warning: post-movie; slash;
internalized homophobia; h/c;
I
personaggi appartengono agli aventi diritto
Prizrak Volgograda
———————— 02. Gloria in
excelsis deo
————————
C’era voluta un notte intera perché Illya riuscisse a innalzare un
muro abbastanza solido, dietro cui gettare i resti di un fantasma e
scampoli di un passato chiuso con un colpo di pistola.
Da quando,
nell’ufficio di Waverly, lui e il direttore avevano discusso della
missione – e di Dmitriy, della sua morte, del suo tradimento –,
ricordi che pensava di aver seppellito in un buio vicolo di Mosca
erano tornati a tormentarlo.
“Può rimanere in
panchina per questa volta, Mister Kuryakin, e lasciare che i suoi
due partner se la cavino da soli. Sono sicuro capiranno.”
Illya non
era riuscito a decifrare l’espressione cucita ad arte sul volto del
direttore della U.N.C.L.E., mentre l’uomo lo invitava a mettersi da
parte e lasciare che altri sistemassero i casini combinati da lui.
Aveva pensato fosse stato un modo per testare la sua lealtà alla
causa, il suo impegno verso la U.N.C.L.E.. Ogni superiore che aveva
conosciuto, perfino il capo del cowboy, si era rivelato un uomo
manipolatore e meschino, per cui i fini giustificavano sempre il
mezzo; era più logico pensare che così fosse anche per Waverly,
senza illudersi che dietro alle sue parole ci fosse una genuina
preoccupazione umana.
Eppure per quanto
Illya si fosse rifiutato di farsi da parte, fin dall’inizio del
viaggio non aveva fatto altro che rivedere innanzi a sé lo sguardo
tagliente di Dmitriy e le labbra incrinate in un sorriso storto e
sinistro. C’era una pistola nella sua mano, il dito sul grilletto e
negli occhi grigi, metallici, la volontà di ucciderlo.
Ya znal chto oni prishlyut tebya, Il’ja [1]
Ma da tempo,
l’allievo aveva superato il maestro: Illya aveva sparato per primo.
Non c’era stato alcun rumore quando Dmitriy era caduto in terra; la
neve aveva attutito ogni cosa, perfino i suoni di una città che,
intorno a lui, all’improvviso si era fatta arida e insignificante.
Non ricordava se
quella notte avesse piovuto o se a bagnare le sue guance fossero
state le lacrime. Contava solo aver portato a termine la missione.
Grazie a lui era tutto finito. Doveva esserlo.
Eppure, perfino
nell’aria riciclata del bunker, ad ogni respiro, Illya
inghiottiva odore di sangue, neve e polvere da sparo.
Tebe sledovalo by luchshe pritselit'sya, Il’ja [2]
Dmitriy era tornato dall’inferno.
Viale Lenina pullulava di turisti infagottati in abiti pesanti. Tra
loro, Gaby e Napoleon passeggiavano a braccetto, scattando foto
della zona, degli accessi a possibili vie di fuga e ai palazzi
circostanti.
Se non li avesse
conosciuti e non avesse mai studiato i loro file, se non avesse
saputo che erano spie di governi (un tempo) nemici al suo,
anche Illya li avrebbe scambiati per una coppietta di innamorati.
Gaby aveva sulle
labbra piene un sorriso ribelle e sensuale, strattonava il braccio
del cowboy con la prepotenza di chi l’attenzione la pretendeva e la
meritava e, in alternativa, avrebbe saputo come fartela pagare. Ma
all’americano non servivano scuse per concedergliela: il braccio le
circondava la vita sottile e l’accompagnava in ogni singolo passo
ancor prima che glielo chiedesse, con la stessa virile eleganza con
cui l’avrebbe condotta in un valzer. Nessuno meglio di Solo sapeva
come vendere l’amore a chiunque, con chiunque – era un
dannato illusionista, viveva d’inganno e chissà quante altre volte
aveva recitato quella parte.
Accomodato fuori,
sul terrazzino esterno di un bar della zona, Illya lo inquadrò con
l’obbiettivo di una macchina fotografica. Per poco non sobbalzò
sulla sedia quando Napoleon si voltò a fissarlo e sorrise alla
camera, con quella sua bellezza da attore mancato.
Con un gesto secco
appoggiò la macchina sul tavolino, vicino a una tazza di caffè amaro
– che fossero maledetti il sesto senso, il sorriso e la
stupida faccia fotogenica del cowboy!
Ancora piccato,
spostò l’attenzione all’uomo di fronte e al bicchierino di vodka che
aveva svuotato non appena gli era stato servito: Ivanov.
Seduti allo stesso
tavolino, la posa rigida, maglioni neri e cappotti scuri, sembravano
due sculture di ghiaccio. Al centro della piazza, il Monumento
degli eroi della difesa della Zarina Rossa si innalzava fiero e
con sentimenti di speranza per una guerra ormai passata; loro, al
contrario, la guerra, i bombardamenti e il sangue versato, se la
portavano ancora appresso.
«È tutto pronto
per stasera?» chiese, nella loro lingua.
Ivanov rispose con
una smorfia.
Illya riconobbe lo
stesso profondo disgusto che aveva dovuto sopportare fin dai tempi
dell’accademia militare, quando le reclute lo chiamavano traditore
alle spalle e, di fronte, il veleno che sputavano era perfino più
acido.
Poco male, si era
già preso la sua rivincita quando si erano stretti la mano e
gliel’aveva stritolata, fino a sentire le ossa scricchiolare sotto
la presa – a ricordargli tacitamente che erano dalla stessa parte e
combattevano in nome dello stesso Paese.
Ivanov, però, non si
era lasciato intimidire.
«Soltanto uno
come te avrebbe potuto trovare soddisfazione nell’accompagnarsi a un
porco e alla sua sgualdrina» lo disse senza preoccuparsi di
tenere la voce bassa, senza alcuna intenzione di tenere l’argomento
tra loro, affinché tutti sapessero.
Illya incrociò le
braccia al petto.
L’aria innevata di
Volgograd gli stemperò colore sulla pelle bianca del volto e le
folate lottarono contro la tesa della coppola calcata in testa, in
una guerra impari per cercare di farla volare via.
Per un attimo,
accarezzò l’idea di afferrare la testa dell’agente tra i palmi e
schiacciarla come una noce di cocco; invece si limitò a stringere
il bicipite sinistro con la mano destra, fino a sbiancare le nocche.
«Puoi pensarla
come vuoi, ma non cambierà il fatto che noi tre siamo qui per
proteggere gli interessi della Russia, mentre il tuo compito è
quello di farci da cameriere: noi ordiniamo, tu accorri con quanto
richiesto.» si trattenne dall’esibire un sorriso e forse fu un
bene, perché non sarebbe durato a lungo.
«Non darti arie,
Kuryakin. Sai benissimo che se siamo arrivati a questo punto è solo
per causa tua: nelle tue vene scorre il sangue di un traditore, lo
ha dimostrato tuo padre e lo hai dimostrato tu. Kiselyov è vivo
perché tu non hai portato a termine la missione.»
L’indice destro di
Illya picchiettò nervosamente sulla manica del cappotto.
«Qual era il
problema, era così difficile sparargli? O è perché non eri solo il
suo cagnolino, ma anche la sua puttana? Sei uno di quelli, un
inverso a cui piace il cazzo? Per questo non hai problemi a
respirare la stessa aria dello yankee. Traditore e depravato.»
Ivanov rise. Una risata sottile e tagliente, come il rumore di una
lama che viene affilata. «Dimmi, piangerai se qualcosa dovesse
andare storto e il tuo nuovo amico succhiacazzi dovesse morire? Gli
incidenti capitano.»
L’indice si fermò
sollevato, la falange piegata come quando poggiava sul grilletto –
pronto allo sparo.
Si tirò indietro di
scatto; le gambe della sedia stridettero sulle piastrelle in legno
di rovere del terrazzino – gli avrebbe infilato l’intera mano in
bocca e gli avrebbe strappato lingua, tonsille, budella… tutto!
–, ma prima che potesse alzarsi in piedi, due mani pesanti gli
schiacciarono le spalle verso il basso, rigettandolo seduto.
Dietro di lui –
sopra di lui? – Napoleon si tese in avanti. Aveva lasciato Gaby in
piazza, si era avvicinato senza essere notato, e ora usava tutto il
peso del suo corpo, per riuscire a vincere la forza fisica di Illya.
Sorrise divertito, mostrando una dentatura bianca e dritta, ma le
dita affondate nel cappotto e nella carne di Kuryakin raccontavano
un’altra storia e tremavano per lo sforzo; soltanto per quello Illya
evitò di tirargli una testata e abbandonarlo sanguinante in terra.
Per nessun altra ragione.
Gli occhi azzurri di
Solo si mantennero fissi su Ivanov, quando prese a parlare: «Spero
ti sia divertito a ripercorrere il viale dei ricordi insieme a Peril.
Posso solo immaginare che i giorni d’infanzia in cui ti ha fatto
ingoiare la polvere ancora brucino, ma non te l’ha insegnato la
mamma che l’importante è partecipare?»
Ivanov stritolò
l’angolo della tovaglietta di plastica a scacchi bianco-arancio che
ricopriva il tavolino; l’altra mano era sparita dietro la schiena, troppo
vicina al calcio della pistola nascosta sotto al giaccone. «Non mi
provocare, sporco yankee.»
Illya sapeva che non
sarebbe stato tanto idiota da usarla in pieno giorno, davanti agli
occhi testimoni di un’intera piazza, ma doveva ammettere che le
provocazioni del cowboy sapevano sempre colpire nei punti giusti.
«Non lo farei mai.»
il sorriso si fece più sfacciato «Ci vediamo stasera. Non fare
tardi, Igor.»
Davanti all’errore
sul nome, Ivanov diventò paonazzo. «Verme schifoso…»
Napoleon si tirò
indietro con indifferenza, liberando finalmente le spalle di Illya
del suo peso e la schiena del calore del suo petto.
L’aveva percepito
per tutto il tempo e non l’aveva gradito, così come non aveva
gradito il suo intervento.
Non aveva bisogno
di aiuto.
Attese che iniziasse
ad allontanarsi e continuò a tenere d’occhio Ivanov.
Non aveva bisogno
di una balia.
Aspettò di essere
sicuro che fosse tornato da Gaby, iniziando ad avviarsi verso l’auto
con cui erano arrivati, e che entrambi fossero troppo lontani per
sentirlo.
Si alzò, si avvicinò
all’agente e appoggiò una mano sullo schienale della sua sedia,
trascinandolo indietro di peso, affinché lo guardasse in faccia.
Non aveva bisogno
di Napoleon Solo.
«Se durante
questa missione, qualcosa dovesse accadere a uno dei miei partner,
mi assicurerò personalmente di strapparti il cuore dal petto, Agente
Ivanov. E posso prometterti: non fallirò.»
No, non aveva
bisogno di lui.
E forse, se l’avesse
ripetuto abbastanza a lungo, sarebbe riuscito finalmente a
convincersene.
Ivanov trovò la
forza di sorridere, le labbra piegate in una curva sinistra, che
infastidirono Illya, ma non lo stupirono affatto – non esistevano
russi codardi.
Lo abbandonò, senza
salutare.
Raggiunse l’auto, in
cui Gaby aveva già preso posto.
Napoleon con un
braccio piegato sul tettuccio, sembrava in attesa. Illya si aspettò
una battuta idiota, un occhiolino spavaldo, il ghigno conquistatore,
ma quando ne incrociò lo sguardo, gli occhi del cowboy erano roventi
come non li aveva mai visti e le labbra piegate in una smorfia che
sapeva di dolore.
Illya deglutì.
Si chiese quanto del discorso di Ivanov avesse ascoltato. Se anche lui, come
l’agente, credeva che avesse voltato le spalle alla missione.
Preferisco avere
nel mio team il russo che sa riconoscere un nemico qualora se lo
trovasse davanti.
E in quel momento,
Illya non ebbe dubbio alcuno nel riconoscerlo lì davanti a sé:
quello era lo sguardo di un nemico.
Da
quando erano tornati al bunker, per studiare le foto che Gaby e
Napoleon avevano scattato, tutto sembrava tornato come prima.
O quasi.
In piedi davanti
alla specchiera della sua stanza, che invece di trucchi e profumi
ospitava una valigia e il suo fucile di precisione, Illya infilò un
indice nel colletto del dolcevita, allargandolo sul collo. In ogni
sfiatata riusciva a sentire la pressione di una mano invisibile che
lentamente gli chiudeva la gola, lasciandolo boccheggiante – aveva
lo stesso peso della mano che Napoleon gli aveva poggiato sulla
spalla quella mattina, ma se fissava tra i riflessi della polvere,
poteva scorgere una sagoma diversa. Alta, bionda, il taglio militare, la mascella squadrata…
Prese un profondo
respiro.
A breve Ivanov li
avrebbe condotti dal compratore.
Doveva assicurarsi
solo di avere abbastanza fiato nei polmoni per resistere all’apnea
di un’altra notte, poi tutto sarebbe tornato alla normalità, lontano
da fantasmi, fallimenti e traditori. Perfino le parole del cowboy
sarebbero sbiadite nella neve di Volgograd.
Preferisco avere
nel mio team il russo che sa riconoscere un nemico qualora se lo
trovasse davanti.
Lui era quel russo.
Aveva ucciso
Dmitriy una volta, poteva farlo ancora. E, questa volta, si sarebbe
assicurato rimanesse morto.
Bussarono alla
porta.
Illya ignorò i
colpi, ma quando la voce di Gaby arrivò dall’altra parte («Illya,
puoi venire ad aiutarmi?») qualsiasi pensiero venne scaraventato in
un angolo della stanza.
Allarmato, si precipitò ad aprire. Ancor
prima di realizzare quanto stupido potesse essere, gli balenò alla
mente ogni orribile scenario – uno dei suoi incubi peggiori,
riguardavano Gaby che piangeva ferita alla mano, per aver preso a
ceffoni la faccia di Solo; per quanto il cowboy si meritasse quello
e molto di più, sapeva bene che avesse la testa dura.
Sul corridoio,
ovviamente, Gaby non piangeva e non era ferita.
Con un braccio
piegato al seno, unico sostegno dell’abito che indossava, lo fissò
imbronciata per aver perso la sua battaglia personale contro la
chiusura.
Confuso – più per i
troppi filmini mentali che si era fatto in una manciata di secondi e
che in ancor meno erano andati distrutti – la guardò voltarsi,
mostrando la schiena scoperta: falde di seta nera scivolavano in
terra lungo i fianchi, come ali spezzate di una farfalla, e la
scollatura era così ampia che scopriva la parte superiore dei
glutei.
Illya si affrettò a
risollevare lo sguardo, puntandolo parecchio più in su rispetto alla
testa di Gaby, verso la parete di fronte. Qualche metro più a destra
e avrebbe trovato la porta della stanza di Solo.
Dal basso, la
tedesca rovesciò il capo all’indietro e il broncio si sciolse in un
sorriso compiaciuto di labbra già dipinte di rosso, come se avesse
previsto fin dall’inizio l’espressione sul volto dell’uomo. «Non
fare quella faccia, sappiamo entrambi che certe cose non posso
chiederle a Solo.»
Illya si strinse
nelle spalle, rigettando ogni ondata di imbarazzo che sentiva
pizzicarlo sotto al colletto del dolcevita. «Questa è mia faccia
normale.»
«Allora muovi le tue
mani normali e aiutami ad allacciami, prima che perda quest’affare
per il corridoio.»
«Potresti chiedere
più gentilmente.»
«Questa è la
mia richiesta gentile.»
Illya sembrò
rifletterci, ma convenne che per gli standard di Gaby lo era stata anche
fin troppo.
Annuì, portò le mani
al suo corpo sottile e il ricordo di Dmitriy scivolò via, dietro
alle curve sode, alla pelle liscia e alla prepotenza della sua
piccola smonta-macchine.
Il
riscaldamento sotterraneo attraversava le pareti in un intreccio di
tubi in cui passava acqua e aria calda, ma il mosaico di mattonelle
che ricopriva il pavimento del corridoio era gelido.
Gaby dondolava sulle
gambe e si teneva in punta di piedi, nudi, raggelati, piantando
occhiate ostinate dietro di sé, all’indirizzo di Illya, affinché non
osasse mettere in discussione la sua resilienza – ma dopo Berlino,
dopo Roma, dopo l’isola dei Vinciguerra, era l’ultima cosa che il
russo si sognava di fare.
Raccolse invece i
lembi di seta nera tra le mani, iniziando ad allacciarli.
L’abito era nuovo di
boutique – lasciato da Ivanov insieme alla strumentazione, immaginò;
le asole erano strette e dovette fare pressione col pollice,
strattonando la stoffa per far entrare il primo bottone.
Gaby incurvò la
schiena con uno sbuffo infastidito.
Illya allentò la
presa quasi immediatamente.
La tedesca sbuffò di nuovo, questa
volta contro di lui. «Ti assicuro che se mi stessi facendo male te
lo direi. Prendendoti a schiaffi.»
Illya serrò la
mascella.
Era straordinario
come quella ragazza riuscisse sempre a mettergli addosso
un’irritazione elettrica: aveva voglia di farla tacere a forza,
voglia di sbatterla al muro e voglia di baciarla, tutto insieme, ed
era sicuro che dietro alle ciglia infoltite dal mascara e al
sorrisetto da gazza ladra, lei lo sapesse perfettamente. Era una
maledetta piccola strega che aveva in sé il fascino multietnico di
chi il mondo non l’aveva mai girato, ma l’aveva respirato da altri,
appropriandosene di prepotenza: era forte come una donna russa,
piccola come una bambola francese e bella come una regina
dell’antico Egitto. Gaby Teller era il ritratto di ogni donna;
innamorarsi di lei sarebbe stato naturale.
Eppure…
Illya sforzò
l’ingresso di un altro bottone, ricucendo lentamente le ali di
quella splendida farfalla velenosa.
No, non c’era alcun
eppure, essere attratti da lei era quanto di più logico e
naturale ci si potesse aspettare da lui e così era. Senza eppure.
Senza forse. Senza dubbi.
Gaby allungò una
mano dietro di sé, a tentoni cercò il fianco del russo, colpendolo
con la punta delle dita.
«Quando la
missione si sarà conclusa, voglio visitare la città.» pronunciò
in russo – accento tedesco e tono pretenzioso compresi nel
pacchetto.
Per Illya non era
stato un problema intuire la richiesta di farle da guida, e il
tentativo di abbindolarlo usando la sua lingua nativa era solo da
apprezzare.
Sorrise.
Piccola strega.
«Ti mostrerò, ma
altre città russe più belle di questa» le rispose in americano.
Gaby scrollò le
spalle sottili, su cui lui terminò di avvolgere le ali di seta.
«Possiamo visitare anche le tue preferite, se ci tieni. Mosca per
esempio; ma in quel caso sarà meglio rimettere Solo su un aereo per
New York.»
Le stirò le pieghe
invisibili dell’abito: una carezza delicata che seguì la curva dolce
della schiena e si fermò parecchio prima del fondoschiena.
Un bolo d’ansia si
era formato all’altezza dello stomaco all’ida di visitare Mosca
senza il cowboy. Era la cosa giusta da fare, il KGB aveva troppi
conti in sospeso con il pupillo della CIA, e anche se avrebbe
assaporato sbattere su quella faccia arrogante le meraviglie
dell’architettura russa e di quello che la sua patria poteva
offrire, sarebbe stato come trascinare la volpe davanti alla canna
del fucile del contadino.
Volgograd era già abbastanza pericolosa
per il cowboy.
Ivanov era già abbastanza pericoloso.
In lui Illya aveva
rivisto il se stesso di un tempo, la stessa voglia pruriginosa di
aprire il petto dell’americano in due e mettere in mostra l’abominio
che doveva essere il suo cuore nero. Le minacce velate dell’agente
non servivano a dare aria alla bocca, sapeva bene che oltre al
recupero dei progetti e la loro restituzione alle casseforti del
KGB, Ivanov aveva altri ordini – con tovarishch [3]
Oleg c’era sempre qualcosa di più, qualcuno di cui liberarsi, meglio
se figlio della Terra Libera.
E non sarebbe l'unico problema.
La Russia era la
casa di Illya, il KGB la sua gente. Una volta tornato dal suo padrone,
nessuno poteva assicurargli che lo avrebbero lasciato di nuovo tra
le braccia della U.N.C.L.E..
«Mosca è città
regina, non sono sufficienti due occhi e vita intera per ammirare
tutti gioielli che veste, tempo potrebbe non bastare» mormorò.
«Ne troveremo altro.
Possiamo chiedere a Waverly qualche giorno in più di vacanza,
comprenderà.»
Illya aggrottò la
fronte, disorientato dal concetto di vacanza. «No, se ci sarà altra
missione importante.»
Gaby sollevò le mani
alla nuca, all’anulare la perla di Tahiti spiccava su un anello di
fidanzamento che tornava di nuovo utile [4],
e tra le dita stringeva un’elegante spillone in oro bianco. «Prima
di essere agenti, siamo esseri umani, Illya… e… Oh, dannato affare!»
s’interruppe, imprecando contro lo spillone e i rivoli castani che
continuavano a sfuggire dallo chignon, costringendola a raccoglierli
da capo – era più brava con macchine e motori, che non con le
acconciature.
Illya le raccolse le
dita tra le sue, più grandi e più esperte. C’erano state volte –
rare, ma di cui serbava con gelosia il ricordo – in cui aveva fatto
lo stesso per sua madre, quando ancora la sua famiglia era la
benvenuta ai galà di Stalin e l’onta del tradimento non insozzava il
nome dei Kuryakin.
Una volta terminato,
Gaby si voltò. Il “grazie” scivolato dalle labbra quasi come
una gentile concessione, mentre riprendeva il filo del discorso:
«Quello che voglio dire è che abbiamo bisogno di una pausa. Perfino
tu.»
«Sciocchezze. Tu ha bisogno perché sei
donna, e cowboy è cresciuto ingozzandosi di dogmi di società debole.
Ma io, al contrario –»
«Non te l’hanno
insegnato che è da zotici vantarti con una signora di quanto ce
l’hai lungo, Peril?»
Illya sbuffò. Doveva
immaginare che parlando del diavolo, Solo avrebbe fatto la sua
aggraziata apparizione.
Lo guardò uscire dal
bagno e sfilare davanti a loro come in passerella, vestito solo di
un’elegante vestaglia che dubitava potesse essere appropriata per un
uomo – e l’avrebbe trovata indecente perfino indosso a una donna. La
cintura in seta blu, che Napoleon aveva allacciato alla vita, era più
per bellezza che altro e non serviva assolutamente a niente: i lembi
della vestaglia scoprivano quasi interamente il torso nudo e
villoso, su cui minuscole gocce d’acqua rotolavano lungo la pelle
tracciando strade che conducevano troppo in basso. L’unica
fortuna era che aveva avuto abbastanza decoro da infilarsi un paio di
boxer; Illya ne intravide solo la banda dell’elastico, ma se lo
conosceva bene, poteva immaginare fossero di marca, di cotone e –
considerato che lui li avrebbe preferiti neri – dovevano essere
bianchi.
Napoleon si fermò
innanzi a Gaby; ammirò l’abito, la donna e la bellezza in cui l’uno
risaltava grazie all’altra.
«Sei uno spettacolo
per gli occhi, mia cara» le disse, la voce ammaliante e il sorriso
da maschio alfa e sciupa femmine che riusciva a strattonare i nervi
di Illya, tirandoli fuori dalla pelle, all’aria, dove bruciavano
scintille.
«Faccio quello che
posso, Solo» miagolò lei, leccando il sorriso, bella e felina.
Napoleon rise a
bocca chiusa. «Ora c’è solo da sperare che non diventi una
distrazione per Peril e il suo compagno rosso.»
«Qualcosa mi dice
che l’unica distrazione per loro sarà quella di decidere chi avrà
l’onore di spararti per primo.»
«In questo caso,
punto tutto su di te, Peril, non mi deludere.»
Illya non si accorse
che Napoleon aveva cambiato bersaglio ed era passato a guardare
proprio lui, finché non lo vide alzare lo sguardo in alto, ai suoi
capelli, per poi abbassarlo con estenuante lentezza fino ai suoi
piedi, scandagliandone il corpo un centimetro alla volta, come se
avesse posseduto infrarossi in grado di superare la barriera degli
abiti.
Si sentì nudo ed
esposto – e, per qualche motivo, sporco. Strinse i pugni,
resistendo all’impulso di voltarsi e andarsene altrove, così come a
quello di sbattere le nocche sul suo grugno e spalmarne la sagoma al
muro.
Napoleon sospirò
sconsolato, come se quanto avesse trovato in lui non fosse stato poi
granché. «Spero mi perdonerai se, invece, tralascio i complimenti
per te. Preferisco che il nostro rapporto non si basi sulle
menzogne.»
Il bolo d’ansia di
poco prima si avvolse di rabbia, Illya lo buttò giù, sul fondo dello
stomaco. «Invece di preoccuparti di mio abito che nessuno vedrà,
pensa a ritrovare tuo pudore e tuoi vestiti. Missione prevede che tu
vada a teatro, non tra lenzuola di prostituta.»
Napoleon sorrise,
allargò le braccia e si mise in posa.
Lui e quella sua
dannata vestaglia. Lasciava davvero troppo poco all’immaginazione,
cosa che Illya avrebbe preferito più che volentieri. Non ne aveva
mai posseduta una particolarmente vivida: era un uomo pratico,
imparava in fretta, ma imparava guardando, provando, sperimentando,
sentendo sulla pelle il fuoco del fallimento e imponendosi di non
provarlo mai più. Perfino negli scacchi la sua abilità era frutto di
studio e preparazione mentale.
Se non avesse mai
visto Napoleon in certi atteggiamenti, non sarebbe mai stato in
grado di capire con quanta arroganza sapeva presentarsi a una donna,
alla conquista di un posto tra le sue cosce; se non ne avesse mai
ascoltato la voce, non ne avrebbe mai immaginato la nota roca,
incendiaria come whiskey invecchiato e se, in quel momento,
non ne avesse visto il corpo
statuario, non avrebbe mai neanche lontanamente pensato di poterlo
trovare così fastidiosamente eccitante.
«Potresti sempre aiutarmi, come hai
aiutato la nostra Gaby» chiocciò l’americano, come se sapesse
perfettamente l’effetto che la sua voce aveva sul prossimo, come se
conoscesse ogni battito del cuore di Illya e potesse chiamarli per
nome, affinché rispondessero a lui, ogni dannata volta.
Illya distese le dita sulle cosce.
«O potrei prendere te a calci e insegnarti strada per tua stanza.»
«Messaggio recepito: sarà per la
prossima volta.»
«Sarà per mai» Sibilò. Doveva
pensare ad altro – ai progetti rubati, alla missione, a… no,
non a Dmitriy. Masticò un insulto a denti stretti e, prima che il
cowboy aggiungesse altro, lo interruppe con un gesto della mano
«Aspetta qui. Ho cosa per te.»
Si voltò, sparendo in camera, ma non
abbastanza in fretta – o abbastanza lontano – da potersi evitare di sentire
il commento idiota che ne seguì: «Aww, Peril, cosa festeggiamo? Io
non ti ho fatto alcun regalo.»
Si pentì di non aver sbattuto la
porta, dando alle cazzate di Napoleon modo di entrare e seguirlo.
Raggiunse la specchiera e la sua valigetta, fece scattare la chiusa
e ne afferrò due oggetti piccoli, della grandezza di un bottone.
Quando tornò sui suoi passi,
Napoleon sorrideva, ma lo studiava con un certo timore che Illya
accolse con piacere, allungando la mano chiusa verso di lui.
Un paio di piccole cimici caddero
sul palmo della sua mano.
Gaby tese il collo per guardare e di
riflesso accarezzò la perla del suo anello.
Napoleon inarcò un sopracciglio.
«Sono cimici di fabbricazione russa.»
«Complimenti cowboy, hai un dono naturale per
notare sempre ovvio.»
Si grattò il setto nasale con una
punta di sdegno. «Peril… Perché mi stai dando le vostre
cimici, quando sai benissimo che ho già le mie?»
Illya lo sentì pesare con cura ogni
parola e per un attimo si godette il dolce sapore della rivicinta:
«Perché avevi, Cowboy. Ora sono in cestino di spazzatura.»
Napoleon sgranò gli occhi. «E di
grazia, cos’avevano che non andasse?»
Illya incrociò le braccia al petto,
lasciando che la risposta gli salisse agli occhi azzurri e nella
smorfia disgustata. Avrebbe potuto dirgli a chiare lettere che tutto non andava in quei suoi rottami di scarsa tecnologia, che era inutile rimpiangere quelle porcherie mal costruite, che l'attrezzatura russa era meglio e che quella era
una gara che lui e l’America avevano perso da un pezzo, fin da quando la sonda Luna
2 [5]
aveva attraversato l’immensità dello spazio, per atterrare a ovest
del Mare della Tranquillità[6],
là dove nessuna tecnologia americana era mai riuscita ad arrivare.
Ma trovò il silenzio molto più soddisfacente.
Napoleon incassò il colpo. «Non
c’era bisogno di essere così drastici» mormorò, mentre si passava
una mano tra i capelli.
La doccia ne aveva accentuato le
onde ribelli. In un colpo solo la rivincita di Illya non gli sembrò
più così dolce e si trovò a combattere contro l’istinto di toccare
uno dei ciuffi che si arrotolava con arroganza sulla fronte di
Napoleon, quasi a mettersi in mostra, a dirgli che la tentazione
sarebbe stata sempre lì.
Si tirò indietro di un passo. Per
fortuna il cowboy era troppo impegnato a rigirarsi tra le mani le
piccole microspie e borbottare sullo spreco dei soldi dei
contribuenti, per accorgersene, e andò in stanza a vestirsi.
Illya lo tenne d’occhio, finché non
lo vide sparire in stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Gaby gli sfiorò un braccio.
«Qualcosa di interessante, Illyabär [7],
o è unicamente il fondoschiena di Solo?»
Arrossì. Non gli piacque il modo in
cui lo guardò e ancor meno gradì la sua allusione, ma con lei ogni
minaccia era un sasso caduto nel vuoto di cui non rimaneva nemmeno
l’eco. «Nyet [8].»
«Suvvia, sarà anche una spina nel
fianco, ma almeno Solo sa essere onesto su una cosa così semplice
come il trovarti attraente.»
Illya tossì, le parole di Gaby
andate di traverso. «Cosa… cosa c’entra questo ora?»
«È solo un complimento: siete entrambi uomini molto affascinanti. Non c'è nulla di male e apprezzare Solo non ti
renderà meno uomo.»
«No-non so di cosa tu stia
parlando.» Sperò che il tono aspro e lo sguardo affilato bastassero
per mettere un punto alle parole di Gaby, ma aveva sottovalutato la
sua tenacia.
«Ripensandoci, quando la missione
sarà finita, possiamo rimandare Mosca a un'altra volta e tu potresti
passare un po’ di tempo con lui.»
Illya sentì la lingua annodarsi in
bocca. «Perché dovrei sprecare mio tempo libero con cowboy?»
«Sa essere una piacevole compagnia.
E lo sai.»
«Sua compagnia è volgare, come suo
atteggiamento e suoi tentativi di…» la voce si spense, ma lui non
era sicuro quale fosse la parola su cui si era interrotto. L’aveva
accartocciata sotto la lingua, masticata e deglutita, l’aveva
pensata, ma era sembrata così sbagliata.
«Sedurti?» completò Gaby per lui.
Le vene del collo di Illya pomparono
sangue troppo velocemente al cervello e gli sembrò che il mondo si
stesse per capovolgere.
La verità è che non sapeva più se
fosse Napoleon a sedurlo o lui a volerlo…
Scosse il capo. «Non sono deviato.»
Le diede le spalle e tornò in
stanza.
Attraverso il binocolo, lo Tsaritsynskaya Opera Theater, appariva
come la copia in miniatura della Casa Bianca di Washington DC. Era
come se qualcuno avesse tralasciato volutamente le ali laterali
dell’edificio per incastrarlo meglio tra le strade di Volgograd,
innanzi al Viale Lenina.
Il piano era
semplice: Illya sarebbe rimasto sul tetto di uno degli edifici di
dirimpetto, per offrire copertura ai suoi partner. Gaby avrebbe
recitato il ruolo della donna di un pesce grosso del crimine, che,
stanca del marito aveva deciso di mettersi in proprio vendendo
progetti di un’arma rubata. Napoleon era la sua guardia del corpo,
nonché l’ovvio toy boy della donna troppo ricca e annoiata; e
Ivanov li avrebbe presentati al compratore, che avrebbero catturato
e usato per risalire a chi i progetti li aveva davvero.
Semplice. Forse
troppo.
Illya prese
postazione sul tetto. Osservò la strada dietro a un binocolo,
riaggiustando il canale radio, per sintonizzarsi sulle
ricetrasmittenti indossate dai due partner.
Li inquadrò fuori
dalle porte del teatro, nascosti alla vista dei più: Gaby, con il
suo abito, sembrava una nera falena posata con delicatezza al
braccio solido di Solo, e il cowboy, in smoking, sembrava come al
solito nel suo elemento.
Ivanov raggiunse i
due, biascicò un saluto che suonò più come un insulto e spiegò loro
che lo scambio si sarebbe tenuto durante l’opera. Si guardò intorno
con aria circospetta e alzò una mano alla schiena nuda di Gaby,
perché si affrettasse ad entrare.
Illya stritolò il
binocolo. Tra i gracidii della radio che scoppiettavano nelle
ingombranti cuffie alle orecchie, riuscì a distinguere la spruzzata
di acido in lingua russa e tinte rosa: «Puoi farti un po’ più in
là? Non mi piacciono gli uomini che mi stanno addosso.»
Non provò alcuna
pena per l’agente finito sotto il mirino della sua piccola serpe
velenosa.
«Yankee, tieni al
guinzaglio la tua donna!»
Il fatto che Ivanov
avesse cambiato lingua, scegliendo quella di Solo, lo rese più
odioso.
Illya tastò in terra con una mano, trovando la familiare
durezza lucida della canna di un fucile di precisione.
In strada, Napoleon
sfiorò la vita di Gaby, tirandola indietro e muovendo
contemporaneamente un passo in avanti, mettendola in ombra.
«L’agente grande e grosso del KGB ha paura di una donna? Al tuo
posto mi preoccuperei del tuo di guinzaglio; tienitelo stretto
perché se Gaby dovesse usarlo per strangolarti, da questo lato di
Volgograd non avrai alcun aiuto. Non ho l’abito adatto.»
Ben detto,
cowboy. Illya sorrise, ma il sorriso si spezzò in due, quando la
mano di Ivanov si fiondò al collo dell’uomo.
«Solo!» Gaby urlò e
si aggrappò alla manica dell’abito di Ivanov.
Illya si irrigidì;
lo sguardo fisso sul cowboy, sotto la stretta di mani che non erano
le sue. Il pantano di collera in cui era cresciuto e che gli si era
ormai appiccicato addosso come una seconda pelle, gorgogliò così
forte da assordarlo.
Abbandonò il
binocolo, raccolse il fucile e puntò la canna d’acciaio nero alla
testa di Ivanov.
Con una manata,
l'agente aveva allontanato la mano di Gaby. «Non pensate che io sia come
quel verme di Kuryakin, lui vale quanto la merda sotto le vostre
scarpe – ma io potrei uccidervi ora e una volta tornato a Mosca,
otterrei una medaglia.»
Illya serrò la presa al fucile. Gli insulti erano un suo
problema, erano la sua eredità e poteva ingoiarli, ma alzare luride
mani su Gaby e sul cowboy, missione o non missione, era un invito
alla morte.
Prese la mira.
Nel mirino,
vide Napoleon sollevare l’angolo destro delle labbra in un sorriso
sfacciato.
«E come pensi di ritirare la tua medaglia, con le
cervella saltate?» Con un cenno del
capo indicò in alto, verso il tetto dell'edificio di fronte alla strada.
Ivanov alzò gli occhi e solo allora notò il bagliore del fucile imbracciato da
Illya.
«Ora possiamo
tornare a essere amici, vero?» ironizzò Napoleon.
«Cane» aggiunse Gaby
incattivita.
Ivanov lo lasciò e
Napoleon si rassettò il colletto della giacca. «Era quello che
pensavo.»
Ancora
perfettamente in posizione di tiro, Illya lo vide rilassarsi e si rilassò
a sua volta. Non si stupì nemmeno quando Napoleon guardò apertamente
verso il tetto, schioccandogli un occhiolino. Pensò sarebbe finita
lì, ma le sue labbra si mossero piano a formare parole che non
riusciva a sentire, finché non si rese conto che non stava parlando
a voce alta e che la frase era solo per lui: va tutto bene, Peril,
sto bene.
Stupido cowboy.
«…s-suka [9]…»
borbottò.
Lo vedeva con i
suoi occhi che stava bene, non c’era bisogno di sottolinearlo!
Ma per qualche
motivo, si sentì rincuorato.
Sul tetto dell’edificio non c’era riparo dal freddo, la sera
profumava di neve e il vento gli azzannava la pelle esposta,
sibilando tra le pieghe del giaccone.
Illya liberò i
capelli biondi dalla coppola, la incastrò sotto la valigia con cui
era arrivato e sciolse muscoli indolenziti dall’attesa.
Nonostante la
tensione iniziale, Gaby, Napoleon e Ivanov erano entrati
tranquillamente a teatro e avevano preso posto al palchetto di cui
l’agente russo aveva prenotato i biglietti.
Di quando in quando,
giungevano le loro chiacchiere a fargli compagnia, ma forti della
sua solitudine, i pensieri avevano iniziato a mordicchiare i confini
in cui li aveva rinchiusi, zampettando nella sua testa come topi
usciti dalle loro tane.
L’Opera gli aveva
impedito di scacciarli: l’apertura della serata dedicata a Vivaldi e
alla sua Opera Sacra sfrigolava tra le cuffie e rimbombava nella
testa.
Gloria, gloria,
in excelsis deo [10]
Era la stessa identica musica, le stesse note dell'allegro che piovevano sulle
reclute, col tono metallico e gracchiante degli altoparlanti
dell’Accademia, ravvivando un mondo di ghiaccio e acciaio.
«Compagno
Kiselyov, non pensate sia il caso che torni a unirmi agli altri in
cortile? L’addestramento—»
«Non ora, Illya.
Prima ascolta la musica.»
Schegge
d’adolescenza, la sua voce di ragazzo e un uomo in divisa che
ammirava come un eroe. Illya lo seguiva in ogni passo e sognava il giorno
in cui sarebbe diventato come lui.
«Sissignore.»
«E rilassati.»
«Sissignore.»
«Lo sai cosa
dicono?»
«No, signore.»
«È latino, vuol
dire “gloria a Dio, nell’alto dei cieli”. Un giorno, quando sarai
pronto per servire la Madre, faremo suonare questa musica per te.»
«Per me,
signore?»
Si era aspettato di
vedere sul volto dell’uomo tracce di beffa, ma a Dmitriy Kiselyov
l’ironia e le sciocchezze non erano mai piaciute – quando mentiva,
lo faceva in nome della Russia.
Aveva aperto le dita
alla nuca di Illya e aveva poggiato la fronte alla sua.
«Gloria in
excelsis deo.» Le sue parole erano filtrate dalla sua bocca a
quella del ragazzo, soffiandogliele addosso, come ossigeno da
respirare.
E Illya, troppo
giovane e troppo sciocco, gli aveva creduto.
Di Dmitriy aveva
ingoiato ogni parola e ogni sillaba, senza sapere che con esse ci
sarebbero stati anche gli aghi e dall’interno lo avrebbero ferito,
senza che lui potesse farci nulla.
Gloria
Gloria
«Avete portato i
progetti?»
Illya riaprì gli
occhi sulle strade di Volgograd.
Sprazzi di una voce
sconosciuta stracciarono i ricordi, si tuffarono dalle cuffie ai
timpani e lo trascinarono fuori dal passato, per scaraventarlo dove
ora c’era bisogno di lui.
«Dipende. Lei ha
portato i miei soldi?»
Non aveva occhi
all’interno del teatro, ma il russo zoppicante di Gaby suggerì che i
negoziati erano cominciati.
Portò l’attenzione più in basso
davanti alle porte del teatro; nonostante fossero ancora a metà
atto, qualcuno stava già uscendo.
Si tese meglio con la schiena
dritta, in uno scrocchiare di vertebre e muscoli che si gonfiavano
sotto agli abiti. Aggiustò il fuoco del mirino e, incorniciati da
lunghi capelli biondi, scorse i tratti decisi, gli spigoli duri e
gli occhi feroci di un volto che non avrebbe potuto dimenticare.
Strizzò gli occhi. Li riaprì.
Nulla cambiò: sul volto di una donna
appena uscita dallo Tsaritsynskaya aleggiava lo spettro di Dmitriy.
Alla
ricetrasmittente, Gaby smise di parlare proprio in quel momento.
Con lo sguardo
concentrato sulla donna, Illya si premette le cuffie all’orecchio e
attese, finché non giunse un sussurro scosso.
«È uno di loro.»
Un brivido gli
attraversò la schiena e fu sicuro che anche Solo l’avesse notato –
Gaby l’aveva sibilato con un’inflessione rabbiosa, con una nota
tremante che fin dall’inizio cercava di nascondere davanti
all’agente Ivanov, ma che a nessuno dei due era mai sfuggita.
Loro erano
gli uomini che l’avevano tenuta sottocontrollo per mesi, per anni.
Erano il pugno di
ferro che stritolava la Berlino est e che tingeva di rosso le strade
della Russia.
Erano Illya e Ivanov
e Oleg.
Erano il KGB.
«È una trappola—» la
voce di Napoleon.
Ci fu il rumore di
una colluttazione, poi più nulla.
Illya batté una mano
contro le cuffie, ma sapeva benissimo non fosse un problema di
ricezione.
«Gaby?! Cowboy?!»
Chiamò allarmato.
Fu inutile. Le
trasmittenti funzionavano in un’unica direzione, se voleva sapere
cosa fosse successo, doveva raggiungerli.
Qualcosa brillò alla
finestra di uno dei palazzi vicino.
Lo notò con la coda
dell’occhio, mezza frazione di secondo prima che un colpo d’arma da
fuoco venisse sparato contro di lui.
Illya cadde a terra.
Nello stesso
istante, il feroce ruggito di una granata spezzò le colonne bianche
del teatro.
Sulla strada, solo
polvere e grida.
[ 6.151w ] |
[1] Sapevo avrebbero mandato te,
Illya
[2] Avresti dovuto mirare
meglio, Illya
[3] compagno Oleg
[4] Riferimento al secondo
anello di fidanzamento che Illya regala a Gaby e che alla fine del film le
chiede di tenere - ebbene, l'ha tenuto.
[5] La sonda Luna 2 è stata la
prima sonda spaziale a raggiungere la Luna nel 1959, ovviamente opera dei
russi. Da lì, è iniziata la sfida alla conquista della luna tra russi e
americani, terminata nel 1969 con l’allunaggio di Neil Armstrong e Buzz
Aldrin. Essendo la fic ambientata intorno al ’63, anno in cui è ambientato
anche il film, l’allunaggio non è ovviamente ancora avvenuto
[6]
Mare
lunare situato sull'emisfero della Luna sempre rivolto verso la Terra
[7] bär in tedesco significa orso
♥
[8] No
[9] insulto russo. In realtà
significa “cagna, puttana” e tecnicamente ci sono altri insulti che
avrebbero più senso in questo contesto, ma mi piace pensare che questo sia
l’insulto default di Illya (per vari motivi/headcanon) perché è l’unico che
pronuncia in russo nel film, quando borbotta per essere stato perculato da
Napoleon.
[10]
Gloria in D major: I. Gloria in excelsis Deo – Vivaldi
|
『 |
Vabbeh, pure quando
il capitolo è già stato revisionato riesco a trovare il modo di
tardare nella pubblicazione. E non parliamo del fatto che, oggi,
rileggendolo per l'ennesima volta, ho deciso che era mia dovere
dargli un'ultima risistemata, perché le ventordici revisioni che già
ha subito questa fic evidentemente non erano sufficienti. Sono un
caso perso, lo so... però dai, mi piace pensare che le modifiche
siano servite a migliorarla. Non che voi possiate capirne la
differenza, ma fidatevi XD
Come si sarà notato, in
questo capitolo il POV non è più quello di Napoleon, ma è quello di
Illya (surprise?) - e se quello di Napoleon fila sempre liscio come
l'olio e su di lui non ho mai un dubbio che sia uno, lo stesso non
vale per il mio russo preferito, che mi dà solo problemi e mi
riempie di incertezze sul suo POV. Ma ormai è andata e posso non
pensarci più! ...fino al prossimo capitolo.
Per chi ancora non l'ha
vista (ma cosa state aspettando? >_>) vi ricordo che potete ammirare
la bellissima fanart di
Miryel e kudarla
qui
♥
Scritta per
il BBI10 @LandediFandom |
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