L’autobus
ripartì, mentre un ragazzo alto con i capelli castani alzava
gli occhi al cielo. Si guardò intorno, godendosi quel
paesaggio che tanto gli era mancato.
Il sole era
alto e batteva sui palazzi, i passanti frettolosi si accingevano a
tornare a casa, le auto sfrecciavano a tutto gas non appena il semaforo
era diventato verde.
Ispirò
l’aria di casa, una leggera brezza che gli rinfrescava il
viso. Si strinse in spalla il borsone e con una mano afferrò
la valigia.
Camminò
lentamente, osservando ogni minima cosa che gli si presentava dinanzi. Gli
era mancato tutto.
Gli erano
mancati i rumori, gli odori, il caos di Tokyo. Erano mesi che non si
beava di tutto quello, erano mesi che era costretto a fare quei duri
allenamenti che lo avevano stremato, erano mesi che l’unica
cosa che gli era concessa vedere era la sua camera del residence.
Era come se
stesse riprendendo vita, era come se il sangue fosse tornato a
scorrergli nelle vene dopo tanto tempo, era come se si fosse svegliato
da un lungo sonno.
Gli
scappò un sorriso, mentre guardava con attenzione le vie e i
negozi. Passò vicino ad un parco, osservò gli
alberi e le panchine.
Come aveva
fatto per così tanto tempo ad aver rinunciato a tutto quello?
Girò
da una via e imboccò un’altra strada. Si era fatto
lasciare in quel quartiere perché aveva intenzione di andare
a trovare una persona.
Si
fermò di fronte ad un appartamento non molto grande,
notò che il portone era aperto ed entrò.
Salì un paio di scale fino ad arrivare dinanzi a una porta.
Era
lì che abitava da circa tre anni. Dall’odore che
proveniva da dentro sicuramente stava cucinando qualcosa di buono, e
ora che ci pensava era quasi l’una del pomeriggio ed aveva
una fame da lupi. Suonò e attese.
Quando la
porta si aprì, Taichi sorrise alla visione di un Yamato con
i capelli scompigliati e una vecchia tuta addosso.
Lui che era
sempre così perfettino.
Questi lo
guardò boccheggiando, spalancando gli occhi.
Era
lì. Il suo migliore amico era lì.
Si chiese
se non stesse ancora sognando, ma il ragazzo aveva incominciato a
ridere con la sua solita risata fragorosa, e lui pensò che
era tutto vero.
Non avrebbe
mai potuto dimenticare quella risata.
La sua
risata.
«E’
così che accogli il tuo vecchio?!» gli chiese con
sarcasmo, mentre l’altro era ancora fermo sulla soglia e lo
fissava interdetto.
Si
risvegliò da quello stato di trance e sentì la
gioia pervaderlo, perché non era uno scherzo, lui era
lì, era tornato.
Taichi era
tornato.
Scoppiò
a ridere e l’altro fece lo stesso. Era straordinario come una
merdosa giornata di fine maggio potesse diventare in un attimo
splendida.
Matt si
sporse e lo abbracciò. Gli era mancato tantissimo. Il
castano ricambiò la stretta e pensò la stessa
cosa.
«Tai»
sussurrò con affetto sincero. Questi continuò a
ridere, tirandogli pacche sulla schiena.
«Cazzo,
sei qui» Il biondo si stancò
dall’abbraccio e lo esaminò, ancora con
un’espressione interrogativa in volto.
Tai si
passò una mano tra i capelli, poi prese la sua valigia.
«Allora,
mi fai entrare o ci sediamo sulle scale?»
Matt
annuì e si spostò per farlo passare. Quando varcò
la soglia, fu investito da un forte odore di cibo e il suo stomaco
reagì subito, brontolando.
Si
guardò intorno, esaminando bene l’appartamento.
Era un piccolo monolocale con cucina e soggiorno insieme.
Ciò che gli saltò all’occhio fu senza
dubbio il ventilatore da soffitto e la carta da parati a righe sfumate,
senape e marroni. Appena si entrava, sulla sinistra, c’era un
grosso frigo vecchio stile di color ottanio. La cucina, invece, era di
un blu smorto e proseguiva ad angolo retto fino all’altro
muro. Il tavolo in legno sembrava più una penisola, e aveva
solo due sedie a disposizione. In fondo, sulla destra,
c’erano un divano grigio a due posti e un televisore poco
moderno appoggiato su un mobiletto. La casa non era molto arredata se
non per una piccola libreria dove c’erano libri e altre
cianfrusaglie. La luce era poca, entrava dall’unica finestra
che c’era in fondo e dava l’idea di un antro
segreto. Matt si sforzava di tenere in ordine, ma c’erano
spartiti sparsi qua e là, cianfrusaglie sopra il mobile
all’entrata, la sua chitarra appoggiata sul divano e le tazze
della colazione ancora dentro il lavello. Però gli piaceva.
Nonostante fosse piccola e poco luminosa, era accogliente.
Era da Matt.
«Cosa
stai cucinando?» gli chiese, avvicinandosi ai fornelli e
alzando il coperchio della pentola.
«Uno
spezzatino con le patate»
Tai si
voltò a guardarlo, sorridente.
«Non
sei affatto cambiato» alluse alle sue capacità
culinarie che lo avevano da sempre contraddistinto.
Il biondo
scosse la testa, e continuò a guardarlo.
Erano da
più di sette mesi che non si vedevano e il corpo di Tai era
ancora più tonico, aveva una leggera barbetta e si era
perfino tagliato i capelli.
Ma era
sempre il solito Taichi. Magari un po’ più serio,
un po’ più maturo, ma era sempre lui. Ed era per
questo che Matt gli voleva bene.
«Neanche
tu» gli sorrise, mentre lo osservava sedersi sul divano con
le braccia incrociate dietro il capo.
Il biondo
si avvicinò ai fornelli e diede una controllata al cibo. Poi
lo scrutò, indagatore.
«Come
mai sei qui?» gli chiese finalmente, notando il cambio di
espressione dell’amico. Tai, infatti, aveva fatto una smorfia.
«Mi
sono preso una pausa, non ce la facevo più»
spiegò, passandosi una mano sul volto.
Aveva
trascorso mesi e mesi di inferno, obbligato ad allenarsi fino allo
stremo delle forze, segregato dentro una camera senza poter vedere
nessuno.
«Ho
anche litigato con il mio allenatore» continuò,
ricordando i dissapori avuti con Akira. Era un uomo meschino e
arrogante, non aveva nessun rispetto per i suoi calciatori, e badava
solo a guadagnare denaro.
Tai strinse
un pugno. Non sarebbe stato
la macchinetta di nessuno da quel giorno in poi.
Matt
notò l’espressione tesa del suo volto.
«Quanto
rimani?»
Il castano
spostò lo sguardo verso la finestra. Avrebbe voluto rimanere
per sempre a Tokyo senza dover dare conto a nessuno, ma non si poteva
avere tutto dalla vita.
Per seguire
il suo sogno doveva rinunciare alla sua serenità.
«Solo
una settimana» proferì infine con un sospiro.
Matt
aprì la bocca, deluso. Credeva che con l’avvento
dell’estate e la fine delle partite poteva restare molto di
più.
«Cazzo...»
imprecò a bassa voce, mentre Tai ridacchiava amaramente.
Erano
così rari quei momenti che non si aveva nemmeno il tempo di
viverli. Ma era risoluto questa volta, si sarebbe goduto tutto di quel
luogo, della sua famiglia e dei suoi amici.
Non avrebbe
avuto rimpianti, quelli sì che straziavano il cuore.
Si
alzò dal divano e lo raggiunse. Gli si parò di
fronte e notò che erano alti uguali. Matt aveva allungato di
nuovo i capelli e aveva un po’ di barba che gli incorniciava
il viso. Aveva sempre avuto quell’aspetto angelico e un
po’ sofferente, quello di un ragazzo bello e dannato.
Gli
posò una mano sulla spalla, e lui alzò gli occhi
cerulei.
«Ehi,
amico, ti prometto che recupereremo tutto»
Sapeva che
manteneva le promesse, eppure il biondo pensò che non
sarebbe mai bastato tutto il tempo del mondo per attenuare la mancanza
che aveva dentro.
Ma era
sempre stato un tipo silenzioso e non aveva mai preteso niente da
nessuno. Tai aveva la sua
vita.
Lui era
solo un idiota che non aveva ancora fatto i conti con sé
stesso.
Il rumore
della pentola lo distrasse e si premurò di abbassare il
fuoco. L’altro si accorse che c’era qualcosa che
non andava.
«Che
succede qui intorno?»
Nel
frattempo, lo aiutava ad apparecchiare la tavola. Matt alzò
le spalle e prese due piatti dalla credenza.
«Uno
schifo» mormorò, mentre spegneva i fornelli
«Lavoro quattro giorni a settimana e mi pagano di
merda»
Non era
solo questo, però. Lo sentiva.
«E
con la band come va?»
Tai era
sempre stato bravo a sganciare bombe, ma questa era peggio di una ad
idrogeno. Il biondo sentì il cuore battere più
forte e un immane senso di tristezza lo pervase.
«Abbiamo
rotto definitivamente» disse atono, mentre l’altro
spalancava gli occhi e lo guardava interrogativo.
«No,
e quando?!» Tai era stupito, ma Matt guardava in faccia la
realtà.
Non serviva
a niente perdere tempo con qualcosa che non aveva futuro.
«Giusto
ieri» rivelò, godendosi la faccia stupefatta
dell’altro.
Il castano
non poteva udire alle sue orecchie. La musica era tutto per Yamato, era
il suo mondo, la sua valvola di sfogo, e quella band andava avanti da
un paio d’anni. Perché
era finito tutto?
«Che
cazzo... Ma perché?» diede voce ai suoi pensieri.
Matt
strinse la pezza tra le dita e cominciò a versare il cibo
sui piatti.
«C’erano
più spese che guadagni» disse con voce roca, dopo
qualche secondo
Mentre
parlava faceva rumore con i piatti e le pentole. Tai notò
che era segno di nervosismo.
«E
poi, parliamoci chiaro» si voltò di scatto e lo
guardò serio
«Le
band non piacciono a nessuno, sono passate di moda, ormai. Si erano
rotti le palle tutti, ero io l’unico idiota che ancora ci
credeva...»
La sua voce
si spezzò, e lo vide mordersi il labbro. Tornò a
trafficare in cucina, e a Tai fece tanta tenerezza. Si sforzava di
essere il più razionale e indifferente possibile, come
faceva sempre d’altronde, ma lo conosceva fin troppo bene per
crederci.
Soffriva
per quella decisione, perché tutto quello aveva
rappresentato per anni il suo unico obbiettivo di vita. Era andato a
vivere in un altro quartiere di Tokyo per frequentare il conservatorio,
lavorava in un bar da quattro soldi per mantenersi l’affitto
e le spese, non sapeva dove sbattere la testa perché era
solo e non c’era nessuno ad aiutarlo.
Non poteva
mollare dopo tutti quei sacrifici.
«Non
sei un idiota se tutto ciò che hai fatto è stato
seguire il tuo sogno»
Disse
quelle parole un po’ per confortare anche sé
stesso. Aveva dovuto dire addio a diverse cose pur di giocare a calcio.
Ne era
valsa veramente la pena?
Matt
posò i due piatti a tavola e non lo guardò. Forse
il suo amico ancora ci credeva, ma lui sapeva qual era la
verità.
«A
patto che non sia effimero»
Era duro
quando parlava, lo era sempre stato, ma questa voltò
turbò Tai più del dovuto.
Un sogno
effimero... E se io stessi
inseguendo qualcosa che non mi appartiene, che non mi
apparterrà mai...
E se io
scoprissi che tutto ciò che ho fatto non è
servito a niente, che ho speso cinque anni della mia vita dietro al
nulla...
E se quello
che pensavo fosse il mio sogno, il mio unico obbiettivo di vita, si
rivelasse... effimero?
Taichi si
morse le labbra, lo sguardo perso nel vuoto. Forse
il suo amico aveva ragione. Forse... forse il gioco non valeva la
candela, e se ne stava pian piano rendendo conto anche lui... Era per
questo che aveva deciso di tornare a casa, era per questo che non
sopportava più i modi del suo allenatore e quelli dei suoi
compagni...
Era per
questo che aveva incominciato ad odiare quella vita.
Alzò
gli occhi castani sull’altro, che aveva incominciato a
mangiare. Il suo stomaco gorgogliava e decise di imitarlo, spegnendo
quel flusso di pensieri che mano a mano lo stavano inglobando.
Decise di
cambiare discorso e si schiarì la voce.
«E
con Sora come va?»
Voleva solo
essere una semplice domanda, ma aveva quasi rischiato di strozzarlo.
Matt bevve un bicchiere d’acqua e spostò lo
sguardo da un’altra parte.
Come andava
con Sora?
Beh, era
tutto così strano... Era così strano svegliarsi
la mattina e ritrovarsi solo sul suo letto quando avrebbe desiderato
trovare lei al suo fianco...
Come andava
con Sora?
Era tutto
così strano non sentirla per telefono da così
tanto tempo, era strano non vederla ogni giorno, era strano non
stringerla a sé...
Come andava
con Sora?
«Ah,
sì, con lei... Potrebbe andare meglio»
mormorò, tentando di mantenersi il più neutro
possibile. Ma Tai era il suo migliore amico, forse se lo era
dimenticato, e capiva quando c’era qualcosa che non andava.
Quando
c’era tutto che non andava.
«E’
successo qualcosa?» glielo aveva chiesto con un sospiro,
perché lui e Sora erano i suoi punti di riferimento, e mai
nella vita avrebbe voluto che accadesse qualcosa tra di loro.
Però
adesso Matt aveva gli occhi bassi, e sentiva che soffriva,
perché qualsiasi cosa fosse accaduta, lui a Sora teneva
molto.
«No,
non è successo niente. E’ proprio questo il
fatto» ammise ridacchiando, mentre torturava il cucchiaio.
Avrebbe
voluto succedesse qualcosa perché non riusciva
più a sopportare quella situazione.
Era
diventato così pesante gestire il peso di quel lungo
silenzio.
Tai lo
guardò serio.
«Matt...»
fece per parlare, per dirgli che non doveva comportarsi
così, che doveva andare da lei a chiarire se c’era
qualcosa che non andava, perché lui e Sora si appartenevano,
e Tai non voleva che soffrissero.
Il biondo
però l’interruppe infastidito, come sempre quando
si trattava di un fatto suo personale.
«Non
mi va di parlarne, Tai, davvero» Pensò di averlo
zittito, ma non era tipico del castano starsene zitto in quelle
situazioni.
«Non
essere stupido! Smettila di piangerti addosso come un
bambino!»
Aveva
alzato un po’ la voce, però era questo
l’unico metodo che funzionava con Yamato. Lo fissò
duramente, aspettando che dicesse qualcosa.
Quando uno
dei due non capiva, l’altro gli apriva gli occhi, era sempre
così.
E
nonostante Taichi stesse rischiando di alimentare un litigio, lo aveva
fatto comunque, perché colpendolo in uno dei suoi punti
più sensibili lo avrebbe fatto ragionare.
Matt
continuò a stringere la posata tra le dita, e il cibo si era
ormai freddato.
Forse Tai
aveva ragione.
Aveva
ragione a dirgli che era un fottuto bambino del cazzo. Aveva compiuto
ventisei anni e non era capace di mettere apposto le cose con la sua
donna.
L’unica
cosa che aveva saputo fare per tutti quegli anni era piangersi addosso
e sperare che tutto si sistemasse da solo.
Era per
questo che aveva sempre raccattato fallimenti.
Lo
guardò.
Era
contento che fosse tornato.
Annuì,
convinto.
«Le
parlerò» disse, senza aggiungere altro, e Tai
sospirò di sollievo.
Yamato
capiva sempre.
Gli
regalò un sorriso e finirono di mangiare.
Era sempre
così, tra loro due. Erano un continuo volersi bene e poi
odiarsi e poi volersi bene ancora.
Erano
Taichi e Yamato ed erano unici nel loro genere.
Dopo che
finirono di mangiare, Matt si mise a preparare un caffè.
Nel
frattempo, l’altro chiedeva ancora informazioni sulla vita a
Tokyo.
«Domani
si laurea il burino» venne spiazzato da quella notizia
inaspettata, tanto che quasi cadde dalla sedia.
«JOE?!
Domani si laurea Joe?!» urlò stupito, mentre
cominciava ad essere scosso da un attacco di risate.
«Lo
so che fa strano, ma è così»
Tai aveva
incominciato a ridere come un pazzo.
«Cazzo,
se si laurea il burino allora la fine del mondo è
vicina!»
Continuarono
a ridere come idioti.
«E
ci ha invitati quel coglione?»
Il biondo
spense il caffè che era appena salito.
«Siamo
invitati tutti, ci saranno pure gli altri»
Il castano
sentì i battiti fermarsi non appena apprese che avrebbe
potuto rincontrare i suoi amici.
«Dio,
non li vedo da una vita...» mormorò, mentre il
biondo gli passava il caffè.
Non la
vedeva da una vita.
Come
sarebbe stato rivederla dopo così tanto tempo?
Sentire di
nuovo la sua voce, vederla ridere, rendersi conto di cos’era
lei per lui.
E non
sapeva se incontrarla gli avrebbe fatto bene o ancora più
male, ma era come se i suoi sensi reclamassero di andare lì
da lei e vederla, anche solo vederla...
Matt
l’osservò perso nei suoi pensieri.
«Hai
conosciuto qualcuno lì?» glielo chiese
discretamente, perché si differenziavano perfino nei modi di
parlare.
Tai non si
preoccupava di essere esplicito, Matt invece stava attento.
Tai agiva
sempre d’istinto, Matt invece era razionale.
Il castano
negò con la testa, stringendo le labbra. Aveva avuto diverse
possibilità di sotterrare una volta per tutte quello che era
stato, ma non era ancora pronto.
Dopo Mimi,
era come se gli si fosse inaridito il cuore...
Sospirò,
pensando che se era andata così, un motivo c’era. Il
fatto era che dopo quasi due anni non riusciva a trovarlo,
perché se pensavano che la distanza li avrebbe allontanati,
allora non avevano capito niente, o forse era stato lui a non averlo
fatto...
Aveva fatto
sì che fossero più lontani con il corpo, ma non
con il cuore.
«Che
ne dici se chiamo tutti e andiamo a berci qualcosa più
tardi?» propose spontaneamente.
«Si
potrebbe fare»
Finirono di
bere il caffè.
«Allora
più tardi telefono a Sora»
Il cuore
del biondo perse un battito e annuì. Se
non la chiamava lui, era bene che lo facesse l’altro.
Tai voleva molto bene a Sora, e glielo dimostrava.
Lui invece
non era capace di fare un cazzo.
Sospirò,
poi raccolse le tazzine. Aveva
bisogno del suo aiuto per riuscire a combattere sé stesso.
«Vuoi
farti una doccia?» deviò il discorso, come sempre.
Tai
annuì e tirò fuori il cellulare.
«Sì,
grazie, amico. Però prima avverto mia madre che sono a
Tokyo, non ho visto nessuno ancora»
Yamato si
voltò interrogativo a guardarlo.
«Sono
venuto direttamente da te» rivelò e poi gli
sorrise eloquente.
Non seppe
perché, ma ebbe voglia di abbracciarlo.
Taichi era
andato subito da lui, non aveva perso tempo, lo aveva perfino anteposto
alla sua famiglia.
A volte si
sentiva così inadeguato, credeva di non essere adatto a
certi tipi di rapporti, perché era così
introverso da non riuscire a trasmettere ciò che sentiva
realmente.
Ma con lui
era diverso, con lui tutto migliorava.
Riusciva a
colorargli le giornate.
Gli era
mancato da morire, il suo migliore amico.
«Tai»
lo chiamò, mentre l’altro si stava dirigendo verso
il bagno.
«Mh?»
Lo
guardò con affetto.
«Bentornato
a casa»
*****
Il ragazzo
che il giorno dopo avrebbe dovuto laurearsi entrò in camera
di Sora come una furia, senza preoccuparsi di bussare.
La ragazza
lo guardò stralunata e si coprì immediatamente,
mentre Jyou la fissava in cagnesco e con in mano una padella sporca di
cibo.
«Ti
sembra questo il modo di entrare?!» lo redarguì,
finendo di mettersi la maglietta, voltata di spalle.
Joe faceva
sempre in quel modo. Non aveva la concezione di stanze separate, per
lui la casa era un tutt’uno e gli spazi erano in comune.
Quando si
faceva la doccia non chiudeva mai a chiave e quando lei e Mimi erano a
loro volta in bagno entrava senza tanti problemi.
Per fortuna
che ormai ci avevano fatto l’abitudine e che lui era un
farlocco totale.
Lo vide
assumere un’espressione ancora più arrabbiata.
«E
a voi sembra questo il modo di comportarvi nei confronti di uno
studente laureato?!»
Sora
alzò gli occhi al cielo, sbuffando. Ogni volta era la stessa
storia; si lamentava con loro perché sosteneva che non gli
portavano il giusto rispetto e tesseva le proprie lodi petulantemente.
«Non
sei ancora laureato, non dimenticarlo» lo riportò
alla realtà, finendo di preparare la sua borsa.
Erano quasi
le quattro del pomeriggio e doveva andare a lezione di ballo. Joe le
avrebbe fatto perdere ancora più tempo, doveva scansarlo.
«Che
c’entra, è come se lo fossi. A chi importa
realmente delle date?» la seguì per tutta la
stanza con aria inquisitoria
«Se
Gesù fosse resuscitato il secondo giorno e non il terzo
avrebbe fatto differenza?»
Sora si
portò le mani al capo.
«Non
me lo dire!»
«La
risposta è no, sarebbe comunque risorto»
Non capiva
le fisse religiose di Joe verso il cristianesimo. Non era mai andato in
una chiesa cattolica ed era uno di quelle persone pettegole che poi
magari chiedevano una grazia.
«E
questo cosa significa?»
«Che
tu e quella meretrice di Mimi vi siete coalizzate contro di
me!» spiegò, mostrando la padella che aveva in mano
La ramata
incrociò le braccia.
«Per
forza, Joe, non lavi mai i piatti e non fai le pulizie da mesi, ormai.
Ci sono dei turni da rispettare!»
Questi si
portò una mano al petto con fare teatrale. Mosse i capelli
neri tendenti al blu con voracità e le puntò il
dito contro.
«Sono
un uomo impegnato, io!
Che credete che perda tempo come voi due ragazzine?! Domani
sarà il giorno più importante della mia e della
vostra vita!»
«Della nostra?»
chiese lei, senza capire.
«Avrete
un dottore in casa, per la miseria! Parlerete, interagirete con lui!
Potrete toccarlo, anche!»
Sora
alzò gli occhi al cielo, sconsolata, mentre quello
continuava a sproloquiare a vanvera. Con Joe era così: lui
parlava e loro lo lasciavano perdere.
Erano anni
che si conoscevano e non era affatto cambiato. Aveva compiuto
ventisette anni, ma era rimasto il solito ragazzo strambo e con
l’arrabbiatura facile. In compenso, aveva terminato i suoi
studi in medicina ed era stato uno studente eccellente. Sora continuava
a chiedersi come avesse fatto a laurearsi con quella testa che si
ritrovava, ma, nonostante tutto, non sapeva come avrebbero fatto lei e
Mimi da sole in casa senza di lui.
Le faceva
sempre ridere, ne aveva in serbo una per tutti e combinava disastri a
catena.
Era sempre
lui, l’inimitabile Joe Kido.
Il burino
sincero a cui volevano bene comunque.
Sora chiuse
la zip della borsa e fece per uscire dalla camera.
«Senti,
sono in ritardo, ne parliamo dopo» tentò di
liquidarlo, ma il maggiore la guardò con uno sguardo
malizioso.
Poteva
vedere uno strano luccichio dietro i suoi occhiali da vista rossi, e
non era niente di buono.
«Dì
un po’, non è che questa cagata dei balli
caraibici ti ha dato alla testa? Forse è solo una scusa per
incontrare qualche baldo giovine?»
A volte si
stupiva di come riuscisse ad essere peggio di una comare pettegola. La
ragazza si sentì avvampare e fu scossa da un colpo di tosse.
«Non
dire stupidaggini» lo contestò, anche se non
sembrava molto convinta.
Il ragazzo
infatti continuò ad indagare, le braccia conserte e la
padella penzolante.
«Secondo
me, ti piace qualche fusto ballerino, dì la
verità, piccola Sora. Non c’è niente di
cui vergognarsi»
E si
avvicinò pericolosamente con l’intento di fare
chissà cosa, mentre lei cercava di fuggire alle sue grinfie.
Il
cellulare della ramata vibrò improvvisamente e Joe
rizzò sull’attenti.
«Ecco,
adesso ho le prove!» si avventò sul telefono prima
di lei e avvicinò la faccia curioso
«Dio
mio, Joe, passami quel cellulare e falla finita! Non dovevi ripetere la
tesi per domani?»
Il ragazzo
la guardò con astio, forse perché il destinatario
non confermava la sua versione.
«Cosa
vuoi che me ne fotta di cinque minuti di merda, e poi sono un genio,
Cristo santo!»
Le
passò il cellulare sgarbatamente.
«E
comunque tieni, è quel cretino di Taichi»
Sora
guardò lo schermo del telefono, stupita. Quel burino non
scherzava, era realmente Tai. Non lo sentiva da un sacco di tempo!
Si
apprestò a rispondere.
«Tai!»
esclamò allegra, pensando che anche se era un po’
in ritardo, il ballo poteva aspettare quando si trattava del suo
migliore amico.
«Ehi,
Sora! Indovina un po’» rispose lui con lo stesso
entusiasmo.
La ragazza
non capì.
«Che
cosa?»
«Dove
mi trovo?»
Sora
pensò che se la memoria non la ingannava, Taichi si trovava
a cinquecento kilometri lontani da lei.
«A...
Kyoto?» chiese incerta, perché se le poneva una
domanda del genere c’era qualcosa sotto.
Lo
sentì ridacchiare. Era da così tanto tempo che
non sentiva la risata di Tai.
«E
se ti dicessi che sono più vicino di quanto pensi?»
Il cuore
della ragazza batté più forte. Cosa voleva dire?
Dove si trovava adesso?
E se forse
era...
«Tai,
cosa-»
Non
riuscì a terminare la frase, che il ragazzo
l’interruppe.
«Sono
a casa di Matt»
Sentì
un groppo alla gola quando udì il suo nome.
Tai era a
Tokyo, non riusciva a crederci, ma era così.
Era
lì con lui, e doveva aspettarselo, perché erano
amici per la pelle, contavano l’uno sopra l’altro,
erano come due facce della stesse medaglia.
Si morse un
labbro.
Tempo fa
avrebbe gioito sapendo che Tai era insieme a lui, ma adesso...
Aveva un
gran voglia di fuggire via.
Nonostante
ciò, voleva bene veramente a Taichi, ed era felice che lui
fosse tornato.
«No,
non ci posso credere! Sei qui!» urlò di gioia.
Erano due
persone diverse, in fondo, l’uno non doveva necessariamente
includere l’altro.
«Esatto»
le rispose il ragazzo.
Tai era
molto importante per Sora, lo era sempre stato. Era una di quelle
persone che non chiedeva niente in cambio, che c’era per lei
in qualunque circostanza e la proteggeva dalle grinfie del mondo intero.
Fin da
quando facevano le scuole elementari, lui non l’aveva mai
abbandonata, le era stato sempre accanto, e l’esperienza a
Digiworld li aveva avvicinati ancora di più.
Un tempo
credeva di provare qualcosa per lui, ma era ancora troppo piccola e
ingenua per capire. Adesso era consapevole del fatto che Taichi per lei
rappresentava il suo punto di forza, il suo supporto morale, il suo
migliore amico.
Interruppe
quel flusso di pensieri uno stupito Joe, che aveva sentito del fatto
che lui fosse lì, e le si era parato dinanzi.
«Taichi
è qui?!» cercò di scipparle il telefono
dalle mani
«Fammi
sentire, battona!»
Fece una
smorfia e spinse il ragazzo lontano, poi portò nuovamente il
cellulare all’orecchio e mise il vivavoce.
«Sono
arrivato oggi» spiegò quello, che intanto aveva
lanciato un’occhiata eloquente a Yamato
«Senti,
che ne dici se ci vediamo insieme agli altri?»
Si
fermò a riflettere. Vedere gli altri significava incontrare lui dopo
tanto tempo, e non sapeva se era ancora pronta.
Il solo
pensiero la metteva in agitazione.
«Certo,
sarebbe fantastico!» esclamò, però,
nascondendo la preoccupazione.
Tai voleva
vedere lei e gli altri, era da un sacco di tempo che non stavano
insieme. Era arrivato il
momento di fare un passo in avanti.
«Facciamo
alle sei?» propose, infatti, sorridendo.
«Alle
sei da Vancouver» confermò lui. Poi
lanciò un altro sguardo a Matt che si mordeva un dito.
«Ti
passiamo a prendere?»
Questi
alzò la testa nell’udire quella domanda, e gli
fece cenno di piantarla. Il castano, però, gli
tirò una gomitata.
Sora si
attorcigliò una ciocca di capelli, e pensò. La
lezione di caraibico finiva alle cinque e mezza, aveva tutto il tempo
di farsi una doccia e prepararsi.
Il fatto
era che non aveva voglia che venissero a prenderla proprio
lì, in quel luogo dove c’era qualcun altro ad
aspettarla.
«No,
grazie, vengo da sola appena finisco la lezione di ballo»
Tai fece
una faccia interrogativa.
«Ballo?
Certo che ne hai di cose da raccontarmi»
Ed era
veramente così. Sora era sempre uguale, ma nello stesso
tempo c’erano cose di lei che erano cambiate. Tipo il fatto
che ballasse; lei era sempre stata un po’ maschiaccio, sia
negli atteggiamenti sia nelle cose che le piacevano.
Con il
passare del tempo era diventata più femminile, aveva smesso
di giocare a calcio, aveva mollato anche il tennis e curava di
più il suo aspetto.
Adesso
aveva venticinque anni ed era una donna splendida.
Lei sorrise
con affetto.
«Mi
era mancata la tua voce» gli rivelò, mentre Joe,
accanto a lei, faceva una smorfia di disgusto.
Ed era vero
che gli era mancato, Taichi, perché lui era una di quelle
persone che entrava dentro e non usciva più.
«E
a me sei mancata tu»
Era anche
una di quelle persone che stupivano e lo facevano davvero bene.
La ragazza
sentì le lacrime agli occhi. Era così sensibile,
a volte, che bastava poco per renderla felice e ancor meno per farla
diventare triste.
Avrebbe
aggiunto qualche altra cosa, se solo il ragazzo che si trovava alla sua
destra non le avesse scippato con forza il telefono dalle mani.
«Basta
con queste smancerie» portò l’aggeggio
all’orecchio e spinse Sora da un lato
«Taichi!»
urlò Joe, la voce acuta e petulante
Quello
alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Sei
ufficialmente obbligato a partecipare all’evento che tutti
aspettavamo: il mio incoronamento con alloro»
Tentò
di darsi un tono, ma ciò che provocò fu un
attacco di risate.
«Cioè
la tua laurea, burino» specificò Tai
Joe
ghignò sardonico.
«Un
evento più importante del giubileo»
Il castano
sospirò rassegnato. Ventisette anni solo
all’anagrafe, il resto non era variato.
«Sei
sempre il solito. Ci vediamo più tardi, idiota»
L’altro
assunse la tipica espressione di quando era pronto a colpire nel segno.
«Senz’altro, frocetto»
Almeno non
erano cambiate nemmeno le prese in giro.
Joe
restituì il cellulare a Sora con una faccia fiera, poi si
riprese la padella sporca e tornò in cucina.
Non
l’avrebbero ammesso mai, ma in fondo Tai e Matt
volevano bene veramente a Joe, e lo stesso valeva per lui.
Nonostante
fosse una persona goffa ed irritante, era un loro caro amico, e il
giorno dopo avrebbe raggiunto una meta molto importante.
Prese la
borsa ed uscì di casa.
Matt non
l’aveva chiamata, era stato Tai a farlo. Non si era degnato
nemmeno di farsela passare ed era certa fosse seduto accanto a lui.
Alzò
gli occhi al cielo blu, tristemente.
Non erano
capaci di continuare ad amarsi, loro due, e lei incominciava a sentire
stretto il peso di quel rifiuto.
Aveva
voglia di correre e rifugiarsi tra le braccia di qualcuno, aveva voglia
di sentire il suo cuore battere come una volta, aveva voglia di amare.
Corse, per
correre, e arrivò dritto lì, alla scuola di ballo.
Là
dentro c’era qualcuno che l’aspettava, qualcuno che
la faceva sentire donna, qualcuno che la faceva sentire desiderata,
qualcuno di cui lei aveva bisogno e adesso più che mai.
*****
Aveva
così tanto insistito per vederla che Mimi, alla fine, non
aveva potuto fare a meno di accettare. Così aveva lasciato i
libri sul tavolo ed era corsa a prepararsi.
Una volta
avrebbe liquidato senza troppi problemi qualcuno con cui non aveva
voglia di uscire, ma Shinichi si comportava bene con lei, e non
riusciva a mettere un punto fermo in tutta quella storia.
Era passato
a prenderla con la sua macchina, e lei era salita su, salutandolo con
un sorriso più di cortesia che di altro. Lui era contento di
vederla, tant’è che si era sporto per darle un
bacio, ma Mimi aveva allontanato il viso.
Era
già successo che si baciassero, e in quei momenti lei non
riusciva a ritrarsi perché non voleva apparire come
schizzinosa o maleducata, ma la verità era che non sentiva
l’esigenza di farlo.
Era grave
che non provasse così tanta attrazione per un ragazzo;
eppure Shinichi era carino. Aveva gli occhi azzurri e i capelli scuri,
un sorriso rassicurante e un corpo tonico, nonostante non fosse molto
alto.
Si
interessava di tutto, gli piaceva leggere e sapeva ascoltarla. Era il
tipo di ragazzo che sapeva coinvolgere una donna, per questo aveva
deciso di conoscerlo meglio.
Si trovava
in un periodo in cui la sua autostima era calata molto, si sentiva
brutta e trascurata, e lui era riuscito almeno in parte a tirarla su e
a distrarla da tutto quello studio che la opprimeva.
Da quando
si era lasciata con Tai, aveva incominciato a vivere in un lungo
baratro di sofferenza, e per quanto cercasse di andare avanti riusciva
solo a fare dei passi indietro.
Dopo quella
rottura, aveva smesso di studiare, si era rinchiusa in casa e non
voleva vedere nessuno.
Piano
piano, con l’aiuto di Sora, era riuscita a guardare oltre, la
luce aveva irrotto su di lei e finalmente le cose avevano incominciato
a sistemarsi.
Poi aveva
conosciuto Shinichi a quella festa. E dire che non voleva nemmeno
andarci, pioveva e voleva per forza mettersi un vestito e dei collant.
Alla fine
si era convinta e ci aveva trovato lui.
E adesso
eccola lì, in quella macchina a guardare fuori.
A tentare
di mantenere uniti i pezzi di lei che cercavano di fuggire via.
Il ragazzo
parcheggiò vicino ad un parco che aveva la vista sul fiume,
e Mimi si rese conto che si erano allontanati un bel po’ dal
quartiere dove viveva.
Fecero una
passeggiata in silenzio, godendosi il rumore dell’acqua e le
urla dei bambini stramazzanti.
Avrebbe
dovuto ringraziarlo per averla portata in quel luogo, ma
l’unica cosa che riusciva a pensare era di voler fuggire.
Shinichi
parlava di qualcosa che lei non sentiva, e quel paesaggio era
così bello che le faceva venire in menti ricordi felici.
Lei e Tai
che camminavano mano nella mano, sorridenti, che si amavano da morire.
Tai che
l’abbracciava, che d’un tratto la sollevava
facendola urlare di paura, e poi rideva.
Tai che la
baciava e lei che si aggrappava a lui come fosse il suo unico appiglio.
Facevano
male i ricordi, faceva male avere la consapevolezza di non poter fare
niente per tornare indietro, faceva male voltarsi e trovare al suo
posto un’altra persona che non avrebbe mai potuto eguagliarlo.
E le
dispiaceva per Shinichi, perché era davvero buono con lei,
ma non riusciva a non pensare a ciò che era stato.
Gli occhi
le diventarono improvvisamente lucidi, e quando tirò su con
il naso, il ragazzo la guardò.
Era strana,
Mimi, da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che
starsene per i fatti suoi a contemplare qualcosa che chissà
cos’era.
Un
po’ le piaceva il fatto che stesse sempre sulle sue, il fatto
che d’un tratto aprisse gli occhi e si rendesse conto dove si
trovava. Era una sua peculiarità quella di svegliarsi
all’improvviso.
Adesso,
però, non capiva cosa le prendeva. Da un paio di giorni era
come se lo stesse evitando e meritava una spiegazione.
«Che cos’hai?»
le chiese ad un certo punto, interrompendo il suo flusso di pensieri.
Shinichi la guardava seriamente, non era stupido e aveva capito che
qualcosa non andava.
La ragazza
si schiarì la voce, pensando che non era giusto rovinare un
momento così speciale per qualcosa che non c’era
più.
«Niente»
si sforzò di sorridere, ma era una pessima attrice e lui
aveva imparato a conoscerla.
«Non
ti piace qui?»
Entrambi
volsero lo sguardo verso il panorama mozzafiato e Mimi pensò
che sì, le piaceva tantissimo, ma che al suo posto avrebbe
desiderato qualcun altro.
«E’
perfetto, solo che...» si azzardò a dire, infatti.
Si morse la lingua, interrompendosi improvvisamente.
Non era
carino aggiungere un ma o un però dopo che lui le stava
offrendo tutto quello.
Il fatto
era che non riusciva a trattenersi, sapeva che prima o poi sarebbe
scoppiata.
Ma doveva
tentare di non darlo a vedere, doveva inscenare che tutto andava bene e
sorridere.
«Solo
che cosa?» Shinichi voleva delle spiegazioni, ma lei non
voleva coinvolgerlo.
Tirò
fuori il cellulare e lo puntò sul fiume.
«Ci
vuole una foto» dissimulò, sperando che si bevesse
quella bugia.
Scattò
un paio di fotografie, mentre con la coda dell’occhio
controllava che lui non facesse più domande.
Ma Mimi non
capiva che era così pura e spontanea, alle volte, che le si
leggeva negli occhi cosa provava.
Shinichi,
infatti, non demorse.
«Sei
distante» constatò, continuando ad essere serio.
Voleva
affrontare il discorso a tutti i costi, ed era meglio che lo
rassicurasse subito perché non aveva voglia di parlare.
«Non
è vero, non sono distante» negò,
sforzandosi di utilizzare un tono allegro.
Continuò
a scattare foto che neanche più guardava, fino a quando il
ragazzo non la prese da un braccio.
Mimi
boccheggiò, alzando gli occhi castani su di lui.
Solo Tai la
prendeva con quell’ardore, solo lui riusciva a trasmetterle
tutto con un solo tocco, solo lui e lui soltanto poteva toccarla in
quel modo.
Si
scansò di riflesso e lo guardò interrogativa.
«Sei
distante da tutto, sei con la testa tra le nuvole. Lo sei fin da quando
ti ho conosciuta» spiegò Shinichi con la voce che
mano a mano si spegneva
Si
passò una mano tra i capelli e glielo disse.
«Sembra
che ti manchi qualcosa»
Mimi si
sentì tremare, trafitta nel profondo. Perfino lui si era
accorto che vagava a metà, senza una parte di sé
che la completava, una parte di sé che le mancava e che
cercava invano.
Aveva
ragione a dire che aveva sempre la testa sulle nuvole,
perché era così fin da quando era bambina, era
una sua specialità esserlo, e adesso più che mai.
La ragazza
abbassò lo sguardo.
Sentiva un
dolore lacerante vicino al suo cuore spezzato e Shinichi non avrebbe
mai potuto rimetterne insieme i pezzi e curare quella ferita.
Tentò
di ridacchiare, prendendolo in giro.
«Non
essere tragico»
Ma lui non
aveva voglia di scherzare.
«Sono
realista»
E aveva
ragione. Shinichi aveva ragione su tutto. Lei era distante, lo era da
sempre stata. C’era fisicamente, ma era assente con la testa
e con il cuore.
Non
riusciva nemmeno ad avvicinarsi perché era ancora vivido in
lei il modo in cui Tai l’abbracciava.
«Mimi,
se c’è qualcosa che non va puoi dirlo»
Era
così paziente e disponibile. Non meritava una persona che
non riusciva a dargli quello che voleva, che non riusciva ad essere
sua, che non riusciva ad apprezzare ogni suo gesto.
«Quando
ci sarà qualcosa che non andrà, allora puoi
starne certo che lo farò» gli promise, e poi gli
accarezzò un braccio.
Shinichi
aveva bisogno di qualcuno che lo accettasse per quello che era.
Lei invece
di che cosa aveva bisogno?
Doveva
smetterla di compiangersi e guardare avanti perché il
passato non glielo avrebbe potuto restituire mai nessuno oppure era
destinata a rimanere bloccata in un limbo di emozioni che non le
permettevano di vivere?
Ad un
tratto il suo cellulare vibrò. Lo prese in mano e lesse il
messaggio.
Era come se
il tempo si fosse fermato e i rumori si fossero improvvisamente spenti,
perché, adesso, era il battito del suo cuore che sentiva
rimbombare.
*****
Fece un
gran respiro prima di entrare in sala. Il fatto che lui non avesse
voluto parlare con lei l’addolorava sempre di più,
e nello stesso tempo qualcosa dentro di sé la spingeva verso
l’altro.
Sora si
passò una mano sulla fronte e fece altri respiri profondi.
Non riusciva a contenersi in situazioni del genere. C’era
qualcosa che la bloccava nell’entrare in quella dannata sala.
Aveva paura di incontrarlo, aveva paura di guardarlo negli occhi, aveva
paura di stringersi a lui.
Il fatto
che Matt non sentisse l’esigenza di parlare con lei
l’uccideva e si sentiva così disperata
perché era consapevole di essere talmente volubile da poter
cedere.
Si morse il
labbro, mentre la musica terminava. Era in ritardo di
mezz’ora e forse l’avrebbero pure mandata a casa.
Non sapeva
che cosa fare. Non sapeva se era meglio entrare e fare finta di niente
oppure girare i tacchi e andarsene il più lontano possibile.
Si trovava
nella più grande delle difficoltà, e la
consapevolezza che a due passi da lei ci fosse Victor che probabilmente
l’aspettava, peggiorava la situazione.
Doveva
essere razionale, non poteva lasciarsi coinvolgere completamente solo
perché lui non voleva sentirla.
Doveva
essere matura, affrontare le situazioni con calma e prudenza, non
doveva lasciarsi andare per nessuna cosa al mondo.
Il pensiero
di Matt che continuava ad evitarla le tartassava la mente e non si
accorse che, pian piano, le sue gambe si muovevano in direzione della
sala da ballo.
Quando se
ne rese conto, aveva ormai aperto la porta.
Alcune
persone le lanciarono uno sguardo curioso, ma l’unica cosa
che vide fu il sorriso sorpreso di Victor.
Sentì
improvvisamente il cuore in gola e i battiti accelerati.
Perché
hai dovuto fare in modo che io aspettassi così
impazientemente di godere di un altro sorriso?
Il ragazzo
le si avvicinò e si guardarono negli occhi. Era bellissimo
vestito con quella maglietta a maniche corte e quei pantaloni della
tuta. I lunghi capelli color grano erano appuntati in una coda bassa e
i suoi occhi grigi la scrutavano.
«Sei
in ritardo, Take» constatò, mentre lei si portava
una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Sì,
scusa, mi ha chiamato il mio migliore amico che sta a Kyoto. Non lo
vedo da tanto tempo ed è tornato oggi»
Non sapeva
nemmeno perché si stesse giustificando, ma era partita da
sola, un po’ come faceva sempre quando si trovava in sua
presenza.
Victor
scosse la testa con un sorriso, facendole intendere che non importava
realmente se aveva ritardato, ciò che contava era che fosse
venuta.
«Allora
sei perdonata» disse infatti, e fece appena in tempo a
prenderla per mano e portarla al centro della sala che
l’altra musica partì.
Sora si
attaccò al suo petto e si lasciò guidare da lui.
Si muoveva talmente bene da farle girare la testa. Le aveva posato una
mano sul fianco e la stringeva, facendo aderire bene i loro corpi.
Sentiva le
farfalle allo stomaco, era come se glielo volessero mangiare.
Era
un’attrazione letale che la stava portando lentamente alla
deriva e non riusciva più a risalire su.
Lui
l’abbracciò da dietro i fianchi e la fece muovere
dolcemente. Sora chiuse gli occhi e lasciò andare
all’indietro la testa, sopra la sua spalla.
Forse Matt
non si rendeva conto di cosa aveva scatenato.
Era una
lotta imponente tra ragione e passione e non riusciva a capire chi era
giusto ascoltare.
Lui le dava
così sicurezza e conforto anche solo toccandola, e non
poteva fare a mano di perdersi tra quelle braccia.
La canzone
straniera raccontava di una proposta d’amore, di un bacio
rubato che aveva il sapore di un bicchiere di vino.
Stava
impazzendo, lo sentiva.
Lentamente,
i suoi sensi la stavano abbandonando, e lei si sentiva meno che niente
stretta a lui.
Quando la
canzone terminò, il ragazzo
l’abbracciò, e non appena sentì forte
quella presa su di lei, aprì gli occhi.
Quel tocco
la riportò alla realtà, e con timore si
liberò rapidamente.
Senza
guardarlo in faccia, corse verso l’uscita della sala. Il
cuore le batteva frenetico e sentiva le gambe cedere.
Arrivò
allo spogliatoio e si guardò allo specchio. Era rossa e
stravolta, i capelli erano scompigliati ed aveva in volto
un’espressione preoccupata.
Non poteva
starci, non doveva farlo assolutamente.
Mentre si
sciacquava il volto e le braccia, pensava a Matt e tutto quello che
avevano fatto insieme.
Nonostante
lui fosse distante, non poteva farlo.
Imprecò
disperata, mentre afferrava una canottiera dalla sua borsa e si
cambiava velocemente.
Dio, quello
che aveva sentito era così travolgente da non vederci
più.
Avrebbe
voluto stare stretta a lui per tutto il giorno.
Oh Dio,
aiutami, sto impazzendo.
Si mise un
leggero cardigan, dopodiché si alzò per
sistemarsi un po’ il trucco e i capelli.
Doveva
andare via di lì, doveva farlo prima che...
La porta
dello spogliatoio si aprì, e lui entrò
silenziosamente.
No, non
questo, ti prego, tutto tranne questo...
«Sora»
la chiamò, e lei si sentì morire.
Si
voltò guardandolo spaventata, mentre quello si avvicinava.
«Victor»
mormorò, sentendo la gola secca.
Era
così imbarazzata da non riuscire a sostenere il suo sguardo
per più di qualche secondo e sentiva un calore immane
diffondersi per tutto il corpo.
Lui
avanzava sempre di più e automaticamente lei retrocedeva
impaurita.
Doveva
inventare una scusa e andarsene via al più presto,
sì, doveva dire che aveva un appuntamento con i suoi amici e
che non poteva trattenersi.
Non
riusciva a spiccicare una parola.
Era
immobile, indifesa di fronte a lui.
Non
riusciva a fare un passo.
Cosa le
stava succedendo?
Non
riusciva a non provare il fuoco quando lui la guardava.
Victor fece
un respiro profondo e poi si passò una mano tra i capelli.
Non era l’unica ad essere nervosa, e qualcosa le disse che
era in trappola e che la resa dei conti era arrivata.
«Sai,
pensavo che non avrei mai provato tutto questo se non ti avessi
conosciuta» le confessò, mentre lei sentiva il
cuore battere sempre più veloce.
«C-cosa?»
le chiese balbettando, e forse era un po’ masochista a
volerlo sapere.
Il ragazzo
le sorrise imbarazzato. Dopo poggiò la mano aperta sul muro
e si fece ancora più vicino.
Sora si
trovava lì, impotente, bloccata senza via d’uscita.
E forse una
parte di sé non voleva realmente andar via.
«Quando
ballo con te sento qualcosa che non ho mai sentito, qualcosa che mi
lega inevitabilmente a te» mormorò lui,
guardandola negli occhi castani.
«Tu...
tu sei speciale per me... Lo sei da sempre stata, da appena ti ho
vista, da appena abbiamo parlato»
Sentiva il
cervello in pappa, era così talmente presa da lui, da quelle
parole, da quelle labbra che gli avrebbe fatto fare qualunque cosa.
Deglutì
lentamente.
«Victor...»
provò a parlare, ma non ne uscì altro che un
sussurro spezzato.
Era
lì, era impazzita, era completamente andata.
E lui era
vicino, troppo vicino.
«Mi
piaci, Sora, davvero tanto e... se non te lo dicevo diventavo
pazzo» fece un respiro profondo, lui, quando le disse quelle
cose.
Le stava
confessando tutto, e Sora forse se lo aspettava perché il
loro rapporto era nato e cresciuto di pari passo.
L’attrazione che sentiva per lui era reciproca, lo era da
sempre stata, e lei lo sapeva, lo sentiva, perché era sempre
stata brava in quelle cose.
Era per
questo che si sentiva da sempre legata a lui.
Però
non poteva, si disse, tentando di tornare con i piedi per terra. Lei
stava ancora con Matt, non poteva fargli una cosa del genere.
Per quanto
la loro relazione fosse quasi giunta al capolinea, era Matt, era Yamato
la persona che voleva, che aveva sempre voluto, fin da quando andavano
a scuola, fin da quando lo aveva conosciuto a Digiworld.
Matt era il
suo unico e vero amore e non poteva mandare tutto a monte per
un’attrazione che sarebbe sfiorita alla prima occasione.
«Io...
io però... adesso io non...» provò a
spiegarsi, ma non riusciva a parlare.
Era
talmente ipnotizzata, era talmente presa da lui che ogni parola
risultava superflua.
Victor
sospirò, spostando lo sguardo da un’altra parte.
Era un ragazzo loquace e sapeva che lei era già impegnata,
che ciò che le aveva rivelato l’aveva messa in
difficoltà. Ma non potevano continuare a fingere che tra di
loro non ci fosse niente.
«Stai
ancora con lui?»
chiese duro.
Odiava il
fatto che lei potesse stare con un altro, che non riuscisse a lasciarsi
andare, che dovesse rispettare una persona che non aveva rispetto per
lei e i suoi sentimenti.
Sora emise
un sospiro e abbassò gli occhi.
«Sì»
Stavano
insieme, ma era come se fossero due estranei.
Si
rattristì, sentendo le lacrime premere per uscire. Le faceva
così male che lui non fosse presente, era un dolore che la
distruggeva.
«Lo
ami?» Victor la guardava serio.
Se lo amava?
Sì,
lo amava, amava Matt e tutto ciò che faceva parte di lui,
della sua persona, del suo essere.
Amava Matt
e il modo in cui cantava, il modo in cui suonava, il modo in cui
scriveva le sue canzoni.
Amava Matt
e il modo in cui la baciava, l’abbracciava, il modo in cui
facevano l’amore.
Le mancava
tanto fare l’amore con lui.
I suoi
occhi erano lucidi e pronti a scoppiare.
Lo amava
ancora, non aveva mai smesso di farlo probabilmente, ma quel silenzio,
quell’estraneità che si era creata tra di loro era
qualcosa di insopportabile.
Più
si allontanava da Matt, più si avvicinava a Victor.
Ogni volta
che Matt le voltava le spalle, lei si lasciava cullare da quelle
emozioni.
«Oh,
Victor, per favore...» lo stava pregando affinché
non lo facesse, perché era talmente vulnerabile, era
talmente disperata che qualsiasi passo in più le sarebbe
costato caro.
Voleva
tanto rispondergli che amava Matt e nessun’altro, ma non
riusciva.
Tutto
ciò che provava adesso era più forte.
Il ragazzo
le posò una mano sulla guancia e le sorrise.
«Meriti
tanto amore, Sora»
Poteva
sentire il cuore frantumarsi lentamente. Lui sapeva sempre di cosa lei
aveva bisogno, sapeva capirla, sapeva rispettarla.
L’amore...
Una volta
era il suo simbolo, glielo avevano affidato quando aveva appena undici
anni e lei aveva avuto così tanta paura che non sapeva che
cosa farne, non sapeva come si facesse ad amare.
Poi aveva
conosciuto Matt ed aveva imparato.
Ma ora lui
non c’era, era così lontano da lei,
così distante da tutto quello che le stava succedendo...
Victor si
era avvicinato alle sue labbra e Sora non riuscì a fare
niente per impedirlo. Lui la baciava e lei non si spostava, non faceva
un passo.
Non appena
il ragazzo la spinse contro il muro e la fece aderire ancora di
più a sé, schiuse la bocca, arrendendosi
completamente.
Le lingue
si accarezzavano, ora lente, ora voraci e la sua era così
calda, così giusta in quel momento che non
desiderò essere da nessun’altra parte.
Si stavano
baciando ed era qualcosa che le ardeva dentro, era qualcosa di cui
aveva bisogno.
Gli aveva
stretto i capelli tra le dita e non aveva capito più niente.
Non sapeva
né dove si trovasse, né che giorno fosse.
Era tutto
così scollegato ed annebbiato, poteva sentire solo i battiti
del suo cuore scandire il tempo.
Quando
tornò alla realtà, si staccò
improvvisamente e puntò lo sguardo sul pavimento.
Aveva il
fiato corto e le labbra gonfie. Il suo cuore era impazzito e lei
credeva di svenire.
Oh, no.
Non poteva
crederci.
Era
successo veramente.
Cosa
diavolo aveva combinato?!
Victor la
guardava e aspettava una sua reazione, ma aveva voglia di scappare il
più lontano possibile.
Non poteva
credere di averlo fatto veramente.
«Io...
devo andare, adesso» biascicò a voce bassa, poi si
scansò da lui e andò a recuperare la sua borsa.
Si era
lasciata così andare da aver scatenato in lei la
più pericolosa delle tempeste.
Perché
era stata così debole?
Il ragazzo
la raggiunse.
«Ti
accompagno?» tentò, anche se sapeva che era tutto
inutile e che lei adesso avrebbe dovuto fare i conti con sé
stessa.
Sora,
infatti, negò con la testa e, senza guardarlo,
uscì dallo spogliatoio fino ad arrivare alla porta
principale.
Rilasciò
tutta l’aria che aveva trattenuto e un groppo le si
formò in gola.
Che cazzo
aveva combinato?
Come
diavolo aveva potuto lasciare che accadesse?
I sensi di
colpa la pervasero, erano così forti che la stritolavano e
le facevano male.
Aveva
tradito Matt.
Lo aveva
tradito.
Si
fermò, sentendo la testa girare.
Aveva
lasciato che quelle emozioni la facessero sua, che la travolgessero
senza che potesse liberarsi.
Non era
riuscita a contenersi, era stata una stupida.
Come aveva
potuto fare una cosa del genere?
Si sedette
in una panchina e cominciò a piangere, logorata dai sensi di
colpa che l’attanagliavano crudelmente.
Sciocca,
Sora, sei una cazzo di sciocca.
Voleva
scomparire, voleva tornare indietro nel tempo e fare in modo che non
succedesse.
Il volto di
Matt che le sorrideva si sovrappose nella sua testa, e lei si
tastò le labbra con le mani che le tremavano.
Poteva
sentire ancora il sapore di Victor.
Alzò
gli occhi al cielo, le lacrime che sgorgavano a fiumi.
Che cosa
aveva fatto?
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