Anatomia della speranza

di Gaia Bessie
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13. Piume sfiorite

 
Una piuma può tornire un ciottolo, se la conduce la mano dell’amore.
(Hugo Von Hofmannsthal)

 
La speranza è quella cosa piumata
che si posa sull’anima
canta melodie senza parole
e non smette mai.
(Emily Dickinson)
 
 
Kageyama s’è fatto sempre più silenzioso: il mondo della pallavolo maschile ha cominciato a notarlo ma, lui, s’aggira silenzioso e irritabile nella palestra della Karasuno. Nessuno ha il coraggio – o, nel caso di Daichi, la forza – di domandargli cosa lo affligga.
Perché Tobio vaga per la scuola con il passi di una piuma ma, quando intravede l’oggetto del proprio fastidio, diventano solamente l’ennesimo colpo di un peso di piombo sul terreno. Solamente Suga, che l’amore ha reso incosciente, ha il coraggio di avvicinarsi a lui, facendo finta di niente.
«Buongiorno, Kageyama» lo saluta, ogni mattina, quando trova solamente lui e Daichi ad allenarsi. «Come va oggi?».
L’altro alzatore risponde quasi sempre con un grugnito, facendolo ridere, cosa che Kageyama detesta più di ogni altra cosa.
«Ti faccio ridere?» domanda, un giorno, con aria contrariata. «Non sto facendo nulla di divertente».
Ma niente cancella il sorriso sul viso di Suga, nemmeno lo sguardo ammonitore di Daichi e quello perplesso di Hinata.
«Un giorno me lo dirai» Sugawara, calmo. «Verrai dal tuo vecchio senpai e mi dirai a chi dobbiamo dare la colpa per questo cuore spezzato».
Ma Tobio affila lo sguardo, e le parole. «Non ho bisogno di nessuno» risponde. «E, di certo, non ho bisogno di te».
Suga scuote il capo e non dice una parola: nemmeno l’ostilità di Kageyama riesce a cancellare il suo buonumore. «Oh, no» concorda. «Certo che no».
«E non pensare che…» sibila Kageyama, lanciando un’occhiata indecifrabile verso la propria sinistra. «Io non ti invidio».
Ha detto di non invidiare Sugawara ma, quando lo vede voltarsi verso Shimizu ed è così pieno di luce, forse si rende conto di aver mentito persino a sé stesso. Perché Suga la riconosce persino dal rumore dei suoi passi, la coglie come un fiore in una notte d’inverno e come un pensiero della sua mente in un momento di solitudine.
Lui è l’alzatore titolare, lo hanno nel mirino quelli della nazionale ma, a conti fatti, è ancora il re del campo. Forse non un tiranno, ma un sovrano silenzioso e solitario, impenetrabile come una lastra di piombo fuso. Ed è dolorosamente solo, quando si volta e non c’è Hinata a chiedergli un’altra alzata, ancora una.
Ha detto di non avere bisogno di lui ma, quando nel silenzio della sala ode solamente il suono dei suoi pensieri, si rende conto che non è vero. Che Suga gli ha dolcemente offerto la propria amicizia e lui l’ha rifiutata, senza nemmeno pensarci troppo.
Ma, di fronte al suo sguardo tranquillo, Kageyama non riesce ad ammettere tutto questo. E, di fronte a quella calma artefatta e che sa di neve sciolta, Tobio non ce la fa più.
«Io non…» mormora. «Non ho bisogno del tuo aiuti».
Ma Sugawara non smette di sorridere, facendogli letteralmente saltare i nervi uno alla volta.
 
***
 
«Tu la devi decisamente smettere» lo rimprovera Daichi, durante la pausa pranzo. «Di essere così irritante con il prossimo».
«Ma non lo sono» risponde Suga, placidamente. «Sei troppo severo, Dai-chi».
Daichi sospira, osservando sottecchi il proprio compagno di squadra: Sugawara è rinato come Asahi, da qualche tempo, sembra aver finalmente trovato quella pace di cui prima non conosceva nemmeno l’esistenza.
«Certo che lo sono, quando rischi di farti prendere a pugni» risponde il capitano dei corvi, secco. «Kageyama mi sembrava molto propenso a farlo».
Perché anche Tobio è ferito, riflette Sugawara, osservando silenziosamente le proprie cicatrici: e non è vero che non ha bisogno del suo aiuto, è solamente troppo orgoglioso per chiederglielo davvero.
Non siamo tutti feriti, risponderebbe Kageyama, offeso, e forse è vero: Suga non lo è più, ma ha una grossa cicatrice che gli sfregia il cuore.
«Sono il suo adorato senpai» ribatte Suga, con convinzione. «Non mi avrebbe mai preso a pugni».
Daichi ride, ma ovviamente non ne è affatto convinto.
 
***
 
Asahi è rinato, ma nessuno gli crede fino in fondo: lo stesso Suga, che eppure è meno severo di Daichi, lo guarda con incertezza. Quasi come si aspettasse di vederlo crollare da un momento all’altro lì, ai suoi piedi, in un inarrestabile fiume di lacrime.
Ma Asahi ha la mente leggera come una piuma e i passi fermi e pesanti come sassi, mentre dice con determinazione che, se non è guarito, è quantomeno migliorato.
«Non lo so, Asahi» risponde Suga, a disagio. «Queste cose sono sempre lunghe, non pensare di essere guarito da un giorno all’altro».
Ma Asahi non lo pensa, come potrebbe? Lui non è guarito, uscire dal posto dove è piombato è una lunghissima sequela di passi e, lui, forse non ne ha percorsi nemmeno la metà: ma è rinato, migliorato, forse persino ha meno cicatrici e meno crepe nel petto. E, di questo, anche Sugawara se ne è accorto.
«Lo hai visto anche tu» mormora, senza trattenere un tono di voce stupito. «Sto meglio».
«Meglio non vuol dire bene» risponde Sugawara, triste. «Ma ci arriverai, Asahi, io lo so che ci arriverai».
E, allora, tornerai nel club. Questo lo pensa ma, a conti fatti, non riesce a trovare il coraggio di dirglielo – perché Suga non è Noya, lui non riesce a toccare Asahi così in profondità da potersi permettere di dirgli una cosa del genere.
«Pensi che tornerà indietro, se starò meglio?» domanda Azumane, con l’innocenza di un bambino. «Intendo… lo sai. Lui».
Suga lo sa, di chi sta parlando Asahi, lo sa e non ha il coraggio di fornire una risposta: perché sente – forte e chiaro – che Yū non tornerà indietro mai più. Perché è determinato fino alla testardaggine, e orgoglioso, e allora non ammetterà di avere sbagliato, nemmeno se la posta in palio dovesse essere un pezzo del suo cuore.
Se lo farà dilaniare, azzannare, pur di non dover dire di aver commesso un errore. Eppure, deve vederlo anche lui, che Azumane si sta lentamente riprendendo: che come una piuma spostata dal vento rifiorisce, prendendo quota.
«Non lo so» risponde Suga, inghiottendo quella menzogna. «Ma starai bene in ogni caso».
In altri tempi, Asahi avrebbe risposto che no, non avrebbe mai potuto rimarginarsi senza di Nishinoya. Ma, adesso, lo guarda ed è acciaio rinsaldato sulle proprie crepe.
«Certo che sì» risponde. «Ce la farò anche da solo».
Non aspetterà mai più che sia Yū a tirarlo via da quel luogo di metallo fuso e crepe strutturali nella sua mente. Nessuno può tirarti fuori da nulla: o ti salvi solo o non ti salvi22.
 
***
 
«Si può sapere cosa ti prende oggi, Kageyama?» Hinata strilla da spaccare i timpani. «Sembri distratto».
Tobio gli rivolge la propria espressione più minacciosa, facendolo tremare. «Non sono distratto» pronuncia quella parola come fosse un insulto. «Ho solamente bisogno di una boccata d’aria».
«Ne ho bisogno più di te!» esclama Shōyō, affilando lo sguardo. «Facciamo a chi arriva prima fuori dalla palestra?».
Ma Kageyama lo guarda e, per un secondo soltanto, Hinata ne può intravedere la profonda stanchezza. «No» risponde il palleggiatore, atono. «Vorrei rimanere un po’ da solo».
Non siamo tutti feriti, in questo mondo – ha detto a Sugawara, in un tempo che sembra solamente sfiorito – non siamo tutti feriti ma, con tutta probabilità, lui lo é.
Hinata non lo segue, ma si volta per correre a massima velocità da Daichi, impegnato ad allenarsi nel servizio. Il capitano dei corvi lo guarda e sospira, preparandosi a sedare l’ennesima lite con Kageyama ma, quando Shōyō apre bocca, lo investe con un torrente di parole.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» strilla. «Dovremmo concentrarci sulle partite, sul torneo primaverile che si avvicina!».
«Andiamo, Hinata, cerca di calmarti» cerca di rassicurarlo Daichi, calmo. «Nishinoya tornerà immediatamente dopo il mese di punizione, appena in tempo per il torneo».
Ma Shōyō abbassa lo sguardo, guardando i propri piedi con aria carica di delusione. «E tornerà anche senza Asahi-san?» domanda. «Come potremo giocare, senza di lui?».
«Tornerà» ripete Daichi, che ha promesso a sé stesso che farà di tutto per riportare Noya dove deve stare: sul campo e non nei prati sperduti della propria mente. «Fidati, tornerà a giocare in ogni caso».
«E Kageyama, allora?» insiste Shōyō. «Lo hai visto?».
Daichi se n’è accorto, che Kageyama è distratto, quando gioca, come se un pensiero insistente gli affollasse il cranio. Che tocca la palla seguendo il proprio istinto ma, quando per sbaglio si ritrova a guardarsi attorno, perde la concentrazione.
E, a lui come a Sugawara, è dolorosamente chiaro: è ferito, perché è vero che siamo tutti feriti, in qualche modo che non è ancora noto. Non a Shōyō, almeno, che vorrebbe solamente una spiegazione semplice e lineare che, però, non ha ragione d’esistere.
«Cos’ha Kageyama?» domanda, curioso di sentire la risposta di Hinata. «Mi è sembrato uguale al solito».
Ma il centrale scuote il capo, con convinzione. «Penso che sia come Nishinoya» risponde, piano. «Ferito».
A Daichi si ghiacciano le parole dentro la bocca.
 
***
 
Noya non torna più.
Lo sta inseguendo qualcosa, nella sua mente, un senso di colpa potente e pressante che, se solamente ci provasse, potrebbe frantumargli le ossa con un semplice sospiro. Così, Yū si nasconde in un letto di piume, cadute da corvi in volo tra le sconfinate praterie che lentamente appassiscono nella sua mente.
Lì, è al sicuro. Dallo sguardo deluso di Daichi e da quello comprensivo di Suga, non lo insegue il ricordo odioso e persistente di lui, né nessuno gli domanda spiegazioni che non è disposto a concedere nemmeno a sé stesso.
Agli allenamenti, si trascina come fosse una punizione. Lo è, veder giocare gli altri senza di lui, senza Asahi, è la peggiore punizione che potesse autoinfliggersi.
Ma, quando è seduto sulla panchina di fianco ad Ukai, Noya è così concentrato che si rende conto di non vederli per davvero. Perché nella sua mente ha cominciato a soffiare un vento tiepido, che solleva le piume in una danza dolorosa.
«Sei distratto, Nishinoya» lo rimprovera Ukai, con aria severa. «Fai attenzione al gioco, un paio di occhi in più mi fanno comodo».
Noya annuisce, concentrandosi sul gioco, ma dentro di sé urla: vorrebbe essere in campo anche lui ma, se non alle piume mosse dal vento, a chi potrebbe dirlo?
 
***
 
«Credo che Hinata sia preoccupato» incurante del rischio, Suga ha scelto comunque di fermare Kageyama, sulla via di casa. «Per te».
«Per far preoccupare Hinata come minimo dovrei essere in punto di morte, considerando quanto viva fuori dal mondo» commenta Kageyama, sistemando la borsa a tracolla sulla propria spalla. «Piuttosto, sei tu a essere preoccupato».
Suga sorride e scuote il capo. «Non ho mentito» premette. «Sono preoccupato, ma anche Hinata lo è».
Kageyama lo guarda e tace, forse ha perso le parole anche lui, o forse tace per il mero gusto di udire i propri pensieri impattare tra di loro nella scatola cranica. Sono così intrecciati e confusi tra di loro che, nemmeno seguendo il filo di Arianna riuscirebbe a sbrogliarli.
«E per cosa?» domanda, laconicamente. «Io sto bene, sono solo stanco».
Sugawara – che ha sentito quella scusa così tante volte sia da Asahi sia da Nishinoya – alza gli occhi al cielo, esasperato. «Perché non puoi ammettere di avere qualcosa che non va?» borbotta. «Se dovessi essere distratto al torneo, Hinata non te lo perdonerebbe mai».
Kageyama si stringe tra le braccia: fa freddo, ma il suo è un tremore che gli proviene dal cuore e ne ghiaccia il respiro come il sangue nelle vene.
«Ma immagino che tu lo sappia» prosegue Suga, camminando con fare svagato. «E io ti sostituirei: forse sbaglio a voler avere questa conversazione con te».
«Non perderò»23 gli ricorda Kageyama, di colpo sicuro e deciso. «Non contro di te, noi… dobbiamo sfidarci per forza, ogni giorno, e io non ho intenzione di perdere».
«Nemmeno io ho intenzione di perdere contro di te» risponde Suga, con entusiasmo. «Non… dovrei pensare che tutto è perduto, ma cerco di non farlo mai».
Provaci anche tu, vorrebbe dirgli, ma Tobio gli lancia un tale sguardo di avvertimento che quelle parole gli rimangono incagliate in gola. Così Suga sospira, mettendosi le mani in tasca e guardando il cielo già oscurato.
 
***
 
Le ha detto ti amo, così piano da farle dubitare di averlo sentito, ma effettivamente lo ha fatto: sembra quasi che si vergogni a ripeterlo, Suga, quando non è annebbiato dai fumi del sesso. Quando ritorna a ragionare lucidamente e, forse, in testa gli rimbombano forti e chiari tutti i ricordi delle settimane passate. Eppure, quando la guarda e la stringe dolcemente per ripararla dal freddo, Kiyoko ne è certa di una certezza che fa male: lo ha detto e lei non riesce a dubitarne, lo ha detto per davvero.
Perché, in fin dai conti, lei riesce a spogliarlo con uno sguardo anche quando ha due maglioni e un cappotto sopra, anche quando si soffia sulle mani per il freddo. È una ballerina di piume, l’aria condensata che sale verso il cielo, divenuta vapore: la guarda ammirata, Shimizu, come potesse desiderare di volare via con lei.
Se non fosse che qualcosa – no, qualcuno – riesce sempre a riportarla sulla terra, prendendola dolcemente per mano. Kiyoko lo guarda, mentre il mento gli affonda in una sciarpa azzurra, nascondendogli metà faccia. Il motivo è lui.
Ed è quello che Nishinoya non comprende, quando si ritrova a perdersi nei propri pensieri come fossero campi bruciati e sterminati ignorando dove sia la via d’uscita: è l’amore, la sua unica occasione per fuggire via di lì.
«A cosa pensi?» domanda, guardandolo afferrare parole come le coglie i pensieri. «Sei distratto».
Lo è sempre, Suga, ma quel giorno si guarda attorno come cercasse risposte a una domanda che non riesce a porre. E lei lo sente, come si sente un arto o il proprio cuore, che ha qualche preoccupazione che gli ronza fastidiosamente nel cervello.
«Credo che Kageyama abbia qualche problema» osserva Sugawara, guardandola. «Più del solito, intendo».
L’ha notato anche Shimizu, che l’altro alzatore s’è fatto ancora più ostile e pensieroso, ed evita qualcosa o qualcuno come si potrebbe fare con una brutta infezione.
«Non puoi farti carico dei problemi del mondo» risponde, con una vena di rimprovero. «E nemmeno penso che Kageyama vorrebbe il tuo aiuto».
«Lo so» commenta Suga, piano. «Ma non penso di potere lasciar perdere».
«Certo che non puoi» osserva Kiyoko, con l’ombra di un sorriso sulle labbra rosate. «Tu hai una passione per le cause perse, non è vero?».
Lui ripensa a un messaggio in bottiglia, un haiku e tutti quei giorni sfioriti in un’attesa senza inizio, ma con una fine. E la fine è lei.
Suga sorride, imbarazzato, e sta per rispondere che non è vero, che a lui piacciono solamente le cause perse che possono ritrovarsi, ma Kiyoko si mette una mano in tasca per cavarne fuori un batuffolo di lanuggine bianca.
È un soffione.
«Ritrovalo, allora» sussurra. «Immagino di poterlo solamente accettare».
 
***
 
«Asahi?» Tanaka lo strilla, quando lo vede entrare nella palestra a grandi passi. «Sei tornato?».
Lo schiacciatore lo sente a malapena, mentre si avvicina velocemente alla panchina del mister Ukai. Ha lo sguardo perso in una dimensione sconosciuta, mentre si torce le mani febbrilmente.
«No» risponde, distrattamente. «Vorrei parlare con Nishinoya, se fosse possibile».
Noya non riesce nemmeno a dirgli che non vuole parlargli, perché Asahi è entrato in palestra di sua spontanea volontà e lui quasi fa fatica a crederci anche se lo ha davanti a sé.
Così si alza – non è più padrone nemmeno dei propri piedi, al pari dei suoi pensieri – e lo segue nel cortile illuminato da un freddo raggio di sole.
«Io non so come devo fare» borbotta Asahi, a disagio. «A chiederti se mi vuoi ancora».
Prende un respiro profondissimo, ghiacciandolo con una singola occhiata. «A dirti che forse non starò bene, ma sto meglio» continua. «E che forse tornerò a giocare o magari non lo farò mai, e tu per questo mi odierai per sempre».
A Yū duole il cuore, nel sentire quel forse, che è più di quanto Asahi non gli abbia mai concesso in quei mesi. Vorrebbe rispondere, ma lo schiacciatore parla così velocemente da non dargliene il tempo, costringendolo ad ascoltare in silenzio.
«O no, io questo non lo so, perché davvero non sono bravo a fare queste cose» si passa una mano tra i capelli, a disagio. «Non conosco il significato dei fiori, né so scrivere gli haiku e non ho idea di cosa potrei scriverti in una lettera».
Non che Suga sia lo scrittore di haiku del secolo, di trattiene dal commentare Noya, sorridendo lievemente al pensiero.
«Ma so che io voglio te» sussurra Asahi, con una determinazione che non gli è mai appartenuta. «E non per ventiquattr’ore, per una sera, per un pomeriggio. Io ti voglio con me sempre».
Si ferma a guardarlo, genuinamente disperato. Quell’espressione stringe il cuore di Nishinoya in una morsa inesprimibile, che duole con ogni singolo e inutile respiro.
«Non lo so se per te è lo stesso» mormora Azumane, guardandolo negli occhi. «Ma so che non credi in me e io proverò a convincerti che tutto questo non è un’idea così pessima».
Yū lo guarda, ed Asahi ha la bocca ancora piena di parole come uno scrigno magico, che se si schiudesse lo sommergerebbe come una marea in un campo arido e secco. Non c’è bisogno di convincerlo, realizza, senza trovare le parole per dirglielo: lui è già convinto di Asahi, lo è sempre stato come gli è sempre stato familiare respirare.
E vuole toccarlo, coglierlo come una margherita a mezzanotte o un ricordo in una mattinata assoluta, vuole averlo e vuole assolutamente essere suo. Perché forse non è guarito, ma molte delle sue cicatrici sono state suturate e, adesso, nuda pelle gli restituisce uno sguardo abbagliante.
«Permettimi di stare con te» sussurra Asahi, tendendogli una mano. «Promettimi che resterai, questa volta».
Yū guarda la propria, di mano, piccola e affusolata come quella di un bambino e con le medesime fossette sulle nocche.
Asahi lo guarda, in attesa. Non ha soffioni, né lettere, né haiku, ma a sé stesso e una fiducia assoluta e incontrovertibile in lui.
Noya posa la propria mano nella sua.


 
Buona mattina a tutti!
Sono molto contenta di essere arrivato a questo capitolo, che mi ha spezzato il cuore (ho capito che la storia si avviava verso la propria conclusione) e spero che piaccia anche a voi. Il nostro penultimo appuntamento sarà il 7 dicembre, con il capitolo quattordici.
Le note di oggi sono queste:

22Alice Sebold, Lucky
23Frase ripresa dal manga (Vol. 2, cap. 10, p. 8)

Grazie a chi mi sta leggendo, in silenzio o meno, per essere arrivato fin qui.
Gaia

 




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