La prima volta che
Bucky se ne interessa, è perché l’argomento è uscito dalle labbra di
Steve – la sua voce spolvera via patine di disinteresse, lo cattura,
lo trattiene in quel momento, in quella strada, come una
cartolina appuntata a una parete di sughero.
La vetrina del pian
terreno di uno studio legale si presta alla vista come lo scatto
rubato da una rivista al femminile: donne perfette in tailleur blu,
labbra carnose e cremisi, chiome fresche di piega, volti scalpellati
dalle dita di uno scultore e dita affusolate che si allungano veloci
sui tasti di una macchina da scrivere.
Tap tap tap
Il ticchettare dei
tasti bussa sul vetro, si affaccia in strada e richiama passanti.
Sedute composte alla loro scrivania, sembrano dipinte a olio per la
gioia dei loro occhi.
Tap tap tap
Steve si è fermato, ha
srotolato sulle labbra un sorriso, e negli occhi, ha quello
sguardo: quello che strappa via un gemito di frustrazione a
Bucky e che fa cominciare ogni frase con “Peggy”. E Bucky non ha
nulla contro Peggy – la prima sera che l’ha vista avvolta dall’abito
rosso che ha sedotto ogni uomo del reggimento, Dio solo sa quanto si
sarebbe perso volentieri anche lui tra le morbide colline del suo
seno e nel candore delle sue cosce. Ma per ogni volta che Steve ne
parla, c’è un proiettile col suo nome inciso che penetra dritto nel
petto di Bucky.
«Anche Peggy sa battere
a macchina.» Puntuale e doloroso, proprio come si aspettava. Steve
lo guarda, ignaro di avergli appena sparato al cuore. Nemmeno si
rende conto di quante volte la nomini al giorno – Bucky le ha
contate: almeno tre, come fosse un pasto da consumare che Steve si
gode ogni volta e a lui, invece, va sempre di traverso.
Affonda una mano in
tasca, stringe il pugno, indossa la maschera dell’amico.
«Come tutte le dame, pal.»
Steve si gratta la
testa, pensoso. Ha guance colorate d’imbarazzo e occhi rubati al
cielo, si posano per un attimo su Bucky, lo accarezzano con
tenerezza e poi fuggono lontano, dove non può inseguirli – e
forse nemmeno vorrebbe, perché sa che non c’è posto per lui. «Lo so,
lo so. Ma, a costo di sentirmi dire che sono strano, è piacevole
sentirla battere a macchina. Lo fa di rado, eppure perfino in quello
si fa riconoscere e il solo pensiero mi fa sorridere.»
«Non ho dubbi, Romeo.»
Bucky si tasta il petto, stringe la maglia e serra i denti.
Conosce fin troppo bene
quel dolore: sta morendo dissanguato.
※
La prima volta che
Bucky prova una macchina da scrivere, è quella di sua madre.
L’ha presa in prestito
– ovvero ha aspettato di essere solo in casa per infilarsi di
nascosto nello studio di suo padre e tirarla fuori dalla scatola di
pelle sotto la scrivania. Non si aspettava fosse così pesante, è un
bisonte di plastica e metallo che quasi gli sfugge di mano quando lo
appoggia sulla prima superficie orizzontale che trova. Non appena
quell’affare sfiora il legno, la casa si rianima e occhi curiosi di
un pubblico urlante spuntano intorno a lui come funghi.
I suoi fratelli non
risparmiano colpi quando lo prendono in giro e, nei mesi d’assenza
di Bucky, hanno affilato la linguaccia.
«Non sei troppo brutto
per diventare una segretaria?»
«Visto che non ti serve
più, posso avere io la tua divisa da sergente?»
«Se speri che qualcuno
ti chieda in moglie e faccia di te una ragazza per bene dovrai
impegnarti di più con quel cervello da gallina!»
Piccoli sciagurati,
uno non fa in tempo ad andare in guerra che quei mostriciattoli si
dimenticano chi è il fratello maggiore!
«La mettiamo così?»
Bucky risponde con una tirata d’orecchi allo sfortunato più vicino e
una gomitata alla cieca che pungola senza troppa forza il fianco
sottile di un altro di loro.
«Vuoi che ti insegni?»
Il visetto lentigginoso di Rebecca spunta da qualche parte. È un
folletto in rosa, infilata in una ridicola gonna di tulle che la fa
somigliare a una piccola bomboniera volante: a ogni sospiro della
stanza, le balze si sollevano e la piccola fluttua.
Si appende con una mano
alla camicia di Bucky; non c’è traccia di beffa tra le lentiggini
del suo visetto.
Le scocca un occhiolino
complice. «Aiutami a cacciare a pedate gli altri e ti sarai
guadagnata un allievo, signorina.»
Rebecca ride, ma non se
lo fa ripetere due volte.
Scacciano i fratelli
dallo studio, chiudono la porta e sistemano la macchina da scrivere
sullo scrittoio del padre – immobile al centro del tavolo sembra un
ordigno che Bucky non ha idea di come disinnescare.
Quando prende posto
sulla seggiola, Rebecca gli mostra la posizione corretta delle dita,
gli raddrizza la schiena, gli ordina di appoggiare la pianta dei
piedi completamente a terra e formare con le gambe un perfetto
angolo di novanta gradi.
Nulla di quello che gli
viene insegnato gli sembra necessario.
Ha imparato a smontare
e rimontare in pochi secondi qualsiasi arma l’esercito gli piazzasse
in mano, battere dei tasti su una macchina da scrivere dovrebbe
essere una sciocchezza. Eppure, a ogni nuova informazione, fa tempo
a dimenticare le precedenti, e sua sorella si trasforma in un
caporale in miniatura che lo fa sentire più inadeguato che mai.
Corsa nella sua
cameretta (lei e Bucky sono gli unici ad avere una stanza tutta per
loro, gli altri fratelli invece attendono paziente che il sergente
torni in servizio, così da vincere la sua stanza in una partita a
carte), ha recuperato dalla panchetta dei giochi la bacchetta magica
che loro madre le ha regalato per compleanno, un bastoncino di legno
con una stella di carta colorata, e lo usa per bacchettare la mano
di Bucky a ogni errore.
Dopo mezz’ora di quella
tortura, Bucky non ne può più.
Stremato, poggia una
guancia sui tasti.
Tap tap tap
È una scarica di
proiettili che incidono lettere a caso sul foglio infilato nel
rullo.
Scrivere a macchina è
difficile, tedioso e doloroso. Gli fa male il collo, le spalle
esigono un massaggio e non ha risolto un bel niente – non capirà mai
come una donna riesca a rimanere seduta al proprio posto di lavoro
per tutte le ore richieste.
※
La prima volta che
Bucky batte un’intera lettera a macchina senza l’aiuto di Rebecca, è
qualcosa di personale: è un’inchiostrata di sentimenti riversi su
carta.
Il nome di Steve non
compare mai, eppure è ovunque. Chiunque conoscesse Bucky Barnes,
capirebbe a occhi chiusi che quella non è una lettera d’amore per
una delle dame che ha corteggiato a tempo perso.
E definirla lettera non
è abbastanza.
È un saggio sull’amore.
Un trattato di cinque
pagine e mezzo su cosa voglia dire amare Steve Rogers e odiare
Captain America. Non che lo odi davvero, questo mai, ma il Capitano
appartiene all’esercito, all’America, al mondo; Steve, invece, un
tempo apparteneva alle braccia e alle risate e agli occhi di Bucky.
Nessun’altro, oltre lui, aveva mai voluto infilarsi nella sua
fragile esistenza.
Eri il sole di un
mondo disabitato e io il suo guardiano. Mio soltanto, avrei potuto
bagnarmi della tua luce e racchiuderti tra le mani senza mai
scottarmi, senza mai anelare l’ombra per dormire o cibo per mangiare
o acqua per bere. Solo te.
Eri il sole. E io la
Terra che intorno a te ruotava. Sempre. Per sempre.
Bucky appallottola le
pagine.
Non ha il coraggio di
stracciarle – anche se dovrebbe, così come dovrebbe ripudiare ogni
riga e ogni parola scritta che s’incide nella pelle come una
condanna, come un virus, come un marchio che lo taccia a bastardo
egoista.
Dovrebbe pensare alla
felicità di Steve, invece rimpiange quanto ha perso.
Dovrebbe amare una
donna, amare nel modo giusto, invece coltiva dentro sé un
morbo perverso e nuovi germogli sbocciano.
Le getta nel cassetto
del comodino; le chiude a chiave, lontane dalla luce, dai suoi
occhi, da Steve e dal giudizio di Dio. Anche se è tardi e non
importa quanto sia passato da Kreischberg[1],
non ha mai smesso di sentire al collo la freddezza del cappio che lo
trascinerà all’inferno a cui Zola l’ha destinato, dal momento in cui
lo ha scelto come cavia.
Quella è anche la volta
in cui restituisce la macchina da scrivere a sua madre e dimentica
perché se ne sia mai interessato.
※
La prima volta che lo
confessa a Steve, Bucky è ubriaco. È uno straccio che strizzato
colerebbe rum da quattro soldi
(Un altro giro
Sergente?)
e che invece lo vomita,
piegato in due sul ciglio della strada, dove la neve è una poltiglia
grigia.
(Uno per lei, uno
per noi e uno per il Natale alle porte!)
Lasciati gli Howlings al pub, è rimasto solo con
Steve e la fisarmonica di un vecchio pazzo in lontananza, che suona
al freddo e alla notte.
It seems to me, I've heard that song before
It's from an old familiar score
I
know it well, that melody
It's funny how a theme recalls a favorite dream
A
dream that brought you so close to me[2]
Steve è al suo fianco,
gli tiene una mano alla fronte e una alla vita. Lo sfiora appena –
dita a pizzicargli la camicia, ad accordargli un’anima che, se solo
glielo chiedesse, potrebbe suonare per lui ogni sinfonia mai creata.
«Per colpa del tuo
siero, mi sono ridotto a dover bere per entrambi» borbotta Bucky.
Non sa quel che dice, strascica parole che rotolano sulla lingua
senza che passino prima dal cervello.
«Io ricordo una serata
diversa, Buck: tu a ordinare per due e a rubare il bicchiere dalla
mia mano.»
«Shssss. Non parlare,
parlo io. Non posso sopportare altre chiacchiere sulla Carter, non
stasera. Hai già superato la quota.»
«Non… non sapevo
tenessi il conto.»
«Uno di noi due doveva
farlo, pal.»
Bucky non pensa.
Dice.
E non è un bene.
«Cosa credi, che non
avrei imparato? So battere anche io a macchina ora. E ti ho
scritto. Sissignore! Prendi questo, Peggy Carter! Io ti ho
scritto.» ride, una risata amara e bagnata di rum, mentre si tira
dritto in piedi e spalanca le braccia, senza sapere bene che
farsene, come ali di un uccello che non ha mai imparato a volare.
Ma per te, Steve, mi
sono buttato comunque e anche se mai ho volato, ho imparato a
cadere.
«Buon Dio, ti ho
scritto così tante volte da aver consumato i tasti; ho piantato
foreste di poemi per te, ho seminato campi di lettere e innalzato
selve d’amore. Per te, Stevie, sempre e solo per te.» di colpo
riabbassa le braccia – cade, precipita – e la voce si spegne.
E tu nemmeno lo
immagini.
※
La prima volta che
Steve lo affronta, Bucky sta morendo. O vorrebbe già essere
tre metri sottoterra, concime per i vermi.
Avrà restituito la
macchina da scrivere, ma i tasti si sono trasferiti nella sua testa
e a turno colpiscono il cervello, gli incidono capitoli interi di
rimorsi.
Tap tap tap
È sopravvissuto alla
sbornia, al mal di testa, alla luce del mattino che gli ha bruciato
gli occhi e allo spigolo del lavandino che ha preso nel fianco, ma
fuori dalla porta del bagnetto, Steve lo uccide col sorriso.
Gli tende un
bicchiere d’acqua e una compressa. «Tieni. Mi è stato detto che ieri
sera hai dovuto bere per due.»
C’è un buco nero che ha
ingoiato le ultime ore della notte appena passata. Bucky ricorda di
essere caduto – volava verso il sole, credeva di esserne immune e
il sole ha bruciato le sue ali.
E, soprattutto,
ricorda quello che ha detto a Steve.
Non lo guarda negli
occhi quando accetta l’aspirina e cerca d’affogare il rimorso in una
lunga sorsata d’acqua. Ma quando ingoia, quello è ancora lì, mano
nella mano con la vergogna.
«Per quello che ho
detto ieri sera… ero ubriaco e ho detto un sacco di cose senza
senso. Dimentica tutto quanto, ok?» agita il bicchiere vuoto e come
la sera prima, il suo braccio si muove senza uno scopo, senza una
meta, sente il vetro contro i polpastrelli che pian piano scivola
via.
Stanno entrambi
scivolando via.
Finché Steve non lo
impedisce.
La sua mano si stringe
intorno a quella di Bucky, con l’altra gli sfila il bicchiere dalle
dita e lo appoggia su uno scaffale del corridoio, in salvo. Da lui.
Da Bucky – che sta distruggendo qualsiasi cosa tocchi.
Non può credere di aver
mandato a puttane la sua amicizia con Steve. Per cosa, poi?
Steve non si allontana
e la sua mano stringe più forte. E per un attimo a Bucky sembra sia
esattamente la stessa forza con cui ieri lo tratteneva alla vita,
solo che era troppo ubriaco per accorgersene e l’alcol ha fatto da
isolante, disconnettendo la percezione del calore del suo palmo, dei
muscoli gonfi del suo braccio, del respiro così vicino.
«Ieri ti sei
praticamente addormentato in mezzo alla strada e ora non mi dai
nemmeno la chance di risponderti?» gli chiede.
Bucky scuote il capo.
«Perché non ce n’è bisogno.»
«Va bene. Allora
facciamo così: ricordi cosa ti ho detto quando ti ho parlato di
Peggy che sa battere a macchina?»
Uno, conta in
automatico il cervello di Bucky, anche se preferirebbe strapparsi le
orecchie pur di non sentire più quel nome.
Ma Dio lo odia e quella
è la sua punizione.
Sentire quel nome,
ricordare ogni parola di Steve, ricordare di aver odiato la Carter
un po’ di più e di aver deciso che avrebbe imparato a battere a
macchina.
Che idea stupida.
«Hai detto che il solo
pensiero di lei che batte a macchina ti fa sorridere.»
Avrebbe voluto fosse
il suo pensiero a farlo sorridere. Avrebbe voluto essere lui.
«E immagino tu non
l’abbia mai sentita, o avresti capito che non c’era alcuna accezione
romantica in quello che ho detto.»
«C-cosa?» Bucky batte
le ciglia. I colori del mattino si incollano alla retina più vividi
di quanto non fossero un attimo prima.
«Peggy batte a macchina
come fosse su un campo di battaglia. Quando colpisce i tasti, è come
ricevere una mitragliata da parte dell’intero esercito britannico.
Howard va in giro dicendo che ogni volta che tira fuori i fogli dal
rullo, li trova bucati. Sono certo che sia un’esagerazione, ma se
l’avessi sentita anche tu, inizieresti a crederlo possibile.»
Lentamente, quasi
avesse paura di doversene pentire, Bucky solleva lo sguardo,
incontra quello di Steve e il suo sorriso rassicurante.
«Lo troveresti ilare,
Buck. Soltanto ilare.»
«Non… non ne sei
innamorato?»
«No. La nomino perché
la trovo una donna straordinaria, oltre che un’amica preziosa. Ma lo
stesso vale per Howard e per i Commandos.»
Bucky si sente insieme
sollevato e schiacciato a terra dalla propria stupidità.
Non sa più nemmeno cosa
pensare, cosa provare. Lo sguardo tenero di Steve mentre
parla della Carter è ancora lì. Le sue labbra si schiudono sul nome
dell’Agente e i suoi occhi
«Quante volte l’ho
nominata ieri?»
I suoi occhi
«Eh?»
«Hai detto che tieni il
conto. Quante volte?»
«…cinque…»
guardano lui.
«Bucky.»
Bucky si riprende, si
schiarisce la gola e ripete a voce più alta: «Ho detto cinque.»
«Bucky.»
«Cosa?»
«Bucky.»
Non osa più parlare,
non osa più muoversi.
Steve si china, preme
la fronte sulla sua e in un sussurro chiama il suo nome.
«Bucky.»
Quattro.
«Bucky.»
Cinque.
«Bucky.»
Sei.
«Bucky.»
Sette.
«Posso continuare se
vuoi, Buck.» Otto. «La quota di oggi non l’ho ancora raggiunta.»
Bucky si tasta il petto
con la mano libera, dove un buco grande quanto il suo cuore, si sta
rimarginando. Ai suoi piedi tintinnano tutti i proiettili invisibili
che il suo corpo ha rigettato e che Steve non gli ha mai
sparato.
«Può... può bastare. Non
voglio che lo consumi.» si sente mormorare.
Qualcosa gli bagna la
pelle, gli riga le guance.
«Stai piangendo?»
«N-no!» si affretta a
dire, anche se dalle labbra lecca via sapore di sale. «Mi… mi è
entrato qualcosa nell’occhio, probabilmente è la tua stupidità.»
Steve ride piano,
soffice, e con una carezza di pollici gli asciuga le lacrime.
«Posso baciarti?» gli
chiede.
Nel petto di Bucky, il
cuore batte con la forza di un temporale. Quel suo dannato cuore
egoista, ricostruito a nuovo.
Dio lo odia.
Ma l’amore di Steve è
più grande.
«Sì.»
※
Il loro primo bacio, sa
di sale e dentifricio.
Sono nel piccolo
corridoio del minuscolo appartamento di Steve, gli abiti
stropicciati di Bucky puzzano di vomito e rum annacquato, alle sue
spalle il termosifone gli sta bruciando la schiena e sul fianco si
sta aprendo un livido bluastro, là dove ha colpito il lavandino.
Ma Bucky ha le braccia
intorno al collo di Steve e lo bacia come se il suo mondo intero
iniziasse e finisse nella sua bocca, e Steve lo stringe, quasi lo
solleva di peso e sospira il suo nome all’infinito, come fosse una
canzone d'amore.
※
La prima volta che
Bucky scrive a macchina per Steve, è perché si è innamorato di
un’idiota e non può farci niente.
Non può permettersi di
sprecare altri fogli di carta, sua madre ha già minacciato di
diseredarlo. Inoltre si è assicurato di far sparire ogni prova
del suo amore per Steve, consegnandogli la lettera che ha scritto
per lui e l’altro, ovviamente, è troppo testone per ascoltar
ragioni.
«Perché vuoi farti male
per forza?»
«Posso sollevare una
motocicletta con una mano sola, non sarà una macchina da scrivere a
uccidermi, Buck.»
«No, ma giuro che
vorrei farlo io.»
Steve ruota gli occhi
al soffitto di una stanza chiusa a chiave.
Ha appoggiato il dorso
della mano sul rullo della macchina da scrivere e aspetta che Bucky
inizi a scrivere.
«E va bene, peggio per
te!» Non ha nemmeno senso discutere con lui.
Le lettere si incidono
nel suo palmo una dopo l’altra, sempre nello stesso punto – battiti
di cuore e inchiostro che Steve raccoglie con la sua mano. Nella
sua mano.
Tap tap tap tap
Tum tum tum tum
Guarda la fuga dello
sguardo di Bucky che rincorre i tasti da premere, l’eleganza delle
sue dita che si muovono su un percorso predefinito. È lento, non sa
usare tutte le dita, ma la musica che compone è pura poesia
ed è solo per lui.
Quando finisce di
scrivere – un’unica frase – Bucky si allontana dalla macchina e gli
sorride con un velo d’imbarazzo.
«Ho scritto “sei
proprio un cretino, pal”.» Il sorriso muta in una curva monella.
Steve scruta il proprio
palmo e sorride. «Allora ti conviene tornartene a scuola e imparare
lo spelling, perché l’hai scritto male.»
Si baciano intrecciando
le dita, macchiando entrambi i palmi d’inchiostro e lettere nere
– sporche, ed eppure così giuste – accavallate l’una sull’altra:
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