«Could you hug me?»
Jongin era parecchio bravo, e questo lo sapevi bene.
Almeno un paio di volte alla settimana tu e il collega vi incontravate alla
saletta da biliardo al piano inferiore, un’occasione la vostra per riuscire a
staccare dalla mole notevole di lavoro che vi attendeva ogni giorno.
La stecca colpì precisa.
Palla in buca.
Partita conclusa.
Sorridesti scuotendo la testa, non importava quanto potessi provarci, riusciva
a stracciarti ogni singola volta. Mai avresti comunque rinunciato a quelle ore,
dove l’atmosfera lasciava spazio a pensieri leggeri e muscoli stesi. Godevi
appieno della libertà emotiva concessa lontana dalle telecamere e dal palco.
Potevi essere te stesso, respirare a fondo, parlare di cazzate e soprattutto
toglierti il sorriso finto costruito appositamente per i media.
E questo lui lo sapeva, nonostante fosse molto più spontaneo di te con tutti
quanti; Jongin era così anche a lavoro, una dote che
invidiavi nascondendo quelle sensazioni con un po’ di vergogna.
«Ti ho proprio stracciato anche stavolta. Dì la verità, mi fai vincere sempre
perché ti sto simpatico.»
«Che idiozie, sai bene che sono un imbranato cronico al biliardo.»
«E allora perché continui a giocare? Potremmo anche fare altro, no?»
Certo, aveva senso. Perché, t’aveva chiesto.
Semplice.
Era adorabile quando si concentrava per dare il meglio di sé ma non l’avresti
ammesso nemmeno sotto tortura.
«Perché sono un masochista, ecco perché.»
Rise. Rise con quella risata genuina e limpida che lo contraddistingueva
contagiandoti con il suo buonumore. Si bloccò un attimo dopo assottigliando gli
occhi e fissandoti insistentemente.
Ti sentisti avvampare.
Balbettasti ricomponendoti, quelle iridi erano l’unica cosa in grado di
scatenare il più grande disagio in un solo battito di ciglia. Il suo.
Allungò la mano a sfiorarti il viso muovendo il pollice con estrema delicatezza:
forse un residuo di trucco dagli scatti del set fotografico a tema a cui
avevate partecipato qualche ora prima. Era una motivazione irrisoria ma deglutisti
a fatica arretrando colpito da un gesto inatteso quanto intimo, andando a
sbattere contro il tavolo da biliardo e sbilanciandoti su di esso.
Jongin ti sovrastava, la stecca scivolata a terra con
un suono secco.
«Potresti abbracciarmi?»
Avresti voluto rispondere “come, scusa?”
Avresti pure potuto, non sarebbe stato affatto fuori luogo.
Muto, perso, spiazzato.
Un secondo, due, tre… cinque, otto, dieci. I tuoi occhi non erano in grado di
staccarsi dai suoi, scuri e vivi, brillanti, socchiusi da quelle folte ciglia
ancora tinte dal mascara.
Te l’aveva chiesto ma non aveva atteso risposta. Steso su di te, inspirava il
tuo profumo dalla clavicola. Non era affannato come quando vi allenavate, non
aveva il respiro corto come dopo le prove di una coreografia tosta.
Il suo petto si muoveva lento.
Quieto.
Non come il tuo, scosso dal cuore che stava muovendosi all’impazzata.
Eri fregato, completamente fregato. Te n’eri accorto soltanto per un innocente
abbraccio in sala relax.