Assalto frontale

di Cladzky
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Sulla via di casa trovai un’altra formica, nera stavolta, una Lasius niger appunto. Non la vidi per intero all’inizio, solo il suo addome, che ondeggiava qui e là, nel tentativo di infilarsi sotto il pulsante del mio campanello elettrico. Ne avevo abbastanza di esapodi quella mattina e in retrospettiva avrei potuto benissimo ignorarla e filare dentro a mangiare qualcosa, ma per pura deformazione personale provavo un’attrattiva malsana per quell’esoscheletro pregno di emolinfa, che andava a cercare di strisciare in mezzo ai circuiti elettrici sotto il pannello di fianco l’entrata. La avvicinai e quella subito si mise in guardia, estraendo la testa setolata da sotto il pulsante in plastica, allertata dal cambio di odore e vibrazioni che avevo portato nell’aria.

Forse speravo di rasserenarmi dall’esperienza precedente. Le argentine con cui avevo avuto a che fare poco prima erano state così innaturalmente violente da spaventarmi, o almeno, così mi erano parse. In fondo ero appena sveglio, non potevo essere del tutto lucido, era chiaro che fossi eccessivamente paranoico e che le Linepithema humile, in fondo, non avendole mai incontrate prima d’allora, stessero solo agendo come di loro consueto e io mi fossi spaventato per nulla. Forse, mi dissi, anche quei morsi irritanti, in realtà, erano morsicate comuni e avevo fatto una sceneggiata per nulla, ipersensibile come ero, specie la mattina. Ci risi sopra, ma poi smisi, rimuginando. Frattanto, senza darci pensiero, avevo porto la mano e lasciato che la formica nera mi finisse nel palmo. Ponderavo sul fatto che il mio vicino, uomo ben più robusto di me, fosse stato preso da un dolore lancinante quando era stato morso, tanto da finire in terra, seppur per un breve istante e cercando di nasconderlo in seguito. Qualcosa di strano, in fondo, in quelle formiche argentine, che di certo non possedevano la stessa applicabilità di forza nelle mandibole di una Paraponera clavata, doveva esserci. Infine mi rilassai, mentre quella Vespoidea operaia e priva d’ali avanzava timidamente a poggiare le sue zampe sulla mia pelle increspata dai dermatoglifi. Mi ero ricordato infatti -sorridendo al mirare la niger scuotere qui e là le antenne, immobile, ad annusare l’aria come un cagnolino- che, a causa del loro elevato numero di regine, le Linepithema humile possedevano un’altrettanta elevata differenziazione genetica da colonia a colonia, tanto da parere specie differenti e combattersi fra loro per il territorio. Ma certo, pensai, mettendomi una mano sulla fronte, che mi accorsi essere sudata, chiaramente doveva trattarsi di un caso isolato, eccezionale, un codice genetico unico che si era andato a sviluppare in quel singolo nido e che ora era probabilmente morto con esso. Quasi cominciavo a riconsiderare la mia posizione in merito all’eccidio che avevo appena compiuto nel giardino di fianco. Dopotutto le argentine erano particolarmente invasive e portavano all’estinzione di svariate specie nel territorio che vanno ad occupare, a causa della loro caccia di massa. Iniziai a vederla come una buona azione, un favore fatto a tutti i vari coleotteri e ditteri che, chissà, dovevo aver salvato distruggendo quel formicaio.

Feci per carezzare il corpo della niger con la mano destra, libera, ma quel dolore lancinante tornò all’improvviso, partendo dalla mano sinistra, che la reggeva. Scossi la mano come se stesse bruciando e prima che potessi accorgermene l’infiammazione era passata e la formica volata via, atterrando sul vialetto di casa mia. In preda ad una rabbia a me inconsueta, specie per il solito rispetto che provavo per la vita, sollevai il piede e la schiacciai di colpo. Mi resi conto di ciò che avevo fatto solo quando lo sollevai. Che inutile reazione, che inutile assassinio. Aprii la porta ed entrai, sconsolato, la mano tremante, fredda, come paralizzata, con il morso che cresceva a vista d’occhio, stretta nella mano destra. Richiusi la porta, non prima di aver gettato uno sguardo al cadavere che avevo lasciato indietro, con le zampe ora scontorte, rivolte verso il cielo, quasi stesse a pregare, con l’ultimo respiro che sfiatava dai suoi spiracoli ai fianchi, chissà quale divinità invertebrata, muoversi un poco, seppure impercettibilmente. Come potesse essere viva, seppure morente, dopo uno schianto del genere era oltre ogni mia concezione.

Richiusi la porta e andai in cucina. Non avevo ancora fatto colazione. Accesi la radio e girai la manopola. Trovai un notiziario e lasciai parlare il conduttore mentre cercavo di prepararmi qualcosa. Mi ero collegato giusto in tempo per i servizio di apertura, ovvero l’allegro omicidio di una giovane coppia in qualche città che non avevo mai visitato: il modo ideale per iniziare la domenica mattina. Mi diressi alla dispensa ed ebbi dubbi sull’aprirla o meno. Nella mia testa vagavano ancora le immagini di quel mostruoso mare di gambe rossicce, che si accalcavano l’una sull’altra, nel loro trasportare, instancabilmente, corpi simili a vespe prive d’ali. Mi giudicai uno stupido e la aprii. Nulla di inconsueto. Presi quel che mi serviva e andai a poggiare tutto sul tavolo.

―Passiamo ora al nostro operatore sul posto della piazza principale, in cui si sta svolgendo la protesta dei lavoratori e i sindacati contro le direttive del governo, definite fasciste…― Fu tutto quello che riuscì a capire prima di disinteressarmene completamente. Forse sbagliavo, ma mi sembrava tutto troppo complicato e lontano per potermi riguardare, soprattutto considerando che non facevo parte né del governo né dei lavoratori ormai. Misi a bollire l’acqua per il tè. Mi tornò alla mente la fine atroce che facemmo fare al nido e optai per spegnere il fuoco e buttare la bustina subito. Sorseggiai un buon tè freddo al limone.

“Questa storia mi sta facendo impazzire” Pensai, mentre prendevo le uova. Avevo intenzione di farle sode e invece finì, per lo stesso timore di prima, a consumarle crude “Neanche fossi tornato dalla guerra. Devo calmarmi”.

Mi tirai uno schiaffo da solo. Di solito nei film funzionava, tanto quanto mangiare uova crude, ma nessuna delle due si dimostrò salutare per me. Cercai di razionalizzare la cosa, mentre andavo a rovistare nuovamente nella dispensa, cercando da che mangiare al volo. Presi una mela e pensai, ma mi cadde. L’avevo afferrata con la sinistra, che, notai, mi tremava ancora. Notai anche che il morso dell’argentina, datomi ormai più di mezz’ora fa, era ancora visibile e non accennava a sparire. Quei due segni parevano il morso di un vampiro. Non resistetti alla tentazione e, pur sapendo dell’inutilità del gesto, me li grattai. Il bruciore era sparito, ma restava un leggero, perpetuo, prurito. La mela era caduta sul parquet in legno. La ripresi, con la destra, e me la rigirai. Constatai la sua interezza e le diedi un morso. Quel buon sapore mi aiutò non poco. Dovevo assolutamente pensare ad altro. Ci sarebbero state altre occasioni per indagare su quegli avvenimenti, ma non era il caso quella mattina.
Uscì a prendere il giornale e l’ultimo numero della rivista di cui avevo bisogno. Quando approcciai l’edicolante era chinato dietro il bancone.

―Maledetti insettacci…―

―Formiche?― Fu la prima cosa che dissi, sgranando gli occhi.

―Oh― Disse lui, sorpreso, rialzandosi e forse sorprendendosi ancora dall’espressione che avevo stampato in faccia. Ero veramente esasperato e mancava ancora molto a mezzogiorno. Di questo passo sarei diventato un guscio vuoto entro sera. Lui spiegò, brandendo uno scacciamosche ―No, vespe.

―Meno male.

―Meno male una sega― Commentò lui, accigliato ―Queste son pure peggio. Potessi sapere da dove vengono…

Una mi volò accanto la guancia, anzi, vi ci si posò sopra. Non mi agitai, sapevo che non era il caso. L’edicolante, d’altro avviso, mi guardò per un momento come un lebbroso, per poi prendere il coraggio e lo scacciamosche a due mani. Non sospettosa di nulla, la piccola Vespula germanica stava grattandosi spensieratamente le antenne segmentate, agitando l’addome telescopico che pulsava veloce quanto lo scorrere della sua linfa vitale.

―State fermo― avvertì l’edicolante. Vibrò il colpo subito dopo. Portai la mano sinistra a pararlo e riuscii ad afferrare l’asticella prima che potesse cogliere il bersaglio. Nello stringere sentii il bruciore dei due morsi tornare a bruciare. La germanica, invece, come un piccione spaventato volò via, ma, non essendo davvero un piccione, ne approfittò anche per affondare il suo pungiglione velenoso nella guancia, ritrarlo e fuggire, ronzando via dalla mia esistenza. Io l’avrei ricordata, anche se per poco. Data la memoria ancora ignota delle vespe droni mi chiesi se lei avrebbe fatto lo stesso.

―Voi entomologhi siete dei pazzi―Commentò sgomento l’edicolante ―Buscarsi un colpo al posto suo.

Io frattanto mi ero piegato, mani al volto. Era da quando mi ero svegliato che gli insetti mi facevano nero, non ne potevo più. Contai i soldi necessari e glieli porsi senza dire nulla. Presi il mio giornale e la rivista di cucina, mentre gettavo via il pungiglione. Sfogliando l’oroscopo mi resi conto che il dolore già andava passando.

“Almeno questa epidemia non si sta ancora espandendo a tutti gli altri membri della famiglia Vespoidea” dedussi. “Che idiozia”, aggiunsi subito dopo. Chiamare epidemia dei casi isolati di un fenomeno che ancora non riuscivo a comprendere. Se qualche competente del campo avesse potuto sentire i miei pensieri si sarebbe strappato i capelli e il mio dottorato subito dopo. Mi recai a casa a passo svelto.

Passai il resto della mattina a passare la tagliaerba in giardino e l’aspirapolvere in casa. Diedi la cera, spolverai i mobili, lavai i vetri e pulì i piatti della sera scorsa. Passai per il mio studio e riordinai i vari libri e gli appunti che avevo messo in mezzo e mai a posto. Quando la mia mente non poté trovare altro da fare senza pensare alle formiche mi misi a leggere un libro in salotto, un pessimo romanzo di fantascienza. Nonostante tutto non riuscivo a calmarmi.
“Devo essere sotto effetto di noradrenalina” Pensai, ma era anomalo. Dopo tutto quel tempo e con una simile, ridicola dose, quella vespa non avrebbe potuto ancora essere la fonte del problema. “Forse”, ed ecco un’altra di quelle folli teorie che mi si andavano formando sin da quando avevo aperto gli occhi quella sciagurata mattina “Anche la Linepithema humile e la Lasius niger devono avermela iniettata”.

In quel frangente tornò mia moglie. Balzai subito in piedi, in un misto di contentezza e bisogno continuo di tenermi in movimento e non fermarmi più a pensare a quella maledetta storia. Stava togliendosi il cappotto.

―Tutto a posto a lavoro?

―Certo― Rispose lei, non tentando neppure di mascherare un velo di frustrazione.

―Non è tutto a posto― Affermai, sentendomi poi un imbecille per quanto ovvia fosse quella constatazione ―Cosa è successo?

―Semplicemente― Disse, appendendo il cappotto in pelle ―A nessuno piace lavorare, amore. Lo sapresti se solo tu…

―Non ricominciamo per favore, non dopo la giornata che ho avuto.

―Posso immaginare che fatica.

Non risposi. Lei si guardò attorno.

―Hai fatto pulizie vedo.

―Non potevo farne a meno.

―Era il minimo che potessi fare.

Ignorai quelle frecciatine.

―Cosa vuoi che ti cucini?

―Quello che vuoi― Disse, non guardandomi e sbottonandosi la camicia.

―Hai detto così anche l’altra volta e poi ti sei lamentata.

―Cristo!― Sbottò lei, strappandosi un bottone dall’abito nel contempo per la rabbia. Dovevo avere avuto un tono insopportabile senza rendermene conto ―Sembri una cazzo di casalinga isterica, lasciami riposare un attimo per favore.

Ovviamente il “per favore” uscì più come un ordine e fu esattamente così che lo presi. La lasciai in salotto, mentre si sdraiava sul divano per il verso lungo, quasi svenuta. Mentre apparecchiavo, dalla cucina, potei sentirla salire lentamente le scale poco dopo. Tranciai a pezzi un pollo in petti e cosce, lo sistemai nel catino e lo misi in forno. Impostai l’elettrodomestico e salì le scale anch’io. Trovai mia moglie mezza svestita, colta da un colpo di sonno e sdraiata di pancia sul letto, i capelli scapigliati e dorati come un girasole, le dita che si aggrappavano alle lenzuola quasi le volesse strappare con le unghie, gli occhi socchiusi, ma tesi, non sereni, come se la pupilla ancora si muovesse impazzita sotto la palpebra. La camicetta bianca era riversa su una sedia, era nuda dalla vita in su e sognai sopra la sua liscia schiena scoperta. Mi sedetti a fianco, sul letto e le passai un mano sul capo, come una bambina. Lei ebbe uno scatto, riacquistò il senno come non lo avesse mai perso e mi afferrò il polso, torcendomelo. La mia povera mano sinistra non conosceva pace quella mattina. Quando il dolore mi arrivò al cervello la prima immagine che mi apparve fu quella di uno scorpione.

―Sei… Sei proprio un idiota. Lasciami dormire adesso, non ho voglia di vedere nessuno― biascicò lei, mezza ssonnata.

Mi mollò il polso con un gesto stizzito e io subito ne approfittai per rialzarmi dal letto. Quella non era certo la mia giornata fortunata. E la sera era ancora lontana. Tornai giù a finire di cucinare.

Pranzammo in seguito.

―Niente da dire sul cibo?― Chiesi. Lei non rispose, versandosi più vino del dovuto ―Cucinerei meglio se mi dessi dei pareri.

―Tu hai sempre bisogno del parere altrui― Sentenziò acida lei ―Sii uomo per una volta.

―Eccoci di nuovo― Sbattei le mani ―Di nuovo con questi stereotipi. Solo perché sono io a cucinare e a tenere in ordine la casa…

―Non intendo quello― Tagliò corto lei. Attesi ma non aggiunse altro.

―E poi sarei io quello isterico― Borbottai. Lei, di rimando, sbatté i pugni sul tavolo. Mi cadde il sale dalle mani e si sparse per terra. Sospirai.

―Credo di avere il diritto di essere antipatica quanto mi pare finché sono io a reggere economicamente la famiglia, tesoro.

Ovviamente nella parola “tesoro” non c’era alcun affetto.

―Perciò perdonami se quando torno da lavoro, come questa domenica, non sono la moglie perfetta che vorresti e di cui senti la necessità di prendere il posto.

―Cosa ne diresti― Proposi, rigirandomi il mezzo limone con la forchetta ―Se non toccassimo più l’argomento, almeno per oggi?

Lei si ammutolì un momento, inspirò e chiuse gli occhi. L’istante successivo si era alzata dal tavolo ed era tornata di nuovo di sopra. Finii di mangiare, canticchiando una vecchia canzone estiva, sparecchiai la tavola e pulii piatti e posate.

“Volevi qualcosa che ti distraesse dalle formiche? Beh, lo hai trovato bello mio”.

Uscii per buttare la spazzatura. Diedi un’occhiata alle mie spalle, con il sacco dell’organico in mano, e vidi mia moglie, dalla finestra, recitare qualche opera teatrale davanti lo specchio. Aveva sempre avuto una bella voce. Peccato la usasse così spesso per litigare con me. Ripresi il mio cammino verso il bidone. Lo aprii e guardai che non fosse pieno. Era pieno, questo era sicuro, ma pieno di maledettissime formiche, su ogni
parete interna, impestando ogni rifiuto lì dentro. Buttai il mio sacco e me ne andai.




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