infastidito dal nostro chiacchiericcio e dalla
nostra complicità.
I Draghi erano il mio sogno da che avevo ricordi, anche se i morsi
della fame, il freddo, la vita raminga avrebbero dovuto spingermi a
sognare piuttosto una casa e un pezzo di pane. E soprattutto insegnarmi
a restare con i piedi per terra. Le leggende che mio nonno raccontava a
mio fratello Fergus e me, invece, sul venerabile delle Innse Gall che
aveva sottratto Habarcat a quei debosciati dei Maghi del Sud, per
portarla nelle Terre in groppa al suo Nero delle Ebridi (7), fomentavano i
miei sogni di bambino.
*
I Draghi erano il mio
sogno ma il
tempo dei Draghi, per la mia gente, era finito ben prima delle
restrizioni introdotte dal Trattato di Segretezza Magica.
C’era
stato un tempo in cui la Confraternita era stata divisa, i Maghi in
lotta e gli Sherton erano caduti in disgrazia; la mia famiglia aveva
fatto l’errore di schierarsi con loro, restando coinvolta per
secoli in guerre e omicidi che ci portarono sull’orlo
dell’autodistruzione. In seguito, gli Sherton avevano
conosciuto
alterne fortune. Per noi, una delle più antiche famiglie
della
Confraternita, le cose erano invece andate solo peggio.
I guai personali di mio
padre, in
particolare, avevano condizionato la mia vita fin dalla mia nascita:
mia madre era morta nel darmi alla luce, dicevano, mio padre, lo stesso
giorno, aveva ucciso due babbani e da allora sulla sua testa pendeva
una taglia del Ministero della Magia. Per sfuggire alla cattura, aveva
lasciato la nostra casa nell’Earra-Ghaidheal (8),
la terra ancestrale dei MacPherson, ma per un attacco di pazzia o di
chissà cos’altro, si era intestardito a volere
portarci
con sé, un vecchio, un bambino e un neonato, condannandoci a
condividere con lui per anni una vita dura e precaria, sotto il
pericolo costante che qualcuno ci riconoscesse e ci vendesse per una
manciata di galeoni.
Dopo un tempo infinito
fatto di vagabondaggi tra l’Irlanda e le Na h-Eileanan Siar (9),
segnato dagli stenti e dalla paura, il giorno del mio ottavo compleanno
ci eravamo materializzati sulle alture di Sgùrr Alasdair (10), un massiccio di An t-Eilean
Sgithanach (11)
nel
pieno delle Terre del Nord, un luogo bellissimo, solitario e impervio
perfetto per nasconderci i mesi necessari a preparare mio fratello alle
Rune degli 11 anni: in quel periodo, il nonno ci aveva insegnato a
riconoscere le tracce e sentire il respiro degli elementi, ci aveva
spiegato i riti legati alle Rune e alcuni rudimenti della Magia del
Nord. Grazie a lui, col passare delle settimane, avevamo iniziato a
governare la nostra Magia finora repressa con potenti pozioni, ed io mi
ero sentito orgoglioso, nonostante il solito disinteresse di nostro
padre, quando il nonno aveva detto che, pur più piccolo di
quasi
due anni, il mio potenziale era già pari a quello di Fergus.
Era
meraviglioso vivere nelle Terre, poter imparare e usare la Magia senza
paura, sentire il potere di Habarcat riflettersi nel nostro corpo e
nella nostra mente.
La serenità
di quel
meraviglioso nascondiglio era venuta meno pochi mesi dopo, una sera di
inizio estate, quando un gufo ci aveva raggiunti a cena, raccolti
attorno al falò: il signore di Herrengton ci avvertiva,
quando
mio fratello, di lì a poche settimane, avrebbe compiuto 11
anni,
l’età della chiamata a Hogwarts, il Decano della
Confraternita sarebbe stato costretto dalla Legge a togliergli la
Protezione, la Magia imposta alla nascita ai bambini delle Terre per
interferire con la Traccia del Ministero. Quando ciò fosse
avvenuto, tutti noi saremmo stati immediatamente individuati.
Mio nonno, per anni,
aveva implorato
quel suo figlio folle e testardo perché ci lasciasse tornare
a
casa, a Taigh an Uillt (12),
a condurre una vita normale, ora mio padre non aveva più
scelta,
se non avesse ritrovato la ragione, sarebbe finito ad Azkaban; pur
riluttante, acconsentì, Fergus ed io eravamo increduli, il
cuore
diviso tra il disagio per il distacco e il sollievo per la fine di un
incubo. Era tutto pronto, ci eravamo preparati ai saluti ai piedi del
monte, la mano del nonno protettiva sulla mia spalla, quando mio padre,
che aveva in testa una soluzione tutta sua, all’ultimo si
avventò su di noi e mi strappò alla presa del suo
vecchio, Duncan Liar MacPherson, urlandogli contro frasi irripetibili e
minacciose.
«Sparite!
Voi due non servite a nessuno, tanto meno a me! Lui invece resta qui,
deve sistemare le cose!»
Quando estrasse il
coltello per
puntarlo contro mio fratello, mio nonno cedette e si
smaterializzò senza più fiatare, portandosi
dietro Fergus
in lacrime, io, incredulo, rimasi impietrito dal terrore. Secondo il
piano stabilito nei giorni precedenti, il nonno doveva riapparire
stanco e provato a Taigh an Uillt con mio fratello e me, attirare
l'attenzione dei Ministeriali e fingere che suo figlio Reginald fosse
morto; mio padre, da parte sua, doveva continuare a nascondersi su
Sgùrr Alasdair fino all’inizio
dell’inverno; dopo
quanto accaduto, però, forse temendo l’arrivo dei
Ministeriali, mio padre mi ordinò di correre più
in
fretta che potessi lungo il sentiero che conduceva alla spiaggia: una
volta lì ad attenderci c’era una barca babbana in
cui
erano stati nascosti viveri, abiti, la gabbietta con dentro Halix, il
gufo di famiglia e, soprattutto, il mantello caldo di pelliccia del
nonno. La verità sconvolgente mi trafisse come una
pugnalata:
non solo mio padre, che aveva sempre dato prova di non volermi tra i
piedi, non aveva mai avuto intenzione di lasciarmi andare, ma pareva
che il nonno fosse complice di quell’assurdo piano. Non
capivo il
senso di quella commedia, né come potessi io, un bambino di
neanche nove anni, sistemare i loro disastri. Soprattutto non capivo il
tradimento del nonno.
*
Erano passate settimane
da quella
giornata di follia, ormai Fergus doveva essere tornato a casa, anzi,
probabilmente era già partito per Hogwarts: mi mancava, mi
mancavano i nostri giochi, le nostre chiacchiere e mi mancavano,
nonostante tutto, le storie e gli insegnamenti del nonno. La mia vita,
oltre a essere difficile e dura com’era sempre stata, era
diventata incomprensibile: avevamo raggiunto Miughalaigh,
un’isola poco più grande di uno scoglio a sud
delle Ebridi
in circa una settimana, mio padre aveva detto di volermi con
sé
per risolvere i suoi problemi ma non vedevo cambiamenti tra noi. In
quelle interminabili giornate, inutili e vuote, fatte di solitudine e
silenzi, dopo avermi consegnato dei pesci che pescava al mattino
perché li cucinassi, mi ignorava per il resto del giorno,
preso
com’era da una fitta e misteriosa corrispondenza che lo
rendeva,
se possibile, ancora più nervoso. Di notte, sotto il cielo
terso
e gelido, con la pancia che gorgogliava dalla fame, mi arrotolavo nel
mantello del nonno, vicino al fuoco, nel vano tentativo di difendermi
dal vento che dall'oceano spazzava ogni cosa.
Prima o poi non mi sarei
svegliato
più ed io mi addormentavo pregando che tutto finisse in
fretta:
ne sarei stato felice perché, ogni volta che chiudevo gli
occhi,
sognavo mia madre, e questo mi aveva convinto che appena fossi morto
non sarei più stato solo, affamato, impaurito, ci sarebbe
stata
lei ad aspettarmi e a prendersi cura di me. Non l'avevo mai vista, non
c’era stato il tempo, la conoscevo attraverso i ricordi del
nonno
che ci aveva parlato di lei quando vagavamo nei boschi, lontani da
nostro padre, lui si innervosiva se si faceva cenno a sua moglie. A
volte, anche in pieno giorno, chiudevo gli occhi e la vedevo correre
sui prati, simile a una fata dai lunghi capelli biondi, a volte si
voltava e mi sorrideva: appena lei si voltava, però, il
sogno o
la visione si interrompeva ed io mi affliggevo perché, senza
le
parole del nonno, il suo viso si faceva ogni giorno più
sfocato.
*
Un giorno di
metà ottobre mio
padre mi aveva infine rivolto la parola per svelarmi il grande segreto,
una storia assurda a cui era impossibile dare credito: il signore di
Herrengton aveva chiesto di me. Il signore di Herrengton, che in barba
al Ministero allevava ancora i Draghi, quando aveva saputo dal nonno
quanto fossi stregato da quelle creature, aveva deciso di invitarmi a
veder la schiusa delle uova come regalo per il mio nono compleanno, il
giorno di Samhain (13), solo per l’antica
amicizia che legava le
nostre famiglie. Avevo fissato mio padre allibito, non credevo a una
sola parola ma, un po’ per paura che fosse impazzito del
tutto e
quindi fosse ancora più pericoloso, un po’
perché
quella nuova follia, per lo meno, mi avrebbe portato via da
quell’isola dimenticata dagli dei, dandomi forse
l’occasione, se fossi riuscito a coglierla, di scappare,
decisi
di fingere di credergli e l’aiutai. Ubbidii a tutti i suoi
comandi, ammassai delle strane conchiglie sulla spiaggia, con cui poi
lui creò dei segni misteriosi sulla sabbia, mi procurai
l’erica sui crinali rivolti a nord e mi svegliai prima
dell’alba per i cinque giorni a cavallo della luna calante
per
raccogliere la rugiada.
La sera prima della
partenza mio
padre aveva preparato tutto l’occorrente per accendere un
falò al centro della composizione di conchiglie poi, al
tramonto, aveva cominciato a bruciarci dentro di tutto, non solo quello
che avevo raccolto ma anche tutti i nostri averi, compresa la gabbia di
Halix e i nostri vestiti. Ero terrorizzato, quei quattro stracci erano
le uniche vesti che avevamo per contrastare i rigori dell'inverno ma
non avevo il coraggio né la forza di oppormi e protestare.
Al
culmine della notte si avvicinò per prendermi il mantello
del
nonno, aveva passato la lama del coltello nel fuoco e ora lo teneva
stretto in mano; pensai che mi avesse fregato un’altra volta,
l’ultima, alla fine era a questo che gli dovevo servire, a
compiere un sacrificio di sangue, tutto il discorso sui Draghi e sul
signore di Herrengton erano serviti solo ad ammansirmi e a farmi
abbassare la guardia mentre si preparava ad uccidermi.
Mi arpionò il
braccio e io
strinsi i denti, avevo paura ma non volevo dargli anche la
soddisfazione di vedermi piangere e implorare. Rimasi senza fiato
quando incise il mio palmo, poi lasciò gocciolare il mio
sangue
sul falò e mi lavò la ferita con
l’acqua di mare
che aveva raccolto prima in una fiaschetta. Al tocco della lama e
dell’acqua, sentii la carne bruciarmi fino a tutto il torace,
guardai con terrore la ferita, alla luce del fuoco si stava
già
richiudendo e al posto della lacerazione c’era una sottile e
fitta linea nera simile a inchiostro, che scendeva sottopelle, e si
diffondeva dalla ferita a tutto il palmo, il polso,
l’avambraccio, su su fino oltre la spalla. Mio padre restava
immobile e in silenzio, sapeva che ero terrorizzato e stavo soffrendo
un indicibile tormento ma non aveva alcuna intenzione di dirmi che cosa
mi stesse accadendo, quanto sarebbe durato, quando come e
perché
qualcuno o qualcosa mi avesse iniettato quell’inchiostro
sotto la
pelle su pressoché tutto il corpo.
Al culmine del rito,
mentre a oriente
la luna emergeva dal mare illuminando le onde d’argento
e
il mio corpo stremato iniziava a essere insensibile al dolore,
all'improvviso la sabbia iniziò a vibrare sotto i miei piedi
e,
dal nulla, apparve una catena: mio padre, seminudo e stravolto dai
brividi di freddo, al contrario di me che ancora bruciavo, appena la
vide scoppiò a ridere, impazzito, e a ringraziare Salazar,
cominciò a tirarla, cantando una litania che non avevo mai
sentito prima.
Ai primi raggi del sole
nascente,
giacevo inerte sulla spiaggia, senza più
sensibilità al
dolore, alla fame, al caldo e al freddo, gli occhi fissi su quei
disegni che sembravano smorzarsi all’unisono con le fiamme
del
falò, ormai quasi spento: quei decori neri e vividi che
durante
la notte avevano tramutato il mio sangue in fuoco, erano spariti
inghiottiti nella mia stessa carne, restavano in superficie solo a
indicare la presenza di una invisibile ferita.
Sollevai gli occhi su
mio padre, a forza di tirare aveva quasi portato in secca una sorta di
relitto, una barca (14)
completamente incrostata di alghe e concrezioni, una barca che, per
Magia, appena fu baciata dal primo raggio di sole, si
“spogliò” di tutti quei sedimenti,
mostrando un
legno lucido e vibrante, completamente decorato da incisioni runiche.
Mio padre si sporse verso l’interno e tirò fuori
una
piccola sacca, ne estrasse due tuniche nere, calde e asciutte, una
cesta piena di frutta fresca e un paniere con del pesce arrostito
ancora caldo.
«Vestiti, svelto, avrai tutto il resto della vita per
ammirare quelle tue stupide Rune, ora dobbiamo andare!»
*
Quando finalmente la vidi, compresi che mi avevano mentito
anche su Herrengton: al termine di quella salita infinita ed estenuante
dalla spiaggia, attraverso il bosco, fin sulla sommità della
scogliera, quello che si presentò ai miei occhi non fu il
magnifico maniero, espressione di maestosità e potenza,
tante volte evocato dal nonno nei suoi racconti, ma
un’accozzaglia di ruderi, che si dipanavano come un corpo
accartocciato dalla sofferenza, attorno a un inquietante cortile
abitato da alberi spettrali, sovrastato da una torre vertiginosa e
delimitato agli angoli da altre costruzioni semi diroccate.
Ad attenderci non c’era nessuno, a parte un Elfo macilento
dalla testa china, che reggeva a fatica una torcia più
grande di lui; come ci vide, zampettò via pigramente,
facendoci cenno di seguirlo, ci condusse per una serie di corridoi
tenebrosi, in cui riecheggiavano i fasti perduti di un passato glorioso
negli spazi lasciati vuoti da dipinti e statue, spariti
chissà dove. Possibile che nessuno avesse mai riportato
Herrengton alla grandezza delle origini, dopo le battaglie e i tumulti
di cui mi aveva parlato il nonno? O qualcosa di tragico era successo in
tempi più recenti, portando di nuovo alla rovina
l’antica famiglia dei Prediletti (15)? Anche mio
padre sembrava preoccupato, probabilmente l’attuale
realtà metteva fine a ogni sua velleità e
macchinazione, qualunque fosse l’assurdità
partorita nelle ultime settimane dalla sua mente folle.
L’Elfo si fermò dinanzi a una tenda lacera, la
sollevò con un inchino, facendoci passare, poi corse di
nuovo via. Mi guardai attorno frastornato: eravamo dinanzi a un grande,
oscuro e gelido salone, solo il fondo della stanza era nella penombra,
rischiarato, ai due angoli opposti rispetto all’ingresso, da
due bracieri in cui i fuochi, morendo, riflettevano deboli bagliori
rossastri sulla parete completamente affrescata.
Quello è il grande albero genealogico di tutte le famiglie
Slytherin… almeno quello esiste davvero…
Tutto era deserto e silenzioso, a parte la presenza dinanzi a un
antichissimo sedile di pietra, di cui vedevamo solo il gigantesco
schienale, di due enormi cani albini, rabbiosi, che si contendevano
delle ossa, mentre un terzo, alzata la zampa posteriore, dissacrava
definitivamente la solennità dei luoghi urinando contro il
muro, sul nome e sul volto di qualche arcigno Purosangue.
Secondo i racconti di mio nonno, però, l’affresco,
per quanto grandioso nelle dimensioni e portentoso nelle Magie che lo
permeavano, non era la presenza più mirabile e importante in
quella stanza. Spostai lo sguardo sulla mia sinistra, come mi era stato
raccontato il salone si chiudeva con una grande parete sorretta da tre
archi, scavati direttamente nella roccia: anche là c'erano
delle tende tirate ma, attraverso il tessuto, era intuibile
l’intenso bagliore verdastro di Habarcat, la fiamma sacra del
dio Lugh che proteggeva le Terre e manteneva viva da secoli
l’antica Magia.
«Sei arrivato…
finalmente… e hai con te il ragazzo… molto
più malconcio di quanto avessi
ammesso…»
Un uomo alto e grosso, in eleganti abiti scuri, si era alzato
lentamente dal sedile, era uscito dalla penombra generata da quella
specie di trono di pietra e si era avvicinato: aveva lunghi capelli
bianchi legati in una lunga coda, palpebre pesanti, il viso incipriato
solcato da profonde rughe, i passi lenti e gravosi resi stabili dal
bastone che picchiava ritmicamente il pavimento. Non era certo
l’Elija Sherton che avevo immaginato dai racconti, ma un
rudere, proprio come quell’orrenda dimora. Un senso di
angoscia mi prese quando riuscii a vederlo bene in faccia, ci fissava
con occhi talmente chiari da sembrare quelli vuoti di un cieco, il
volto insondabile. All’improvviso, concentrò tutta
la sua attenzione su di me e, senza una parola, mi afferrò
l’avambraccio, scostò la manica della mia tunica e
mise in luce la pelle pallida della mia mano, solcata dalla sottile
linea nera di Rune, là dove ero stato ferito da mio padre.
«Bravo, MacPherson, bravo...
volevi rifilarci merce avariata, a quanto vedo… Spero per te
che il moccioso non abbia riportato danni irreversibili, quando hai
cercato di marchiarlo!»
Mio padre alzò il mento in segno di sfida ma non rispose,
l’uomo estrasse la bacchetta dalla testa di serpente del suo
bastone, incise la punta del mio pollice e riempì del mio
sangue una piccola ampollina. Guardai mio padre, scioccato, sperando
invano in un suo aiuto ma era simile a una statua di sale, non disse
niente, non mi diede spiegazioni, non mi protesse, tantomeno mi
consolò.
«Sai
com’è… conoscendoti bene, come ti
conosco io… meglio controllare che almeno sia il moccioso
giusto, prima di far tornare a casa Elija per niente.»
«Sherton non è qui?
Sono stato quattro giorni in mare per vedere lui, non per ascoltare le
stronzate di un bastardo come te, Malfoy! Voglio parlare con lui,
adesso, firmare l’atto di vendita e andarmene!»
«Nient’altro, mio
signore? Ahahahahah…»
L’uomo rise, una risata cupa che morì in un
rantolo, lento si asciugò l’angolo umido delle
labbra esangui, poi si portò ancora più vicino a
mio padre, raddrizzando completamente le spalle ingobbite: pur piegato
dagli anni, lo sovrastava di tutta la testa.
«Sherton è in
Irlanda… ha cose ben più urgenti da fare che star
dietro a un fallito come te…»
«Tutta fatica inutile, dunque,
solo chiacchiere vuote e nessun atto concreto… come
sempre...»
«No… non
temere… Stavolta i conti li chiudiamo,
MacPherson… ma li chiudiamo io e te… sono suo
suocero, come ben sai, Elija mi ha accontentato quando gli ho chiesto
di concludere quest’affare di poco conto al suo posto,
secondo i termini che avete già pattuito: una Passaporta per
un moccioso.»
«Che cosa? Assolutamente no!
Elija non mi ha promesso solo questo, tu vuoi fregarmi di nuovo,
Malfoy, ma il marmocchio vale molto più di una misera
Passaporta!»
Il Mago sorrise, astuto, arretrò di qualche passo tenendomi
serrato per il braccio, si fermò ed estrasse dalla tunica un
rotolo che tirò addosso a mio padre, costringendolo a
chinarsi per raccoglierla. Quando la mano di mio padre fu sulla
pergamena, l’uomo sollevò il piede e glielo
premette sulla mano, nello stesso tempo, mi trattenne a sé
con l'asta del bastone, per impedirmi di intervenire, se avessi cercato
di difenderlo... Non lo feci, incapace di comprendere quello che mi
stava accadendo attorno: come in un sogno, rimasi lì a
osservare mio padre, in ginocchio, apparentemente insensibile al dolore
nonostante la mano pestata e sanguinante ancora bloccata a terra,
mentre con l’altra apriva bramoso il rotolo e leggeva avido
il testo scritto sulla pergamena, gorgogliando qualcosa di
incomprensibile.
«La Passaporta è il
mio personale regalo di commiato, MacPherson: se non la vuoi, puoi
andartene senza, ma il ragazzino resta qui. Era “un peso morto di cui
è ora che mi disfi”, no? Beh, te ne
sei disfatto, una buona volta! Ora vattene… e portati via il
fetore del tuo immenso amore paterno!»
Malfoy tirò via il piede e lo fissò, i suoi occhi
non erano più vuoti, traboccavano odio e disprezzo,
permeando di un’innaturale aura di vita e forza quel corpo
decrepito da vecchia cariatide ammuffita.
«D’accordo… ma tra noi non finisce qui,
Malfoy! Ricordatelo!»
«Ti sbagli, MacPherson
è finita qui, adesso, per sempre! Hai avuto ciò
che desideravi, molto più di quanto meritassi, Sherton ha
testimoniato, io ho confermato e Black ha firmato… per il
Ministero tu sei morto, nessuno d’ora in poi ti
cercherà più, potrai rifarti una vita dove cazzo
vorrai… ovunque… purché sia lontano da
me e da tutto ciò che conta per me… se non lo
farai… se solo dovessi vedere da lontano la tua
ombra… da ex membro del Wizengamot, posso assicurarti che
nessuno può essere incriminato per l’omicidio di
un uomo che è già stato dichiarato morto! Vai,
Birnòs ti fornirà le indicazioni per la
Passaporta… e non fare quel muso scandalizzato,
perché neanche un idiota come te può davvero
pensare di attivare una Passaporta illegale qua dentro!»
«E secondo te come dovrei
arrivare fino a… dove? A Glasgow, immagino, come
l’ultima volta? Proprio un bello scherzo, quello che hai
fatto a mio padre…»
«Non sono problemi miei! Ti
dico soltanto, da amico, di muovere il culo, se vuoi cavartela, ho
impostato la Passaporta perché si apra un’unica
volta a mezzanotte. Addio!»
Malfoy mi tirò via trascinandomi dietro di sé,
sconvolto e ammutolito, dalla parte opposta rispetto al corridoio che
avevo appena percorso, senza darmi il tempo di fare un passo o fiatare.
Mio padre non mosse un muscolo, mi vide sparire così, non
fece niente, non disse niente, non pronunciò il mio nome,
neppure mi guardò, gli occhi fissi su quel pezzo di carta
che, qualunque cosa ci fosse scritta, aveva cambiato per sempre i
nostri destini.
*
«L’ambizione non
porta mai a nulla di buono, quando non è sostenuta da un
briciolo di astuzia, è inutile, voi delle Terre proprio non
riuscite a capirlo, questo concetto!»
Inorridito, guardai Armand Theophile Malfoy (16), ex membro del
Wizengamot, sghignazzare, mentre si lisciava i baffi e
l’anemico pizzetto da capra: era intento a mangiare il suo
immancabile grappolo d’uva nera al posto d'onore, alla tavola
di Sherton, imbandita per buona parte della giornata nella penombra del
salone di Habarcat, proprio di fronte al sacello della Sacra Fiamma.
Quella sera, in particolare, era tutto compiaciuto mentre commentava,
con dovizia di particolari, un articoletto del Daily Prophet vecchio di
un paio di giorni: vicino a Glasgow, una decina di Aurors avevano preso
parte alla cattura di un pericoloso pregiudicato, in fuga da nove anni,
mentre cercava di raggiungere il continente con una Passaporta illegale
di origine sconosciuta.
«Giustizia è stata
fatta… ci è voluto un po’, ma
finalmente sono stati sistemati tutti e due…»
Alzai di nuovo gli occhi dal piatto, Malfoy ghignava e mi fissava,
divertito, alla ricerca di una mia qualche reazione. In quei pochi
giorni di assurda e inspiegabile convivenza, avevo già
imparato a odiare quell’uomo, era incredibile come riuscissi
a scoprire in ogni istante nuovi aspetti che me lo rendevano sempre
più detestabile. Mi spaventava il suo modo di comparirmi
all’improvviso alle spalle, la sua presenza muta e
inquietante, come un pericolo ignoto che percepisci ma non riesci a
visualizzare se non all’ultimo. Più di ogni altra
cosa, mi ripugnava che trovasse sempre una scusa per toccarmi, che
fosse una pacca sulla spalla per invitarmi a mangiare, o le dita che
finivano tra i miei capelli rossi, mentre commentava, alludendo a
chissà quale mistero, che buona parte dei Maghi della
Confraternita, benché scozzesi, avessero i capelli scuri. E
restava un mistero cosa volesse da me, perché mi trovassi
lì, nella casa di un altro sconosciuto che ancora non si era
mai neanche fatto vedere.
«Non te l’aveva
detto, eh? Già… pur di non subire il piagnisteo
di un moccioso, neanche io, al suo posto, avrei detto che il nonnetto
è finito ad Azkaban il giorno stesso in cui vi siete
separati.»
«È impossibile! Mio
nonno non può essere ad Azkaban! Mio nonno non ha fatto
nulla di male!»
«Nulla di…
ahahahah… certo… certo… proprio
nulla… beata l’ignoranza della
gioventù!»
Ero saltato in piedi rovesciando a terra la sedia, volevo scagliarmi
contro di lui, ma quando vidi la sua aria soddisfatta, capii che stava
cercando di provocarmi, raccontandomi mezze bugie miste a mezze
verità solo per godersi lo spettacolo delle mie reazioni.
Non volevo dargliela vinta. Cercai di calmarmi, per quanto sembrasse
impossibile, dovevo impormi di non credere alle sue parole, a nessuna
delle sue parole.
«E mio fratello? Mi direte che
hanno incriminato e messo ad Azkaban anche lui, vero?»
«Perché mai dovrei
dire una sciocchezza simile? Tuo fratello Fergus ora è a
Hogwarts, come ogni giovane Mago della sua età…
quando avrà finito la scuola tornerà a casa sua,
a Inverawe o come diavolo la chiamate qui, e sarà cresciuto
dagli zii: è pur sempre l’erede dei MacPherson e
dovrà impegnarsi a ridare lustro al nome di
famiglia… non che sia facile, tantomeno possibile,
naturalmente, ma sarebbe mal giudicato dalla società magica
e dalla Confraternita se non ci provasse nemmeno!»
«Ed io? Se Sherton mi ha fatto
venire qui solo per tendere una trappola a mio padre e con la scusa
della Passaporta consegnarlo ai Ministeriali, ora che ci è
riuscito, non dovrei tornare a casa mia, ad aspettare mio fratello per
i riti di Yule e fare di tutto per riabilitare il nostro nome? Se
cresceranno lui, gli zii non dovrebbero crescere anche me?»
Lo scoppio di una risata incontenibile fece vibrare l’aria
morta di quella stanza, fu talmente potente che temetti potesse
scoppiare in mille pezzi anche lui, l’orrenda cariatide,
travolgendo pure me. Strinsi i pugni e lo fissai con tutto
l’odio che sentivo montarmi dentro, mentre continuava a
guardarmi con le lacrime agli occhi e aveva notevoli
difficoltà a trattenersi dal continuare a deridermi.
«I tuoi zii dovrebbero
allevare anche te, dici? Parliamo degli stessi balordi che hanno
lasciato te e tuo fratello, in tenera età, in mano a due
pregiudicati in fuga e pericolosi, a vagabondare e rischiare la vita
nei boschi, mentre loro sottraevano e dilapidavano tutti i beni di tua
madre? Gli stessi che ora si son resi disponibili a occuparsi di tuo
fratello, di tuo fratello bada bene, ma non di te, solo per avere
l’opportunità di mettere le mani anche su
ciò che resta dei beni di tuo padre? Sono questi i tuoi
parenti, ragazzino, se Elija non ti avesse fatto venire qui, quella
gente avrebbe detto a tuo fratello che eri morto nello scontro con gli
Aurors, dopo averti tranquillamente lasciato davanti a un orfanotrofio
babbano, questa è la verità! Io stesso, al posto
di Elija, avrei fatto come loro, non sarei intervenuto, avrei fatto di
tutto per far finire ad Azkaban quei due delinquenti, certo, ma non mi
sarei occupato di voi, vi avrei lasciati al vostro destino, ad
arrangiarvi, da soli, nell’Argyll o in qualunque altra
dannata palude di questa terra di merda… perché
non avrei guadagnato niente dall’intervenire… e a
dirla tutta, a me fa ribrezzo già la sola idea del sangue
marcio che vi scorre nelle vene!»
Strinsi i pugni, fino a conficcarmi le unghie nella carne mentre quel
cadavere parlante continuava a sprizzare veleno e indegnità
contro tutto ciò che avevo di più caro. Ma mi
morsi la lingua per non rispondergli.
«Quindi sarà
Sherton ora a mandarmi in un orfanotrofio dei babbani!»
«Ahimé,
no… resterai qui… perché mio genero
è un coglione dal cuore tenero e se fosse stato per lui, non
sarei neanche riuscito a cogliere l’occasione per vendicarmi,
li avrebbe lasciati scappare… esatto, sono stato io, non mio
genero, a farli sbattere dentro… perciò
prenditela tranquillamente con me e goditi la fortuna che hai avuto:
quando Sherton tornerà a casa, invece di rompergli le palle
sul perché ti ha comprato, o fargli la guerra
perché mi ha indirettamente aiutato a mandare in galera i
tuoi parenti, mostragli riconoscenza, nessun altro ti avrebbe protetto,
solo qui, a Herrengton, non dovrai più temere la morte o la
fame, e soprattutto… qui non dovrai più curarti
di nessuno della tua dannata famiglia!»
«Ma io sono Duncan Reginald
MacPherson, dei MacPherson di Inverawe! E Fergus è mio
fratello!»
Il vecchio Mago si alzò stancamente, sistemò la
sedia al suo posto e mi guardò severo, la mano ingioiellata
a indugiare fastidiosamente prima sulla mia spalla, poi sulla mia testa.
«Il sangue che ti scorre nelle
vene è un grosso limite, lo so… spero che prima o
poi, però, tu comprenda le mie parole: farai un grande
favore a te stesso a scordarti chi sei e da dove vieni,
perché quando vi rivedrete, tuo fratello Fergus
sarà il primo a non voler avere nulla a che fare con
te!»
Voleva chiuderla lì, con le sue solite parole sibilline, ma
io mi alzai, gli corsi dietro e lo raggiunsi subito, lento
com’era, intenzionato a strappargli la verità.
Erano tre giorni che mi trovavo chiuso in quel castello: mi era stata
data una bella stanza con un baldacchino dalle coperte morbide, vero, e
anche un caminetto in cui il fuoco non si spegneva mai, acqua calda per
le mie necessità, abiti nuovi e la visita costante
dell’Elfo Birnòs che si materializzava per
chiedermi se avessi bisogno di qualcosa. Ma ero un prigioniero, recluso
nella mia stanza, senza la libertà di muovermi da
lì se non quando Malfoy bussava alla mia porta per portarmi
a mangiare nella sala dell’arazzo. E nessuno mi aveva detto
ancora la verità sulla mia presenza lì,
né per quanto tempo sarei dovuto restare.
«Che cosa significa che devo
scordare il mio nome? E perché mio fratello non vorrebbe
avere nulla a che fare con me? Voglio sapere perché sono
qui, che cosa volete ancora voi e Sherton da me?»
«Io? Assolutamente niente!
Quanto a tuo fratello, di certo non avrà piacere a
ritrovarsi davanti un giorno lo stupido mocciosetto responsabile della
carcerazione di tutta la sua famiglia.»
«Io non ho fatto nulla per far
incarcerare mio padre e mio nonno!»
«Davvero? Questo è
quello che affermi tu… Ma mettiti nei suoi panni: tu ti sei
salvato, non sei rimasto ferito negli scontri con gli Aurors, come
è successo a lui, nel disperato tentativo di salvare vostro
nonno… Tu non sei tornato a casa, a soffrire con lui la
situazione che si è creata. Tu sei qui, a Herrengton, a
vivere nella bambagia, con gli uomini che hanno ingannato i suoi
familiari… Per come la vedo io, potrai dirti fortunato se si
limiterà a prenderti a calci in culo, una volta che vi
ritroverete a Hogwarts…»
«Ma… io non ho
fatto nulla, io non voglio stare qui, io voglio andare da lui! Mio
fratello deve sapere che io non c’entro niente!»
«Prima regola: un ragazzino
che è stato venduto dal proprio stesso padre, qui dentro non
può più permettersi di usare la parola “voglio”,
siamo intesi? E ora finisci di mangiare, che sei la metà di
quello che dovrebbe essere un moccioso di nove anni… e in
queste condizioni, Merlino solo sa a cosa potresti
servirgli…»
*
Di tutte le parole dette da quel pallone gonfiato su mio padre, su mio
nonno, sul fatto di essere stato venduto, nulla mi aveva prostrato
quanto l’idea che mio fratello potesse considerarmi un
traditore. Non riuscivo a prendere sonno, vagavo come
un’anima in pena attorno al baldacchino, arrivavo fino alla
grande bifora e guardavo il cielo che iniziava a essere illuminato
dalla luce della luna crescente. Di lì a un paio di giorni
sarebbe stato Samhain, e io avrei compiuto finalmente nove anni.
Che cosa cambia? Non può certo essere un compleanno a
sistemare le cose...
Mi avvicinai al caminetto, c’erano molti libri in quella
stanza, potevo leggere qualcosa, per distrarmi e prendere sonno, ma mi
ritrassi subito, quella notte era già troppo caldo, stare
vicino al caminetto era improponibile,
Se solo fossi libero, se solo la porta non fosse bloccata da qualche
incantesimo, uscirei in quella specie di cortile di spettri che ho
visto al mio arrivo, a respirare l’aria salmastra che sale
dal mare. E chissà, magari potrei proprio scendere
giù, fino al mare… e provare a fuggire…
La stanza in cui mi trovavo era alla base della torre, dalla parte
opposta rispetto al cortile, e si affacciava in una specie di giardino
piccolo e raccolto, l’unica porzione del maniero, insieme al
salone di Habarcat, che potesse considerarsi in condizioni passabili;
mi issai sulla mensola della finestra, guardai di sotto,
c’era un dislivello, vero, ma nulla di insormontabile per un
ragazzino abituato a salire e scendere dagli alberi alti diversi metri
da quando aveva cinque anni: se mi fossi lasciato penzolare e scivolare
via dalla mensola lentamente, sarei finito giusto in mezzo a un
cespuglio abbastanza fitto da attutire la mia caduta.
Non
ho idea di come potrò rientrare in camera, prima che
qualcuno si accorga della mia fuga, ma tanto più di
imprigionarmi come stanno già facendo, che cosa possono
farmi?
Presi coraggio, scavalcai la finestra e mi lasciai cadere di sotto.
*
«Non avevi alcun diritto di
intervenire, Armand, questa faccenda non è affar
tuo!»
«Io ho tutto il diritto di
tutelare mio nipote, quando suo padre prende decisioni assurde che
possono mettere a repentaglio la sua incolumità!»
«Incolumità? E di
grazia, dimmi, che interesse avrebbe un bambino di appena nove anni a
fare del male a qualcuno di cui neanche conosce
l’esistenza?»
«Sei un patetico stolto,
Sherton, al quale la vita non ha insegnato niente! Non pensi che
cercherà di vendicarsi, prima o poi?»
«E tu eri talmente spaventato
all’idea che per vendetta potesse far del male a tuo nipote,
che ti sei affrettato a raccontargli tutto, dopo quanto? Due giorni?
Non ti ascolterò un secondo di più!»
«Devi mandarlo via da qui!
Sbarazzatene in qualche modo, per i tuoi scopi troverai qualcun altro,
non puoi rischiare di perdere anche Donovan!»
«È proprio per non
perdere Donovan che quel ragazzino deve stare qui!»
«Perché? No, tu non
me la racconti giusta… ma se credi di poter prendere per il
culo Armand Theophile Malfoy, ti sbagli di grosso, caro mio…
ti ricordo che ti tengo per le palle, un solo passo falso e faccio
aprire le porte di Azkaban anche per te, a costo di morirci,
Sherton!»
Le voci, accese e adirate, si sentivano già da
metà del lungo corridoio che avevo percorso per la prima
volta solo pochi giorni prima. Decisi di non fuggire, ma di avvicinarmi
senza farmi notare, come avevo imparato a fare nel bosco, con mio
fratello, quando andavamo a caccia… dovevo avvicinarmi tanto
da poter sentire bene, avevo già capito che stavano parlando
di me, mi serviva solo un posto dove non potessero accorgersi della mia
presenza.
*continua*
NdA:
In questa prima
parte abbiamo incontrato il piccolo Fear e abbiamo visto le
vicissitudini che l'hanno portato per la prima volta a Herrengton, per
volontà di Elija Sherton, il nonno di Alshain. Se ricordate
un po' la trama, Elija fu costretto a sposare Artemis Malfoy, figlia
dell'Armand Theophile Malfoy che abbiamo visto in questo capitolo, e a
sottoscrivere un contratto secondo il quale la prima femmina che fosse
nata in casa Sherton avrebbe dovuto sposare un Malfoy,causa del
profondo turbamento di Meissa ogni volta che Lucius appariva
all'orizzonte. Domani metto tutte le note e i saluti per bene, che ho
fatto terribilmente tardi, voi intanto potete vedere se
intuite/ricordate il significato delle note 5/6/7 e 13/14/15... ci
leggiamo presto, ciao!!!
Valeria
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
Scheda
Immagine
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