Crepuscolo

di koan_abyss
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Crepuscolo


“Ti muovi?!” Stefano e Luca lo chiamavano dal cancello già da un paio di minuti.

“Sto arrivando!” strillò Mattia in risposta, affacciandosi dalla porta d’ingresso. “Non prendiamo le bici?” chiese.

“C’è troppo fango,” rispose Stefano, in tono risentito.

“Sta già asciugando!”

“È ancora bagnato.”

“Sua mamma non gliel’ha lasciata prendere,” spiegò Luca.

Stefano gli rivolse un’occhiataccia.

Mattia sbuffò e finì di allacciarsi gli scarponi che usava quando andava a far legna nel bosco con suo padre, poi uscì dalla porta della vecchia stalla che ora era un garage.

Stefano e Luca si erano spostati lungo la strada e si incamminarono fino al bivio, per aspettarlo dopo aver attraversato la provinciale, in direzione del rio. Stefano aveva anche lui gli scarponi, Luca un paio di vecchie scarpe da ginnastica di suo fratello maggiore, alte fino alle caviglie.

Mattia li raggiunse, le mani affondate nelle tasche del giaccone.

Finché il tempo lo permetteva uscivano tutti i pomeriggi, in autunno, dopo la prima settimana di scuola, che di solito serviva a riprendere il ritmo e a riabituarsi alla sveglia alle sei e mezza. Quell’autunno, poi, veniva un certo senso d’urgenza, con l’idea di star fuori di casa: meglio approfittare di ogni occasione, finché si poteva.

“Dove andiamo?”

“Boh? Verso il ponte, fino alla chiusa?” propose Luca.

“Perché ci hai messo tanto?” chiese Stefano.

“Stavo finendo matematica,” rispose Mattia.

“Noi non abbiamo niente per domani,” si vantò Stefano.

“La Poggi non vi dà mai niente!” si lamentò Luca calciando le foglie sul lato della strada.

Superarono il ponte sul rio in fretta. Le mucche della cascina del Paolo pascolavano nel prato dall’altro lato della strada, dietro i fili elettrificati. Qualcuna alzò la testa verso di loro, curiosa. Il toro, nel suo recinto più piccolo, li seguì a distanza fin dove la rete glielo permetteva.

I tre ragazzi lasciarono la strada e presero il sentiero in mezzo ai pascoli che passava dietro la cascina. Rivolsero svogliati cenni di saluto a Martina, la figlia del Paolo, che giocava col telefono mentre teneva d’occhio le bestie. Proseguirono accanto alle file regolari dei pioppi e alle arnie blu acceso in mezzo ai tronchi chiari.

Il terreno era morbido, non proprio fangoso, almeno lì, dove il sole del primo pomeriggio non era nascosto dalla collina. I pascoli lasciarono presto il posto a piccoli appezzamenti di mais, mentre i ragazzi si sfilavano i giacconi e se li legavano in vita.

“È rimasta qualche pannocchia,” disse Mattia.

“Prendine. Le portiamo agli asini,” disse Luca guardando tra gli steli secchi.

“Non ho voglia di andare fino dagli asini,” protestò Mattia. In realtà non aveva nessuna voglia di infilarsi in mezzo al mais: era probabilmente pieno di ragni e cimici, visto che non aveva ancora fatto abbastanza freddo da ucciderle, anche se era quasi fine ottobre.

Stefano controllò il suo orologio digitale. “Sono le quattro, non facciamo in tempo ad andare fino là, comunque.”

“Se avessimo preso le bici…”

“Ma non le abbiamo!” scattò Stefano.

“Dillo a tua madre.”

“Vaffanculo.”

Mattia continuò ad osservare il mais e gli spazi vuoti che ogni tanto si intravedevano dove gli steli erano coricati. “Mi hanno detto che a Castelnuovo hanno fatto un labirinto di balot di fieno, in questo posto che vende zucche da intagliare. Come si fa in America,” disse, un po’ per distrarre gli amici dal litigio.

“Sì, l’ho sentito anch’io,” rispose Luca. “L’anno scorso c’era anche un tizio con una maschera da spaventapasseri che inseguiva la gente nel labirinto.”

“Non so se quest’anno lo faranno,” disse Stefano. “Quest’anno nessuno fa niente.”

“Magari fanno entrare poche persone per volta,” fece Mattia, stringendosi nelle spalle. “A me piacerebbe, una cosa del genere. Intagliare le zucche giganti, andare in giro in costume.”

“Mattia vuò fa’ l’americano,” lo prese in giro Stefano.

“Peggio, vuole fare Superman!” rise Luca. “Ce l’hai ancora quel costume?”

“Fottiti,” gli rispose Mattia. Era troppo grande per vestirsi da Superman. Ma in jeans, scarponi e giubbotto rosso, in mezzo ai campi di mais, poteva far finta di essere Clark Kent a Smallville. Non era necessario che i suoi amici lo sapessero.

“Se vuoi fare qualcosa in stile Halloween, possiamo andare fino ai campi delle zucche,” disse Stefano, indicando il sentiero che girava a destra, verso l’ombra della collina: le coltivazioni erano sull’altro versante. “Il Massimo ha di nuovo messo fuori quello spaventapasseri con la testa di zucca.”

“Quello di Jack Skeletron?”

“Jack o’ Lantern, si dice!”

“No, dico quello del film! Oh, chissenefrega, lascia perdere…”

“Allora? Andiamo?” chiese Stefano, già girato di tre quarti.

“Ma non era già tardi?” ribatté Mattia.

“Hai paura di un vecchio spaventapasseri?” chiese Luca con un sorriso stupido.

“Oggi sei davvero stronzo,” gli rispose Mattia.

Presero a spintonarsi lungo il sentiero.

“Ve la fareste sotto entrambi, se il vento muovesse il vecchio Testa di Zucca mentre gli siete vicini!” disse Stefano, camminando all’indietro.

“Mai quanto te!”

“Sì, vorrei vederti!”

“Non mi fa mica paura, è finto, bambocci. Non è neanche tanto spaventoso: fa solo schifo!”

Lo spaventapasseri del Massimo era una piccola attrazione per i bambini del paese: spuntava tutti gli anni in occasione della Fiera della Zucca, a fine settembre. Con i suoi abiti colorati, pieno di paglia profumata e la testa fatta con una zucca intagliata e laccata, faceva da simpatica mascotte nel weekend della fiera. Tutti facevano a gara a fotografarlo, durante la passeggiata naturalistica che il comune organizzava ogni anno tra i campi di zucche DOCP. Ma col passare delle settimane, lasciato alle intemperie, i suoi abiti si coprivano di polvere e sporco, e la zucca trattata si raggrinziva a causa degli sbalzi di temperatura. Verso fine ottobre il prima amichevole spaventapasseri era molto più in tono con Halloween dei ridicoli pipistrelli e ragni di cartoncino che addobbavano il salone comunale.

I ragazzi superarono la cassetta delle lettere abbandonata (la casa che avrebbe dovuto ricevere la sua posta era crollata decenni prima) e poi il vecchio tronco rovesciato. Le sue radici nere avevano sollevato un grosso lembo di terra e ora sembrava di guardare l’ingresso di una grotta a misura di bambino che si apriva proprio sul limitare del sentiero. Il mais li accompagnava sull’altro lato della strada.

Scalare la collina sarebbe stato più veloce, ma anche più faticoso. I ragazzi seguirono il percorso che la aggirava, rimettendosi i giubbotti e calpestando erba umida. Qua e là c’era qualche pozzanghera, non di acqua piovana, ma di quella che affiorava dalla sorgente sotterranea, che i guardaparco analizzavano ogni tanto per le attività di biomonitoraggio.

Stefano stava ancora parlando del vecchio Testa di Zucca quando raggiunsero i primi orti. “Mi hanno detto che si sposta da un lato all’altro del campo, quando nessuno lo guarda.”

“Piantala. Non ci fai paura.”

“Infatti.”

“Così mi hanno detto! Nessuno la ha visto, ma lo si può sentire: un fruscio in mezzo al mais…”

“Piantala!”

“Stupidaggini.”

“Pensa, stai camminando per i fatti tuoi, come noi ora, e…” Stefano trascinò pesantemente i piedi nelle foglie che coprivano il sentiero e afferrò Luca per un braccio: “… e lui ti trascina in mezzo agli steli secchi!”

“Sei un cretino!”

“CRAA!”

I tre ragazzi sobbalzarono all’urlo improvviso. Un frullio insistente di ali che sbattevano li raggiunse.

“Ma che è?”

“Lì, quell’orto!”

Sotto un albero accanto a un paio di solchi seminati, c’era una gabbia di quelle per il pollame, e dentro di essa, un corvo che sbatteva freneticamente le ali, terrorizzato dalla loro presenza.

“Che ci fa un corvo in gabbia?” chiese Mattia avvicinandosi. Il corvo cominciò a sbattere contro le pareti della gabbia e lui si affrettò a fare qualche passo indietro.

“Non spaventarlo!”

“Dovremmo liberarlo?”

“Magari è ferito e non può volare. Qui ha dell’acqua e del cibo.”

“Di chi è quest’orto?”

“Non lo so.”

“È di Pinin?” chiese Luca.

Stefano fece cenno di no. “Non ha orti, Pinin. Solo il campo di zucche.”

Si allontanarono riluttanti dalla gabbia e dall’uccello, che smise di agitarsi.

“Ecco, più spaventoso di qualunque spaventapasseri o Scream, o pagliaccio assassino, sarebbe incontrare il Pinin,” disse Mattia.

“È solo un vecchio pazzo,” rispose Stefano scrollando una spalla. Ma tutti e tre avevano accelerato il passo. “Non si vede in giro da un po’.”

“Andiamo a raccogliere qualcuna delle sue zucche!” propose Luca.

“Sei scemo? Non ci penso proprio, a rubare le zucche del Pinin!” ribatté Mattia.

“Non sarebbe rubare: ha lasciato andare il campo, le ha lasciate a marcire,” rispose Luca. “Dai, ne possiamo prendere un paio da far rotolare giù dalla collina! Farle spiaccicare sull’asfalto!”

“Non so voi, ma io non ho voglia di arrampicarmi in cima alla collina trasportando zucche marce. Sentite che odore!” disse Stefano.

I ragazzi annusarono l’aria umida e fredda: c’era in effetti un odore dolciastro di marciume, oltre l’odore delle foglie bagnate, del letame, della pollina e del fumo in lontananza, ma avrebbe potuto benissimo provenire da un cumulo di compost nei dintorni.

Oltrepassarono il campo di Pinin, i tralci delle zucche intrecciati alle erbacce che nessuno aveva strappato, i fiori appassiti che nessuno aveva fatto in pastella. Qua e là si intravedeva qualche zucca verde o gialla e persino quelle arancione acceso che andavano bene solo per essere intagliate, invece che da mangiare: tutte lasciate indietro.

Il Pinin era strano, vecchio e iroso. Gridava e diceva cose senza senso, per loro, quando era in coda alla posta o parlava con la panettiera, e non nel senso che faceva discorsi di politica o si lagnava dei suoi vicini di casa. Forse partiva da lì, ma nel giro di poco era così furioso che sbavava, quasi, sproloquiando di come tutti avrebbero dovuto pagare, prendere delle botte, venir gettati in galera o in un fosso; di come un giorno avrebbe preso un fucile e sparato a tutti quei bastardi che non facevano niente dalla mattina alla sera in comune, in Regione, nei centri di accoglienza, alla stazione dei pullman. I ragazzi in gruppo alla fermata del bus ridevano spesso di lui, ma solo dopo che se n’era andato a infastidire qualcun altro.

“Perché avrebbe dovuto lasciar marcire le sue zucche?” chiese Mattia.

“Be’, non c’è stata la fiera, quest’anno. Lui non le vende altrove. Nessuno vuole comprare da lui.”

“Alla fiera la gente compra da lui.”

“Ma chi viene alla fiera non lo conosce: non sanno che è pazzo!”

“Eccolo!” esclamò Stefano. Mattia e Luca si guardarono attorno preoccupati, ma Stefano stava indicando solo lo spaventapasseri del Massimo, il vecchio Testa di Zucca. “È particolarmente raggrinzito, quest’anno,” commentò.

“Nessuno lo ha visto appena posato, con gli abiti puliti, visto che non hanno fatto la passeggiata,” disse Mattia.

Lo spaventapasseri pendeva un po’ in avanti, la zucca pallida e in parte collassata su se stessa. Alcuni anni Testa di Zucca aveva come mani guanti colorati imbottiti di paglia; altri anni, come questo, sottili rametti nodosi che sembravano proprio dita arricciate. Curiosamente, era posizionato con una mano puntata verso la collina, invece che nella classica posa a braccia spalancate.

Mattia lo immaginò involontariamente muoversi nel mais, scostare foglie secche e ragnatele, producendo scricchiolii e fruscii. Se doveva essere onesto, Mattia riteneva che Testa di Zucca raggiungesse il suo massimo grado di terrore ben dopo Halloween: era un vero peccato che dopo il 31 ottobre nessuno si curasse più di lui, quando a fine novembre il terreno attorno al palo che lo sorreggeva era nero e gelato, quando tutti gli alberi avevano rami spogli e artritici come le sue dita, quando il cielo era basso e grigio e i suoi abiti irrimediabilmente stracciati, ogni traccia del suo aspetto gioviale persa per sempre, nella parodia crudele del suo sorriso.

I tre ragazzi si fermarono a contemplare in silenzio la meta del loro pellegrinaggio.

“Dovremmo andare,” disse poi Stefano, guardando ancora il suo orologio. “Devo essere a casa entro le sei.”

“Sì, anch’io. Non va mai bene: è sempre ‘non fai altro che star davanti a quel computer’, ma appena mi avvicino alla porta diventa ‘non fare tardi!’” Luca diede un calcio a una zolla di terra.

“‘Di questi tempi, poi, meglio non andare troppo in giro!’” aggiunse Mattia, facendo il verso ai suoi genitori.

Stefano ridacchiò, sfregandosi le mani e cacciandole poi nelle tasche del giubbotto. “Dai.”

Si mossero verso il sentiero, inseguendo gli ultimi raggi di sole che ormai non scaldavano più come quando erano usciti di casa. Si ritrovarono presto a costeggiare il mais.

Il corvo aveva di nuovo preso a sbattere contro le pareti della gabbia, quando gli erano passati davanti. Luca aveva detto che avrebbe chiesto a suo padre di chi era quell’orto, e poi erano rimasti in silenzio.
Con la luce che svaniva in fretta e l’aria che si raffreddava, Stefano non sembrava più in vena di scherzare su spaventapasseri che se ne andavano in giro.

Mattia aveva gli occhi fissi sui propri scarponi, quando Stefano si fermò, bello e impalato nel mezzo del sentiero; gli andò a sbattere contro. “Ohi, che fai!” Poi sollevò lo sguardo. “Oh, cazzo.”

“Che ci fa libero, Zeus?” chiese Stefano.

A venti metri da loro un grosso cane bianco li puntava, le orecchie marroni sollevate. Mandò un latrato basso e abbaiò una volta.

“Dev’essere scappato,” rispose Luca. Zeus era il dogo argentino del maneggio, ed era famoso perché mordeva chiunque gli si avvicinasse, se i suoi padroni non erano vicini.

Il cane trotterellò verso di loro.

“Sta venendo verso di noi,” disse Stefano.

“Non è cattivo,” rispose Luca, “morde perché ha paura, se ti avvicini troppo.”

“È lui che si sta avvicinando!” replicò Mattia.

“Se corri ti insegue. Ignoratelo,” continuò Luca.

“Ma blocca la strada,” fece Stefano.

“Ignoratelo, ho detto!”

Mattia chiuse gli occhi per un istante e afferrò il giubbotto di Stefano. Era praticamente appiccicato a lui, ancora, e per tutta la pretesa di sapere come quei quaranta chili di muscoli e denti avrebbe reagito, anche Luca si era fatto vicino vicino.

Zeus si fermò di nuovo a due metri da loro.

“Passiamo oltre senza guardarlo,” propose Luca, il tono nervoso.

“Sei cretino? Io non gli passo vicino!” rispose Stefano e Mattia era assolutamente d’accordo.

“Giriamo a destra,” iniziò, spostando il peso da un piede all’altro, “facciamo il giro largo—”

Un rametto secco si spezzò sotto il suo scarpone. Zeus si acquattò a terra e abbaiò una volta, pronto a scattare avanti.

Stefano si mise a correre. Mattia sentì il suo giubbotto svanirgli da sotto le dita, poi Luca lo spintonò avanti, gridando: “Via!”

Si lanciarono verso il campo di mais, saltando il piccolo fosso. Zeus latrò dietro di loro.

Mattia perse subito di vista Luca, poco dietro di lui alla sua sinistra, mentre si faceva strada in mezzo al mais, inciampando sul terreno irregolare e gli steli secchi e spezzati. Stefano era davanti a lui, il giaccone che svolazzava e si impigliava mentre strillava una serie di parolacce per cui sua madre lo avrebbe messo in castigo per una settimana.

Mattia si ritrovò la faccia piena di ragnatele: inciampò e cadde, mandando un urlo soffocato di disgusto. Si ripulì convulsamente il viso rialzandosi il più in fretta possibile.

Dei suoi amici non c’era traccia. Riprese a correre, poi si costrinse a fermarsi e ascoltare, cercando il suono delle zampe del cane o i suoi latrati lamentosi. Ma l’unica cosa che sentiva era il proprio respiro affannato.

Percepì un movimento nel mais e si girò di scatto, alzando le mani. Non c’era niente.

“Ragazzi?” chiamò piano.

Si mise a camminare svelto, quando il movimento si ripeté e nessuno rispose.

Seguì la pendenza del terreno, risalendo il campo verso la collina. I doghi argentini non sono fatti per correre dietro alle prede, e Zeus era grasso e pigro: si sarebbe stufato di inseguirli.

Mattia si sfregò il naso gelato e umido mentre si arrampicava, poi si diede una manata sul braccio per scagliare lontano un ragno. Rabbrividì e continuò a salire.

Si lasciò alle spalle il campo e i suoi steli mossi dal vento, di sicuro non dalle dita di rami di Testa di Zucca.

Non avrebbe dovuto pensarci.

Continuò a salire la riva della collina, arrancando nella boscaglia, tra gli alberi sottili che nessuno si prendeva la briga di tagliare per far legna, su quel terreno così ripido. Sulla cima della collina c’era un boschetto di roveri: da lì forse avrebbe visto gli altri.

Si girò a guardare in basso, a corto di fiato. Cavolo. Correndo aveva deviato verso sinistra, ed era di nuovo all’altezza del campo di zucche. Quale campo di zucche, però, non avrebbe saputo dirlo: non vedeva da nessuna parte lo spaventapasseri, unico punto di riferimento in quella distesa di zucche.

Cercando di orientarsi si spostò di qualche metro, tra l’erba e la boscaglia, calpestando strati vecchi di anni di foglie e rami caduti, e si fermò di nuovo.

Il fruscio di passi non si arrestò con lui.

La puzza di marcio che aveva sentito nel campo lo investì, dieci volte più potente.

Si girò di scatto. Di fronte a lui c’era lo spaventapasseri, come lo aveva immaginato di lì a un mese: gli abiti laceri e neri, la testa piegata in avanti. Ma questa zucca non era secca e sbiadita. Era gonfia e livida, e gli occhi e la bocca spurgavano poltiglia nera, come se fosse sul punto di scoppiare.

Mattia si morse la lingua sobbalzando.

Le braccia dello spaventapasseri penzolavano inerti lungo i suoi fianchi, invece di star spalancate all’infuori; le dita erano quelle, però, rami neri e nodosi. Il fruscio si ripeté e Mattia notò che erano i piedi dello spaventapasseri, i suoi scarponi che sfregavano sui getti di una gaggia, ondeggiando a quaranta centimetri da terra, perché non era piantato su un palo, ma appeso per il collo. La corda che lo reggeva sfregava ritmica sul ramo di un rovere.

Mattia indietreggiò, quando un soffio di vento lo avvolse in una nuova zaffata di marciume. No, di putrefazione.

Mattia perse l’equilibrio e cominciò a urlare.


***


Il Maresciallo Gallo si guardò attorno, alla luce delle torce, rimuginando che quella era la prima volta che era così facile convincere tutti quanti a tenere la mascherina ben posizionata sul naso. Il fetore era terribile, anche nell’aria fredda.

“Allora?” chiese.

“Giuseppe Massa, Maresciallo. Settantasei anni, abitava in una casa in frazione Frassi,” rispose Ferri. “Il sindaco dice che nessuno lo vedeva in giro da un po’, forse da fine settembre, cosa che a prima vista coincide con il grado di decomposizione del corpo.”

“‘Sto povero cristo è morto da quasi un mese e nessuno se n’era accorto?”

“Be’, la gente esce di meno, con la situazione attuale. Massa era anziano, a rischio. E abbastanza ‘orso’ anche in condizioni normali, pare. Forse affetto da demenza senile.”

“E ha scelto di venire a impiccarsi qui.”

“Sì, Maresciallo. Quello è il suo campo di zucche.” Indicò verso i campi al di fuori del ristretto cono di luce, a malapena visibili.

“E il vicino di campo non ha notato che quello del Massa era abbandonato?”

“Eh. Quest’anno non c’è stata la fiera annuale del paese e Massa era anziano. Magari il vicino ha pensato che volesse risparmiarsi del lavoro inutile.”

“Perdere la fiera sarà stato un grave danno economico per il morto?”

“Non saprei. Non credo si diventi ricchi con le zucche, comunque. In ogni caso, Massa aveva una pensione, diceva il sindaco.”

“Mmmh. Forse aveva paura di ammalarsi? Era a rischio, le misure di emergenza che tornano a inasprirsi…”

“È possibile.”

“Chi lo ha trovato, già?”

“Un ragazzino, pare. Ci ha chiamati Germano, quello del maneggio, però: era uscito a cercare il suo cane e ha sentito il ragazzino che gridava. Ha pensato che il cane l’avesse morso, così è corso a vedere.”

“Vorrei vedere che uno non corre, se sente un bambino gridare,” bofonchiò Gallo.

“Comunque, dovremo aspettare l’autopsia, per essere certi del momento della morte,” riprese Ferri.

Il Maresciallo sospirò: voleva dire mesi di attesa. E non avrebbe poi cambiato granché la situazione: difficile che l’autopsia dicesse loro qualcosa sul motivo, per cui Massa aveva scelto di impiccarsi.

“Proprio prima di Halloween,” buttò lì Ferri.

Gallo gemette tra sé e sé. “Dì qualche cavolata su un ‘mistero di Halloween’ o altre stronzate e ti mangio,” ammonì.

Ferri rimase saggiamente in silenzio.

“Vabbè’. C’è altro? Il ragazzino?” chiese Gallo.

“A casa sua.”

“Il cane l’hanno trovato?”

“Sì, a quanto mi risulta.”

“Bene. Manca altro?”

“In effetti,” fece Ferri con una smorfia poco convinta. Gallo si aspettò di sentire altre cavolate. “Non c’entra, col morto, ma… Manca il vecchio Testa di Zucca.”

“E che è?”

“Uno spaventapasseri. Lo mettono per la fiera. Avrei giurato che l’avessero messo anche quest’anno, ma mi sarò sbagliato.”







Note:
Un’evitabilissima (sul serio, sul mio pc si chiama ‘silly spooky short story’) storia di Halloween! Il titolo fa riferimento alla poesia Crepuscolo di Apollinaire.
Sto cercando di scrivere qualche racconto breve ‘stagionale’, concentrandomi principalmente sull’atmosfera. Se volete dirmi cosa ne pensate, ve ne sarei molto grata:)
Era un po' che avevo in mente una storiella del genere, ma la spinta per mettere insieme tutti gli elementi potrebbe essere arrivata da uno dei pacchetti di questo contest (a cui non ho partecipato)
Una precisazione: questa storia è molto specifica, nella sua ambientazione, molto locale, per così dire, quindi ci sono piccoli dialettismi e usanze delle mie parti. È assolutamente voluto.
Faccio assolutamente finta di essere Clark Kent a Smallville, quando sono vicino a del maisXD




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