Lei
Che Vive Nella Sera
Tebe rifulge tra
i fiori
dell’estate, nella brezza che accarezza i campi: è
il principio di una sera nuova,
che segna il ritorno della luce.
Le strade, le case, i
giardini fluiscono e ribollono di canti e danze: smessi gli abiti del
lutto,
allontanata l’ombra del sangue che tutto insozza, i piedi e
le lingue intessono
musica e odi ai Numi, purificano l’aria insieme al fuoco dei
sacrifici; che sia
distante ogni preoccupazione o cruccio, nella città non
c’è letto dove possa
stare.
La rocca reale si leva sul
buio come una luna, nel suo latteo splendore osserva la costellazione
di fiamme
vivaci, portatrici di ebbra gioia, lungo le larghe vie; e sulle
terrazze che si
tendono alla notte, ecco che si accoccola un astro, la più
giovane fra le anime
che lì dimorano.
Manto è un fiore in
boccio, le sue mani sono troppo piccole per afferrare il mondo che la
circonda,
e allora si aggrappa alle vesti dell’uomo che chiama padre,
colui che rivela
stragi e maledizioni, segreti e colpe1.
È ancora presto, per lei, comprendere
che molto di ciò che vede non è la
realtà nella quale respira, ma il futuro; eppure,
gli Dèi già sussurrano al suo orecchio.
Non
gioite, figli di
Cadmo2, non
così: più vi
rallegrerete, più soffrirete quando le tenebre ritorneranno
a coprirci. Non lo
sentite il gemito della terra, la condanna che ci marchia? Non
c’è rimedio al
sangue, se non altro sangue.
E tra
grida di giubilo e
risate è quasi giunta l’alba, timida e pacata:
Tebe si chiude nel sonno e
accoglie la quiete, non trattiene memoria del dolore che dorme nel suo
grembo e
ignora che, non troppo distante dalle mura, tra i sepolcri, le montagne
e le
gole che il lucore non sfiora, la voce dei mostri e
d’ingiuste sorti3
riecheggia triste, in attesa.
Solo Manto e suo padre
sanno, silenziosi e attoniti, e rimangono a fissare il giorno che
viene, la
serenità che precederà la loro fine.
Lente nubi sulla
Città
dalle Sette Torri, bruma dai campi in attesa: dagli altari si levano i
fuochi e
i fumi dei sacrifici, offerte e preghiere agli Dèi silenti,
mentre il vento canta
sempre più forte — non è il tempo di
Tebe, questo.
Manto non ha bisogno di
vedere per sapere, il futuro corre nel sangue che ha ricevuto da
Tiresia; e se
anche l’Obliquo4 non avesse voluto
concederle quel dono, comunque scorgerebbe
nella terra, sulle mura e tra le proprie mani la scia scarlatta che
ancora
rifulge e stilla, chiamando altra morte e sofferenza.
Se c’è chi si attarda a
chiedere protezione ai Numi, in molti si preparano a fuggire: i Figli5
sono leoni, resi furiosi dagli spiriti dei Padri e dalla stessa follia
che Tebe
culla nel ventre6, e solamente la guida di
Tiresia può impedire che
gli innocenti vengano immolati sulle are della vendetta. In quanti
dovranno ancora
patire?
Solamente
una, solamente
io.
«Cara
figlia, Manto, di
te non avranno pietà.»
Manto sospira, una nuova
lacrima si aggiunge a quelle che la sua gente ha già
versato; ma nessuna
preghiera, nessun dono o gioiello7 potrebbe
mutare la sua mente. È
ancora una giovinetta dalle chiome libere8 e con
i piedi che sentono
nel suolo l’eco delle danze che furono; ma nei suoi occhi
notturni rifulge la
fiamma del sacrificio — lei stessa —, mentre la
città già le leva lamenti e intesse
sudari.
«Che sia io l’unica a
rimanere a Tebe», risponde senza guardare chi le parla,
osservando le campagne
e la nebbia ora mutata in spire d’incendio, «che
sia io l’offerta che i
vincitori dedicheranno agli Dèi. Il vostro dolore finisce
insieme a me.»
Una mano si posa sul
capo, un’ultima carezza; in un sospiro, nel palazzo reale non
rimane più
nessuno oltre a lei. Chiude gli occhi, allora, e nel silenzio
dell’anima
implora Apollo di risparmiarle, per qualche istante, la sapienza che la
veggenza le reca: ma nemmeno il Lungisaettante è rimasto al
suo fianco.
Manto è sola, nelle mani
del Fato; ed è sola quando gli Epigoni irrompono in
città e salgono fino al
palazzo, è sola mentre la circondano e lei li guarda senza
vederli.
I Figli dei Sette non si
spendono in parole: la prendono per mano e la conducono fuori dalle
mura, oltre
i giardini e le torri di Tebe maledetta, e la incitano ad avanzare sola.
Non saranno loro a imporsi
sulla sua carne: Apollo già l’attende tra i
misteri di Delfi, chiamando a sé il
bottino che i giovani gli hanno consacrato.
I minuti
divengono ore,
le ore giorni, e i giorni l’avvicinano alle porte della
città oracolare; questa
guida e veglia, proteggendo il cammino della sua nuova gemma.
Abbracciata al tripode, Manto
riceve rispetto e cura: il figlio di Latona le stende la mano sul capo
e le
penetra nel corpo per renderla suo involucro e messaggera, nessuno che
sia
nella grazia dei Numi toccherà la fanciulla.
Nella lunga veglia, lei intesse
fremiti di battaglie e destini, fila ricchezze o le fa precipitare in
tenebrosa
rovina, narra di grida e benedizioni, d’infausti segni e
consigli, ammonisce o
rincuora; nei sogni, quando anche per lei scende il pietoso riposo, le
appare
una terra dalla voce selvaggia. È sempre sera quando la
vede, perché Esperia9
non si mostra in altra veste; e laggiù le stelle
occhieggiano con neri palpiti e
il mare sussurra i segreti che i fiumi gli recano, rapendoli alle
profondità
dei boschi e ai riti che li illuminano. L’uomo muore, a
Esperia, o fugge dalla
sua sorte funesta per cadere nell’oblio; di lui, non
è più lecito chiedere.
La visione segue sempre
la stessa strada: appena prima che Manto riapra gli occhi e il giorno
la
incontri, Apollo le si mostra in forma di freccia d’oro e
attraversa il cielo
di Delfi, per poi conficcarsi nell’orizzonte occidentale;
è là che conduce il
suo volere, là i passi di Manto devono dirigersi.
La fanciulla attende di
finire il suo servizio al tempio prima di obbedire, il cuore ancora
grave di
pianto per Tebe e impaurito dai mormorii che giungono da quelle lande
lontane;
ma è dove il Sole cade che gli Dèi
l’attendono e la vogliono, e, la notte in
cui la propria voce smette di rivelare i responsi
dell’Obliquo, lei comprende
che l’Ellade non è più una dimora, che
l’Ignoto la chiama a compiere il suo
ultimo viaggio.
Esperia rapisce
ogni
sguardo e il suo grembo è oscuro e vibrante, tanto profondo
da riempire di
timore; eppure, il carro di Helios giunge anche qui e infiamma i campi,
i
boschi e i villaggi con giorni d’estremo calore.
I piedi di Manto non
incrociano spesso quelli di altri uomini: le comunità sono
ristrette e
distanziate tra loro, e Apollo continua a elevarsi sopra il suo capo e
a
tutelarla, come lo fa la paura. I volti di chi incontra e al quale non
può
sfuggire, per necessità e disperazione, non sono molto
diversi da quelli in cui
è cresciuta, ma la voce è immersa nel mistero: le
parole nascondono significati
che non comprende e dei quali non riesce a domandare, gli sguardi la
fissano
con sospetto, per poi abbassarsi non appena intravedono
l’ombra degli Dèi sulla
sua figura; le mani che porgono il cibo che lei implora sono svelte a
levarsi
per chiederle pietà — per tenerla distante.
L’indovina è sola,
sempre: le selve soffocano ogni suono quando lei le attraversa, i fiumi
calmano
l’impeto delle onde per permetterle di passare e quasi
muoiono nei propri letti,
le stelle le si pongono sul capo senza parlarle. Intanto,
l’eco di Tebe cresce
d’intensità, così che sente sotto le
dita il bacio del sangue che continua a
condannare, che promette di sporcare anche quelle lande;
così che si chiede quale
sia il suo Fato, se veramente Esperia merita di conoscere la colpa che
ha
ereditato dalla propria gente.
Le lacrime non smettono
di segnarle le guance: Esperia non può non percepire la
rovina che quell’anima
straniera porta con sé, i neri artigli che le stringono il
collo fin da prima della
sua nascita, e forse proprio per questo si ritrae e la rifugge.
La terribile Sfinge, le maledette
vicende della famiglia reale, i Sette e i loro figli continuano a
urlarle nel
cuore e nella mente; Manto può biasimare il terrore che
sente provenire da lei
e a lei giungere, o comprendere i voleri celati nel vento silenzioso
che la
sospinge avanti? La solitudine l’annienta come un veleno, ma
è l’unica realtà
che permetta agli altri di vivere.
Solamente i Numi non
temono la sua presenza, e così i luoghi che questi
proteggono: e, dopo innumerevoli
giorni d’inquieto vagare, un’alba
all’apparenza uguale le svela il risuonare di
un grande fiume, incurante di lei.
Il sonno ricolmo di ombre
la lascia immediatamente e la spinge a levarsi, a guardarsi intorno
nella
radura che l’ha ospitata per la notte; al di là
dei molti anelli di querce,
forse fuori dalle selve, le onde si rincorrono senza tregua e
trascinano con sé
le nubi che dormono sui monti, e verso di esse la fanciulla spinge
incerti
passi.
Il canto dell’acqua è
così chiaro da guidarla senza permetterle incertezze, Manto
non si stupisce
quando abbandona il folto e il fiume scintilla a qualche distanza.
Il bosco finisce
improvvisamente, lasciando spazio a una distesa di campi e al corso
d’acqua che
divide le due realtà, e l’indovina si ferma sulla
soglia della selva: esita ad
avanzare e s’inginocchia al suolo, perché
immediatamente sente che nel
fiume c’è una forza che supera l’Umano,
un’entità arcana che veglia sulle onde
e su chi le abita. Non può lambirla con la sua storia; non
può sporcarla. «La
mia ombra non offuschi la tua sacralità», sussurra
allora, il volto a terra,
«tornerò indietro, cercherò
un’altra strada per avanzare. Ti recherò offerte,
per poi andarmene.»
«Non è questo ciò che
desidero.»
La ragazza spalanca gli
occhi ma non alza il viso, immobilizzata e insieme cullata dalla voce
del
fiume; vorrebbe alzarsi, ma un legaccio invisibile le trattiene i polsi
mentre
una nube vela il Sole nascente. Dopo qualche attimo, Manto comprende
che è l’immortale
custode di quelle acque, Tevere magnanimo, a tener lontana la luce, il
quale ha
abbandonato la propria dimora per raggiungere il suolo e chinarsi sopra
di lei.
«Alza gli occhi, fiore di
Tebe: qui non hai nulla da temere.»
L’indovina obbedisce; e
il suo sguardo incontra le profondità che si agitano nel
volto giovane e sereno
del Nume, la lunga chioma che si muta in quiete onde limpide, il corpo
che
trattiene dentro di sé il gelo della neve e la benedizione
dell’estate, gli
occhi spietati dell’inverno e il lucore delle stelle, morte e
vita nel proprio
inarrestabile ciclo.
Tutto ciò che circonda le
loro figure prospera grazie alla mano benevolente del Dio, ogni spiga e
bocciolo
gli deve la nascita e la protezione, il riposo che precede il ritorno e
la fecondità;
e il grande amore di questi non manca di abbassarsi anche sul capo
della
fanciulla, sui riccioli ricolmi di tramonto10.
Incapace di volgere lo
sguardo altrove, l’anima lenita e calmata da quel tocco
gentile, il dono di
Apollo attraversa ancora una volta la carne della fanciulla,
mostrandole il proprio
futuro: da quel momento, le sue chiome non saranno più
sciolte e sarà lei
stessa l’offerta al fiume, gradita da entrambe le parti.
«Questa sofferenza
t’insegue…»,
mormora Tevere, lasciando scivolare le dita sulla fronte e le gote
della fanciulla,
intrecciando disegni e ricami d’acqua come lievi baci.
«Questa sofferenza non
appartiene a Esperia; ma se rimango presso di te, o Immortale,
diverrà anche la
tua», risponde Manto, che riconosce la verità di
quanto ha visto e al medesimo
tempo teme sé stessa, e ciò che non
può vincere, «ti macchierà, ti
rovinerà.»
Il Nume sorride a quelle
parole, attraverso di lui la giovane sente l’allegro fluire
di mille rivi. «Non
conosci la natura di Esperia: chi vi giunge cade sulle sue spiagge e
nel cuore
dei boschi, sfinito, per poi rialzarsi con la sorte mutata e
addentrarsi nelle
sconosciute terre, verso l’eternità e le mura che
la proteggeranno11;
l’uomo trova i propri fantasmi, nella terra della sera, e si
fa divorare da
essi per poi dominarli.
Le stelle che ti guardano
sono più oscure del tuo triste Fato, perché
partorite dal luogo dove Helios
scompare; ed è qui la patria di chi ha sul capo il marchio
della morte.
In nessun altro luogo
puoi e potresti stare, perché solo qui rinascerai e la tua
sorte avrà
compimento. Non temere per me e per le terre che veglio; non temere per
la vita
che cerchi di proteggere e credi a ciò che hai visto,
perché il dolore cadrà
lontano da te.
Rimani con me, fanciulla;
ti attendevo da molto.»
La giovane tace, si
affida a quelle parole sagge e più grandi della paura, crede
nella visione che
gli mostra la fine della propria solitudine; stringe docilmente la mano
che il
Dio le offre e si rialza, per poi farsi guidare tra narcisi e giunchi,
sussurri
di promesse.
Tevere conduce dove il
fiume calma il proprio impeto, a una pozza che trattiene ogni luce che
a essa
si avvicina, e s’immerge in quello specchio
intatto; Manto lo segue, e
immediatamente le acque le cingono la vita in un abbraccio.
«Questo
è ciò che desidero», mormora il Nume, versando onde
sul
capo dell’indovina e purificandola dalla lunga peregrinazione
e dal passato,
mentre dalla riva i fiori scivolano nella corrente e si gettano tra le
braccia
della pozza per intrecciarsi ai capelli della sposa, mentre la voce di
Tebe si
perde e lascia che siano le fiere e gli abitanti delle
profondità silvestri a
levare appropriati imenei12.
Il cuore di Esperia ha
una nuova madre; e ogni voce la canterà, ognuno lo
saprà.
C’è
una terra, nel
profondo settentrione: la mano di Helios giunge là
più lieve, mentre la sera si
eleva sopra salici e querce, e fiori stranieri popolano il grembo di
tre laghi.
Tra giunchi, aironi e
un’isola che non conosce potere umano, Ocno13
guarda ciò che ancora
dev’essere; come accadde a sua madre un tempo, la mente prova
terrore.
Non ha ricevuto il dono
di Manto; eppure, per un istante, Apollo lo ha portato con
sé oltre i confini
del corpo mortale e gli ha fatto conoscere quanto lo attende.
«Che cosa hai visto,
figlio mio?»
Dolce, sapiente, la voce
di Manto culla il figlio; e questi abbandona il capo sul suo grembo, si
fa
abbracciare dal padre magnanimo.
«Ho visto… ho visto ciò
le Moire hanno deciso: il mio posto non è qui, ma in una
terra non ancora
toccata da leggi, tra fiori che non conosco e genti che troveranno in
me un
regnante; là conduce il volere del Nume di Delfi.
Tuttavia, quando
raggiungerò le sponde su cui dominerò, tu non
sarai con me… né avrò accanto mio
padre. Tra pochi anni, il tuo tempo finirà e una profonda
sofferenza segnerà la
nostra anima: il grande Tevere continuerà a proteggere tutto
ciò vedrà, ma
nessuno ne udirà più la voce. Seppur Immortale,
se ne andrà con te.»
La sposa del fiume
attende un istante, quindi sorride a quelle parole. «Esperia
trattiene ogni
ricordo di noi; non devi temere di perderci, noi continueremo a
esistere.
Confida in quello che ti
attende, perché non siamo giunti qui per morire, ma per
ricominciare a vivere;
e portaci con te, quando sarà il momento.
Il nostro lascito è pietra,
nessuno potrà cancellarlo.»
Ocno non ascolta più,
caduto nel sospiro del sonno, eppure sente: come
sua madre fece, decide
di credere alla voce che lo protegge da sempre e alla solitaria, regale
Luna
che sorge su Esperia e illumina la sera, il domani ormai presente.
NOTE
1 Il
padre di Manto è Tiresia, indovino di rilevante importanza
nel ciclo tebano: tra
le altre cose, fu lui a rivelare a Edipo di aver sposato la propria
madre e
aver ucciso il padre, e quindi di aver portato la pestilenza sulla
città.
2 Cadmo
fu il fondatore e il primo re di Tebe.
3 “I
mostri” fa riferimento alla Sfinge, che, nel mito che narra
di lei ed Edipo, si
dice fosse appostata davanti alle porte di Tebe; “ingiuste
sorti” è un
riferimento alla triste vicenda di Antigone, spiegata nelle note
più sotto.
4 Epiteto
di Apollo, per via dell’enigmaticità dei suoi
oracoli; tra le altre
prerogative, questi concedeva il dono della profezia.
5 Gli
Epigoni, gli eredi dei Sette che assediano Tebe per permettere a
Polinice (uno
dei Sette), il figlio di Edipo ingiustamente privato del trono dal
fratello
Eteocle, di rientrare in città e riprendersi quanto
è suo. Infatti, i due
dovevano governare Tebe ad anni alterni, ma Eteocle non
rispettò il patto e
scacciò Polinice; da qui si aprì una storia di
sangue (che Edipo aveva iniziato
con l’uccisione del padre Laio) che vide la morte brutale di
sei dei Sette e di
Eteocle, per poi continuare con Antigone, che seppellì il
fratello Polinice
contro le leggi di Tebe (che lo considerava traditore perché
aveva mosso guerra
alla sua città, e quindi indegno di onori funebri) e che per
questo venne
rinchiusa in una grotta, e la generazione successiva.
6 Anche
Eteocle aveva avuto un figlio, Laodamante.
7
Riferimento alla collana di Armonia, che ebbe un ruolo tragico nella
vicenda
tebana: servì infatti a corrompere Erifile, moglie
dell’indovino Anfiarao, e a
favorire la partenza dei Sette contro Tebe, con tutta la ridda di morti
che
seguì (e che Anfiarao vide e cercò di
scongiurare, essendo lui, inoltre, uno
dei Sette; questi fu quindi consapevole fin da subito di essere stato
“venduto”
dalla propria sposa in cambio della collana che concedeva bellezza
eterna).
8 Nel
mondo greco, erano le donne sposate a tenere i capelli raccolti, mentre
le
vergini li portavano sciolti.
9
In greco, Esperia significa “Terra della Sera”.
Così venivano chiamate l’Italia
e la Spagna, dove il mondo finiva e vi era solo morte; qui approdarono
tanti
eroi del ciclo epico, da Diomede a Iolao a, notissimo grazie a
Virgilio, Enea.
10 Spesso,
eroi ed eroine del mito vengono descritti come biondi o rossi di
capelli, o un
misto di entrambi. Per Manto avevo pensato a una chioma dai toni del
rosso
scuro, sfumatura che può essere accostata poeticamente al
tramonto, in modo che
rispecchi anche nell’aspetto la sua sorte finale a Esperia,
dove il sole cade e
la sera si leva.
11 Tante
città si dicono fondate da eroi omerici, come per esempio
Antenore con Padova o
Diomede con Ancona (e molte altre città, tra le quali
Brindisi, Benevento,
Andria e Venosa, visto che lui è considerato un eroe
civilizzatore).
12
L’imeneo era un canto nuziale, cantato in coro da coloro che
accompagnavano la
sposa alla casa dello sposo.
13 Ocno,
figlio di Manto e Tevere, fu colui che fondò la
città di Mantova in ricordo
della madre, che, secondo la versione del mito che ho seguito, non vide
mai la
terra dove la città sorgerà.
ANGOLO
DELL’AUTRICE MANTO
Salve **
Mi chiedo anche
io come
abbia fatto ad aspettare tanto a ritornare in questa sezione e dedicare
una storia all’eroina mitica di cui
porto il nome qui su EFP, e mi vergogno davvero. Fatto sta che una
gitarella in
quel di Lecco insieme a una splendida personcina (tu sai chi sei) e una
rilettura del libro di Fulvio Beschi La Guerra di Troia,
che si
concentra sul ciclo troiano ma non disdegna parti antecedenti e/o
seguenti a
esso (come i miti della Tebaide, gli Epigoni
o i Ritorni),
mi ha fornito lo spunto per porgere onore alla fondatrice della mia
amata
città.
Non prometto nulla, ma
in futuro potrei cambiare nome alla storia e renderla parte di una
raccolta, tutta
incentrata sugli eroi che ripresero a vivere nelle terre di Esperia.
Spero che possiate
gradire questa fic, perché per me è stato
bellissimo scriverla (specie la parte
tra Manto e il dio Tevere, il cuore della fic, perché nel
mito è certo che l’eroina trovi
finalmente un po’ di felicità e pace con lui,
un’entità molto positiva e
generosa, e perché l’idea di sposare una
divinità legata al mondo acquatico mi
farà sempre battere il cuoricino), e perdonatemi per la
quantità immensa di
note che ho inserito.
Un abbraccio,
La vostra Manto
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