§ Seven Years §
Chi combatte contro
i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando
guardi a lungo in un abisso, anche l'abisso ti guarda dentro.
[Friedrich Nietzsche]
Se ne stava seduta con le gambe incrociate sul promontorio,
il vento di metà ottobre era un misto tra l’essere gelido e fastidiosamente
tiepido, intriso d’umidità.
Perfino lei poteva percepire quelle sferzate incresparle le
piume delle ali, ma non se ne curò.
Il suo sguardo cercava nelle profondità dell’orizzonte, ma
dentro sé era consapevole che non avrebbe trovato niente di confortante, niente
che la facesse sentire ancora una volta umana.
Everett se n’era andato esattamente sette anni prima – lei
l’aveva ucciso sette anni prima – e non riusciva a dimenticarsi di lui.
Ci aveva provato, aveva fatto di quegli omicidi la sua
maledizione, si era sporcata le ali di rosso e ormai nessuna delle loro piume
era più candida.
Rachel era nata come un angelo e sarebbe rimasta per
l’eternità una creatura demoniaca, un essere spregevole e rifiutato da chi le
aveva permesso di esistere.
Si sentiva sola, abbandonata anche da se stessa. A niente
erano valsi i crimini che aveva commesso, a niente erano serviti tutti i
capelli che aveva rubato alle sue vittime per la sua raccapricciante
collezione.
Aveva ingenuamente creduto che in quel modo avrebbe
sopperito alla mancanza di Everett, ma si era illusa.
Osservava il mare sciabordare arrabbiato sotto di sé e
poteva quasi percepire quella stessa rabbia fin nelle ossa – quelle ossa così
umane che ben poco si addicevano al suo essere.
Era patetica, sola, sfinita.
Non c’era niente in quell’esistenza che potesse farla
sentire completa o utile.
Riusciva solo a ridere istericamente, le sue grida si
perdevano nel vento di quel tremendo 21 ottobre.
Sette anni senza Everett.
Chiuse gli occhi: le erano bastati pochi istanti per
comprendere quanto quel ragazzo che non poteva parlare avesse da dire, quanto
riuscisse a comunicare con dolci gesti, quanto la amasse.
E lei era stata costretta a uccidere l’unica creatura che
avesse mai sentito fin nelle viscere.
Aveva dovuto farlo, non aveva avuto alternative: quando un
umano veniva a conoscenza della sua natura, lei era obbligata a toglierlo di
mezzo e a salvaguardare la sua gente.
Quella stessa gente che le aveva voltato le spalle non
appena aveva notato il rosso screziare le sue ali non più candide – quel
vermiglio che stava a rappresentare un peccato di cui non si sarebbe dovuta
macchiare.
Ormai i giovani a cui toglieva la vita erano divenuti
indistinti, aveva perfino smesso di cercare somiglianze con Everett; li
prendeva a caso, li seduceva e si godeva la loro stupidità, per poi toglierli
di mezzo con un gesto veloce ed estremamente doloroso per loro – ed
estremamente piacevole per lei.
In quei momenti Rachel si sentiva viva, poteva ricordare
chiaramente cosa aveva provato nell’uccidere l’unica persona che avesse mai
amato. E allo stesso tempo quelle sensazioni la punivano, la maltrattavano, la
trafiggevano.
Non era nata per essere una ribelle, se n’era resa conto non
appena aveva deciso di seguire le regole del suo mondo: eliminare chi aveva
scoperto la sua vera natura, anche se questo aveva significato sbarazzarsi di
Everett.
L’unica colpa di quel ragazzo – si ritrovò a riflettere con
amarezza, mentre il mare in tempesta sciabordava contro gli scogli e le
ricordava che l’autunno era solo una di quelle insulse stupidaggini a cui gli
umani davano tanta importanza – era stata l’averla seguita e spiata, scoprendo
una verità scomoda e letale.
Rachel si sentiva smarrita senza di lui, come se quel
ragazzo in pochi secondi in cui le loro labbra si era sfiorate le avesse dato
la ragione, la saggezza, l’amore che non avrebbe mai potuto trovare in tutto
l’universo.
Alzò gli occhi al cielo e si chiese se avrebbe potuto
piangere come lui – in quel momento aveva cominciato a turbinare una sottile
pioggia che pian piano si stava trasformando in un evento più torrenziale.
Nessun essere umano sarebbe rimasto là fuori, in mezzo alla
tormenta, ma lei certamente non rientrava tra gli esseri mortali che si
chiudevano al sicuro in abitazioni illusoriamente sicure e confortevoli.
Case, le chiamavano.
Qualcuno una volta aveva detto che la casa è dove si
trova il proprio cuore, ma Rachel non era riuscita fin da subito a capire
il senso di un’affermazione simile; poi aveva conosciuto Everett e in un attimo
il suo cuore aveva cominciato a battere.
Ecco perché non trovava il suo posto nel mondo: l’unica casa
che avesse mai sentito sua ormai non esisteva più da sette anni.
Sette anni senza Everett, sette anni senza cuore, sette anni
senza vita.
Aveva ucciso ventuno giovani umani ogni anno. Aveva
conservato i loro capelli e ci aveva fatto degli anelli – erano colorati,
lucidi, tutti diversi, i suoi trofei.
Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda
dentro, si ritrovò a pensare. Anche quella frase l’aveva sentita da qualche
parte, ma la sua memoria e i suoi ricordi erano troppo annebbiati per
contestualizzarla.
Le uniche percezioni e immagini nitide erano quelle legate a
Everett e ai trofei rubati alle sue vittime.
Come poteva dimenticare quanto si fosse sentita sola
nell’esatto istante in cui aveva risucchiato via la linfa vitale da quel povero
ragazzo? Come poteva dimenticare quello che aveva sacrificato per continuare a
dare ascolto alla sua gente?
A niente era servito essere obbediente, perché subito dopo
aveva cominciato a comportarsi come una ribelle.
Aveva preso la decisione giusta nel momento sbagliato, e
certamente non avrebbe potuto riportare Everett tra le sue braccia.
Le sarebbe piaciuto poter tornare indietro nel tempo, ma la
sua natura angelica non prevedeva certi poteri; quella era fantascienza, quelle
erano stupide magie inesistenti che gli esseri umani attribuivano a maghi o
streghe.
Se fosse stato possibile manipolare le ore, i giorni, gli
anni, Rachel l’avrebbe fatto. Sarebbe tornata esattamente a quel momento in cui
le labbra di Everett si erano posate sulle sue in una muta carezza, e avrebbe
cambiato la sua decisione.
Avrebbe sacrificato il suo onore e la sua natura per vivere
quell’amore con lui.
Invece aveva agito d’istinto, compiendo l’unico gesto che la
sua gente si sarebbe aspettata da lei, l’unica azione che fosse ritenuta
giusta.
E così facendo aveva perso se stessa e si era condannata per
l’eternità a essere una peccatrice, una rinnegata, una maledetta.
Uccidere un essere umano, per quelli come lei, era lecito
soltanto se era in pericolo la loro natura; Rachel, tuttavia, aveva cominciato
a farlo per diletto, si era messa in mostra agli occhi di quei giovani
innocenti e li aveva tolti di mezzo senza pietà.
Il suo più grande errore l’aveva trasformata in un mostro
che non meritava alcun riguardo.
Osservò l’abisso sotto di sé – il mare pareva restituirle lo
sguardo e farsi beffe di lei – e desiderò di essere umana per potersi gettare
di sotto e smettere di vivere.
Tuttavia non sarebbe servito a niente, perché lei era
tristemente immortale e avrebbe dovuto portarsi appresso per l’eternità i sensi
di colpa, il vuoto, la solitudine.
Il vento increspava sempre più forte le piume vermiglie
delle sue ali spiegate, la pioggia le infradiciava e scarmigliava i capelli
corvini, lo sciabordio delle onde andava a ritmo con la sua frustrazione.
Tutto sapeva di vuoto, anche se per chiunque altro
quell’atmosfera sarebbe stata suggestiva e ricca di stimoli.
L’unico stimolo che Rachel avvertiva in quel momento era il
primordiale istinto di mietere la sua ventunesima vittima.
Voltò le spalle allo strapiombo, al mare in tempesta, al
cielo plumbeo e coperto di nubi che parevano accusarla.
Si sentiva sotto attacco, così sola e persa, così inutile.
Non le restava che difendersi e ricercare nell’ennesimo
giovane innocente e insignificante quella scintilla di vita che non le
apparteneva.
Spiccò un salto e le sue ali si fecero ancora più maestose.
L’unico colore che accendeva il grigiore di quel tetro
ventun ottobre era il vermiglio delle sue piume frustate dal vento.
§ § §
Ciao a tutti!
Credetemi se vi dico che non avrei mai pensato di tornare a
scrivere di Rachel e, in generale, di riuscire ancora a produrre una storia di
genere sovrannaturale.
Avevo quasi gettato la spugna per entrambi i contest a cui
questo racconto partecipa, invece poi ho avuto una specie di illuminazione ed
ecco che ho scritto di getto.
So che il racconto è breve e non è niente di che, insomma, è
una sottospecie di schifezzuola XD ma è tutto ciò che la mia mente è riuscita a
produrre, abbiate pietà di me, anche perché certamente non sono una cima in
questo genere ^^”
Credo di aver descritto le dinamiche di questa serie durante
il testo, ma nel caso qualcosa non vi fosse chiaro, non esitate a farmelo
sapere!
Spero veramente che a qualcuno possa piacere questa roba e
mi scuso se la lettura non risultasse piacevole o all’altezza delle
aspettative!
Grazie a chi deciderà di lasciare un piccolo commento,
intanto ringrazio Dark Sider e fantaysytrash per aver indetto due contest
bellissimi ed essere riuscite a ispirarmi con i loro fantastici pacchetti :3
Alla prossima ♥
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