Daimon

di mercurioingocce
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A volte mi chiedevo se si rendesse conto d'esser vivo. Forse si, forse no, ma la cosa che è certa è che il limite era così labile che penso fosse difficile anche per lui saperlo. Il suo corpo esisteva e io captavo brandelli di questa esistenza: il fruscio del suo cappotto, la tonalità della sua voce, il tocco amaro delle sue dita. E poi? Poi non sapevo altro, se non quello che tutti sapevano. Cosa c'era nella sua mente? Era cosciente di essere sulla Terra, talmente perso nel suo mondo fatto da personaggi immaginari e pensieri mistici? Il suo corpo era pesante quanto la sua anima cercava qualcosa di superiore. Lo immaginavo come un uccello con una catena alla zampa che piano piano cedeva e si accasciava su sè stesso, arrendendosi e dimenticando il significato di libertà se non come un lontano passato. Non sapevo di più, e quella parte più intima non l'avrebbe rivelata ad anima viva. Forse non la conosceva nemmeno lui, non me ne stupirei. O forse non esisteva, forse il suo essere non comprendeva delle emozioni o un passato che potesse valere la pena ricordare.
Lui non viveva, e presto si sarebbe liberato di questo peso per volare in alto. E io, per quanto addolorata potessi essere, non potevo fermare il briciolo di libertà che gli rimaneva costringendolo a un'infelicità eterna. E, possa essere dannata per questo, la sua non esistenza mi attraeva irresistibilmente. 
 




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