Le paure di Anna

di FabiGK12
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In difesa di Anna, non stava nascondendo nulla alla sua famiglia; non stava chiudendo nessuna porta. È solo che pensava di aver lasciato tutto il suo dolore, le sue paure e la sua sofferenza all’interno della Foresta Incantata. Per come la vedeva lei, tutte le emozioni negative avrebbero dovuto svanire con la nebbia ed essere dimenticate. D’altronde, Elsa era tornata sana e salva da Ahtohallan, Olaf era di nuovo un pupazzo di neve felice e Kristoff aveva finalmente trovato il coraggio di chiederle di sposarla. Non poteva desiderare nulla di più. Era amata, la sua famiglia stava bene e, cosa ancora più incredibile, stava per essere incoronata Regina! Per quanto strana fosse l’idea di diventare la nuova sovrana di Arendelle, era pronta a farsi carico dei bisogni del suo regno e fare ciò che era giusto. Sperava davvero che questo bastasse a mantenerla allegra e spensierata ma, con il passare dei giorni, aveva realizzato di non aver portato fuori solo le cose belle da quel luogo mistico. Tutto quello che sperava di lasciare indietro, si era invece ancorato in lei, avvinghiato in una morsa nella sua mente che non dava spazio a cedimenti.
 
Come conseguenza delle avventure da poco trascorse, Anna si era resa conto di non sopportare più nulla di ciò che poteva crollare o farla cadere dall’alto, sebbene trovasse difficile ammetterlo. L’esperienza alla diga l’aveva segnata indelebilmente; il solo pensiero le bastava a rovinarle la giornata. La sensazione del terreno che le cedeva sotto i piedi, era ancora fin troppo nitida e questo la portava ad avere degli atteggiamenti diversi nei confronti di cose che prima, invece, faceva senza pensare. Per esempio, Anna era solita fare merenda, o dei veri e propri pasti improvvisati, sul terrazzo dello studio della sorella maggiore. Quando Elsa era sommersa dal lavoro e non aveva il tempo di andare a pranzo, si facevano portare il cesto da picnic in studio, cesto che i maggiordomi solitamente riempivano di panini, per la gioia di Anna, e altre stuzzicherie. Oppure quando Elsa era impegnata in qualche Consiglio a cui alla principessa non era richiesto di partecipare, si concedeva dei momenti con Kristoff, gustandosi la brezza che soffiava sul terrazzo e la compagnia del suo amato. Era un’usanza che aveva preso piede negli ultimi tre anni, nata in un tentativo di sfruttare al meglio le pause dagli impegni reali senza, però, togliere troppo tempo alla gestione del regno, priorità fondamentale dopo gli eventi successivi all’incoronazione di Elsa. Nelle ultime settimane, tuttavia, era sempre riuscita a trovare una scusa per evitarli. Il terrazzo era molto in alto ed aveva una vista mozzafiato sul fiordo, aggettivi che nella sua mente non andavano d’accordo: né altomozza-fiato. Per quanto fosse una tradizione che facessero da anni, di cui un po’ sentiva la mancanza, lo sconforto che le causava non ne valeva la pena. Continuava a ripetersi che lo avrebbe superato e che sarebbe tornata a farlo “il giorno dopo”, ma il giorno dopo non era ancora arrivato e lei non aveva ancora fatto nessun progresso. Aveva inoltre iniziato ad evitare di dondolare nelle altalene appese alle pareti del castello, che i maggiordomi usavano per il lavaggio dei vetri, e di scivolare lungo il corrimano della scalinata a chiocciola. Quando Elsa, scherzando, le chiese se si fosse stancata di fare quelle attività, a detta sua decisamente pericolose, Anna si scrollò di dosso la domanda, affermando semplicemente che ora che stava per diventare Regina non poteva più concedersi simili sciocchezze. Sapeva benissimo che i sospetti della sorella, per quel suo strano comportamento, non si erano placati e che la scusa in sé era debole, ma non approfondirono mai l’argomento. Probabilmente la sua dolce e perspicace sorella, le stava dando lo spazio di cui aveva bisogno per poi aprirsi con lei, ma ancora non riusciva ad affrontare il problema, figurarsi poi parlarne. Infine, l’ultima cosa che aveva notato, è che non sopportava molto neanche il ponte che collegava il cancello principale di Arendelle al paese. Ogni volta che lo percorreva, a piedi, in slitta, o con qualsiasi altro mezzo, era invasa dai ricordi. L’altezza, il brusio dell’acqua che scorreva sotto di esso, il vento che da Nord soffiava con furia… Tutto ciò le faceva ripensare alla diga, facendole venire i brividi.  
 
Tutti questi pensieri la distraevano dall’attuale compito che stava svolgendo. Anna si trovava nello studio, in compagnia di Elsa, e quest’ultima la stava aiutando a sistemare e comprendere alcuni dei suoi appunti, in modo che potesse partire quanto prima a svolgere, in autonomia e al meglio, i suoi doveri di futura nuova Regina. Sopra la scrivania vi erano pile e pile di fogli, per lo più note della sorella, redatte durante il suo mandato. Per quanto Elsa avesse una scrittura chiara e leggibile, aveva preso l’abitudine di appuntarsi ogni singolo dettaglio di ogni singolo argomento, a volte usando una terminologia fin troppo specifica, seppur mai errata, che Anna faceva fatica a decifrare e che la mandava fuori di testa. Non è che si sentisse stupida o meno intelligente della sorella maggiore, sebbene invidiasse la sua capacità di cogliere e ricordare ogni sfaccettatura di una conversazione e ogni dettaglio tecnico ad essa correlato. Semplicemente aveva un modo di fare diverso: era brava a riassumere, a creare schemi intuitivi a colpo d’occhio, e cogliere le parole chiave di un discorso, benché non si facesse mancare qualche schizzo di troppo ai margini dei suoi appunti. Per questa ragione, le due stavano passando dei pomeriggi assieme, dedicati appositamente alla trascrizione di alcuni appunti, da “Elsese” ad un linguaggio comprensibile anche ai comuni mortali, ed al riordino dei fogli di maggiore rilevanza – di cui ammetteva essere grata di ogni dettaglio – in un sistema facilmente accessibile e ordinato. Il compito si stava dimostrando più arduo del previsto perché richiedeva concentrazione e meticolosità, ma stavano raggiungendo dei buoni risultati in sempre minor tempo. Perciò eccole lì, chine sulla scrivania appartenuta una volta a loro padre, a contemplare mucchi di fogli scarabocchiati. Sapeva bene che Elsa si sentiva in debito con lei dopo la sua abdicazione, soprattutto per la mole di lavoro che le aveva lasciato, ed era lieta di poterla aiutare durante questa transizione di potere. Da quando le porte erano di nuovo aperte, Anna si era impegnata al massimo per compiere i suoi doveri di principessa, e non era strano vederle nella stessa posizione di quel momento, seppur con ruoli invertiti. Nonostante le concedessero più tempo libero della sorella maggiore, e i suoi compiti fossero di minore importanza, sentiva essere sua responsabilità tenersi aggiornata su quanto accadeva nel regno. Volendo essere una “vera” principessa, aveva chiesto all’ormai ex Regina la possibilità di partecipare ai vari Consigli e di accompagnarla ed aiutarla nel ruolo di sovrana, affiancandola durante gli incontri ufficiali, rispondendo alla corrispondenza, organizzando pranzi e cerimonie con persone influenti ed il suo popolo. Ciò le permetteva di conoscere lo stato di avanzamento delle leggi, esprimere il suo parere, avanzare proposte o lavorare su alcuni progetti di beneficenza, nonché di garantire ad Elsa di andare a dormire ad un orario decente, non saltare pasti, e non accollarsi sulle sue spalle tutto il lavoro reale. Questo l’aveva molto avvantaggiata ora che stava per diventare sovrana a tutti gli effetti, anche se c’erano ancora tante cose che doveva capire a pieno.
 
Da quando si era seduta sulla scrivania quel pomeriggio, però, non aveva fatto molti progressi. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto e le sue mani si rifiutavano di mettersi a lavoro, nonostante avesse la piuma stretta in pugno. I suoi pensieri continuavano a sfuggire al suo controllo e sentiva la stanchezza annebbiarle la mente. Dal loro ritorno ad Arendelle, non passava una notte senza che gli incubi la svegliassero. Non stava dormendo bene, o meglio, non stava dormendo affatto. Anna si considerava una persona sincera e, una parte di lei, stava soffrendo nel non aprirsi con i suoi cari. Tuttavia Kristoff era al settimo cielo per aver ricevuto un “sì” in risposta ed aver avuto la benedizione di Elsa. Era inoltre estasiato di poter organizzare un matrimonio Troll con la sua famiglia adottiva, oltre a quello reale di cui, però, aveva un po’ di fifa. Appena l’incoronazione di Anna avesse avuto luogo, e i primi mesi del suo mandato fossero trascorsi, avrebbero passato in rassegna ogni particolare insieme, dando il via ufficiale alla preparazione delle nozze. Elsa pure era in estasi per il loro matrimonio, ma era ancora più entusiasta di aver finalmente trovato un posto che la facesse sentire di appartenere a qualcosa. Aveva trovato la sua strada e Anna non l’aveva mai vista così felice. Di sicuro non sarebbe stata lei a rovinare tutto con delle stupidaggini, perché era di questo che stavano parlando. Stupidaggini che avrebbe potuto risolvere anche da sola.  
 
“Tutto bene, Anna? Vuoi fare una pausa?”
 
La voce di Elsa la fece sobbalzare. Alzò lo sguardo e poté vedere, riflessi nelle iridi della sorella, tutta la sua premura, il suo affetto e la sua preoccupazione. Il senso di colpa si fece più intenso, creando un groppo in gola che non riusciva a mandar giù. Dopo tutte le promesse sul dirsi sempre tutto, eccola lì, che stava facendo la testarda. Questo, però, non era assolutamente come chiudere una porta, metaforicamente parlando. Era più un socchiudere, ecco. Doveva tenere duro, per il bene stesso della sua famiglia. D’altronde, non era un segreto quello che era successo alla diga. Quell’informazione era stata trasmessa ad Elsa da più persone (Mattias, Kristoff e la stessa Anna), ognuno con la loro versione dei fatti e le dovute accortezze per non far scatenare un’ulteriore bufera di neve sulle loro teste. Nonostante l’iniziale affanno e la successiva apprensione, il fatto che fossero lì a parlarne era una prova inconfutabile che, tutto sommato, non era successo nulla di che, ed Anna aveva lasciato sottintendere che la cosa non l’aveva turbata poi così tanto. Stava bene, assolutamente bene. 100% bene.
 
“Anna?”
 
Giusto, non aveva ancora risposto. Dove aveva la testa? Si schiarì la gola.
 
“Oh sì, sto bene. Posso continuare, non mi serve una pausa.”
 
“Sicura? Non per sembrare critica nei tuoi confronti, fiocco di neve, ma non hai fatto altro che guardare lo stesso foglio per l’ultima mezz’ora e la tua piuma ha smesso di gocciolare inchiostro su quello stesso foglio dieci minuti fa.”
 
Tornando con lo sguardo sulla scrivania, realizzò che la sorella aveva ragione. Si era formata un enorme macchia di inchiostro sul foglio che stava usando, rendendolo inutilizzabile. Non che ci avesse scritto niente ancora.
 
“Oh, diamine.” Sospirò.
 
“Cosa devo fare con te?” mormorò allora Elsa. La vide allungarsi per prendere il pezzo di carta da buttare e sostituirlo con uno pulito.
 
“Potremmo prendere una boccata d’aria fuori nel terrazzo.” Propose allora, ma non fece in tempo a finire la frase che Anna sentì il cuore balzarle sul petto.
 
“NO!” Disse a voce molto alta. Forse un po’ troppo. Si ricompose.
 
“Scusa… Volevo dire. No, tranquilla, davvero. Andiamo avanti un altro po’. Ora mi concentro.”
 
Geniale Anna, davvero geniale. Tutto quel discorso sul non far notare nulla ad Elsa e poi questo scivolone. Bel modo di nascondere la cosa. Si maledisse.
 
Il terrazzo. Qualsiasi cosa ma non il terrazzo. Sentiva lo sguardo della sorella, penetrante ed indagatore, ma cercò di non darci peso. Sapeva di non star facendo un gran bel lavoro nel tenersi per sé le sue preoccupazioni. Anche Kristoff, che non era perspicace come Elsa, stava intuendo più di quanto stesse dimostrando. Era sicura che anche a lui mancassero le merende al castello, nei giorni in cui non era impegnato a raccogliere ghiaccio. Pensandoci bene, c’era stato un episodio con Zefiro che aveva turbato molto i due ed era da lì che il ragazzo aveva iniziato a cogliere indizi. Quel giorno in questione, lo spirito del vento era venuto in visita con Elsa e, per salutarla, l’aveva sollevata in aria, spaventandola a morte. Non aspettandoselo, si era sentita improvvisamente mancare il terreno da sotto i piedi ed aveva urlato. Di conseguenza, aveva fatto innervosire anche Zefiro che l’aveva lasciata cadere. Era a pochi centimetri da terra quando cadde, perciò non si era fatta niente, ma lo spavento era stato così grande da farla impallidire. Con gambe tremanti, aveva passato i minuti successivi a chiedere scusa al povero spirito impaurito, e ad ignorare i tentativi di confronto di Kristoff ed Elsa, con scuse che lei stessa reputava fragili, come “mi ha preso alla sprovvista”. Sapevano che c’era qualcosa sotto ma Anna era ferma nella sua convinzione di volersela cavare da sola.
 
Si rese conto che, ancora una volta, i pensieri l’avevano tradita. Il nuovo foglio era ancora inutilizzato e non aveva ancora fatto niente. Sospirando, ammise finalmente che era giunto il momento di fare una pausa.
 
“Sai cosa Elsa, hai ragione. Forse è il caso di fare una pausa.”
 
Elsa sembrò parecchio sollevata da quella affermazione. Si alzò per sgranchirsi le gambe e andò ad aprire la porta finestra del terrazzo, per far entrare un po’ di aria. Lei però rimase inchiodata alla sua scrivania, posando una mano sulle tempie, in un tentativo di scacciare il mal di testa che sentiva stava per colpire. Elsa, che non aveva smesso un attimo di guardarla, si fermò dietro di lei e iniziò, con ritmo lento, a massaggiarle le spalle. Anna, che bramava il contatto fisico quasi quanto la cioccolata, si sentì sciogliere sotto la leggera pressione delle dita della sorella.
 
“Sei così tesa.” Le disse allora.
 
“Mmmh.”
 
Non riuscì a dire altro. Avrebbe anche potuto prendere sonno, nonostante la sedia non così tanto comoda. Sentì le palpebre diventare pesanti e gli occhi le si chiusero senza permesso. Si appoggiò meglio allo schienale e adagiò le braccia lungo il corpo, cercando di liberarsi della tensione. Le mani di Elsa erano piacevolmente fresche e si sentiva cullare dal loro tocco. Il venticello di quel tenue pomeriggio invernale, si stava facendo strada nello studio. Lo sentiva che passava nei ciuffi dei capelli usciti dalla sua acconciatura. Si stava rilassando, era calma, i suoi pensieri avevano smesso di frullarle in testa…
 
Un bussare ritmato la destò dal torpore. Sussultò leggermente e sentì Elsa borbottare qualcosa con tono amareggiato, ma non colse le parole. Quanto era passato? Qualche secondo? Minuti? Si guardò intorno mentre l’ex Regina diede il permesso ad Olaf di entrare. Nessun altro, oltre lei ed Elsa, bussava in quel modo e non poteva essere che lui. Lo studio era ancora inondato dai raggi solari del pomeriggio e l’orologio a pendolo, situato nella stanza, segnava che non potevano essere passati più di quindici minuti.
 
“Anna! Elsa! Siete qui. Devo assolutamente mostrarvi una cosa!”
 
Si sfregò gli occhi in un tentativo di levare i residui della pennichella, se così si poteva definire, e si concentrò sul nuovo arrivato.
 
“Buon pomeriggio piccolo! Cosa devi mostrarci?” disse Elsa.
 
“Come prima cosa, ci terrei a dirti che non apprezzo più il termine piccolo.” Iniziò il pupazzo con finta voce adulta.
 
Anna ridacchiò. Anche lei da giovane passò una fase in cui non le piaceva essere chiamata “piccola” o “bambina”. A quanto pare qualcuno era ancora in piena fase adolescenziale…
 
“Preferirei Signor Pupazzo, o Ser Olaf, grazie.”
 
Entrambe le sorelle alzarono gli occhi al cielo, cercando di nascondere il ghigno divertito dei loro volti.
 
“E secondo, ho finalmente imparato a fare il giocoliere! Lo desideravo da quando sono nato! Mettetevi comode, sarete le prime a vedere il mio spettacolo! Anche se il primo è stato Sven. Beh ma quello era solo addestramento, prove generali al massimo…”
 
Andò avanti a blaterare un altro po’. Beh, questa era nuova. Olaf giocoliere? Era proprio quello che le serviva: farsi quattro risate. Si alzò e si unì ad Elsa che, nel mentre, si era avvicinata al pupazzo, inginocchiandosi davanti a lui per parlargli alla sua altezza.
 
“Ci scusi… ehm, Ser Olaf, per il nostro mancato rispetto nei suoi confronti. Ma prego, ci mostri pure!” disse allora Anna, sentendo la sorella ridacchiare.
 
Si sedettero davanti la scrivania, sul pavimento, spalla contro spalla. Non era ancora pronta a separarsi dal tocco di Elsa. Per quanto ridicolo potesse sembrare, la sorella aveva un modo di starle vicino e di darle sicurezza che non percepiva in nessun altro, sebbene Kristoff non mancasse di farla sentire al sicuro e ci andasse molto vicino. Ma Elsa era Elsa. Dopo tredici lunghi anni di distanziamento, aveva imparato a non dar più nulla per scontato. La sua presenza era un dono. Non poteva tenerla tutta per sé in ogni momento, ma niente le impediva di sfruttare ogni istante, soprattutto ora che il tempo insieme era ancor più limitato.
 
C’era una cosa che valeva la pena di menzionare riguardo ad Olaf: stava sicuramente mettendo il massimo dell’impegno. La sua abilità, però, era ben lontana dall’essere definita giocoleria. Aveva iniziato molto semplicemente, lanciando in aria due dei suoi tre bottoni e riprendendoli al volo, a volte facendoli incrociare, a volte incrociando lui stesso le braccia. Più che impressionata, Anna era decisamente divertita, e lo stesso era sicura poter dire della sorella, che sentiva tremare accanto a sé dallo sforzo di contenere le risa. Le varie mosse, poi, erano seguite da facce buffe, una più sciocca dell’altra, che probabilmente Olaf neanche si rendeva conto di fare. Certo, se paragonato ad altri pupazzi di neve, era sicuramente il più bravo… Lo guardarono per qualche minuto, congratulandosi con lui ed incitandolo a continuare. Il vero divertimento, però, iniziò quando affermò di essere pronto allo step successivo, ovvero aumentare la difficoltà della sua prestazione. Che dire. Per fortuna i bottoni in suo possesso erano solo tre! Più che giocoliere, sembrava un comico, non che avessero il coraggio di dirglielo. Lo sguardo concentrato di Olaf mentre, fiero, lanciava in aria parti del suo stesso corpo, che finivano per rimbalzare in ogni angolo della stanza, fu abbastanza per non riuscire più a trattenersi dallo sghignazzare. Il culmine fu quando un bottone, lanciato troppo in alto, gli piombò in testa e, nel tentativo di prendere gli altri due, gli si staccarono le braccia. Anna era certa che la fragorosa risata che né lei né Elsa riuscirono a contenere, venne sentita dal castello intero! Fu un vero toccasana. Mentalmente, scattò una fotografia del momento e decise avrebbe conservato la foto nella sua memoria per sempre. Qualora si fosse sentita triste o si fosse ritrovata rinchiusa in una grotta, senza luce, con la consapevolezza di aver perso tutto ed avesse bisogno di una ragione per rialzarsi, avrebbe sfogliato questo album di fotografie fittizio, per trovare la forza di andare avanti. Non che credeva fosse possibile succedesse una cosa simile. Di nuovo. Era più un promemoria per i giorni no. Respirò profondamente. Si sentiva leggera. Distolse per un attimo l’attenzione da Olaf e incrociò lo sguardo della sorella. Le sorrise ed Elsa sembrò rincuorata, forse più tranquilla anche lei di vederla finalmente rilassata. Il pupazzo aveva da sempre avuto il superpotere di tenerle unite e di metterle di buonumore. Anche in quella giornata, in cui si sentiva più abbattuta del solito, non faceva eccezioni.
 
Ogni bel momento, tuttavia, è destinato a finire ma ciò avvenne in maniera banale, inattesa, camuffata in un’altra scena che nessuno si aspettò poter prendere una piega diversa. Deciso a riprovare il suo numero, Olaf tentò più volte una serie di combinazioni dal carattere piuttosto fantasioso – “Se lo lancio in aria così, poi dovrebbe atterrare di là, e se io mi giro così, posso prendere questo e quello smontandomi, oppure…” – e decisamente irrealizzabile. Non demorse finché ogni singolo bottone non venne spedito agli angoli più remoti della stanza. Anna notò che uno dei tre pezzi rotolò perfino fuori in terrazzo, da quanta passione il pupazzo ci mise per compiere la sua impresa.
 
“Forse sto sbagliando qualcosa.” Borbottò Olaf, pensieroso. “Dovrò fare molta più pratica!”
 
“Come inizio sei stato bravo!” iniziò Elsa.
 
“Assolutamente. Molto, molto bravo!” continuò Anna.
 
I toni erano calmi, l’umore finalmente alto, ma le due sorelle si resero conto che avevano ancora del lavoro da fare e decisero di porre fine al momento, con un tacito cenno del capo. Si alzarono insieme dal pavimento mentre Olaf andò a recuperare i suoi bottoni. Stavano per riprendere posto nelle rispettive sedie quando sentirono il pupazzo tornare da loro.
 
“Ehi me ne manca uno! Non lo trovo. L’avete visto?”
 
“Oh sì, te lo prendo io!” disse allora Anna.
 
Nell’istante in cui uscì in cerca del bottone, qualcuno busso alla porta. Lasciando che se ne occupasse la sorella, e concentrandosi sulla missione di ricerca, si dimenticò di una cosa fondamentale: la ragione per la quale stava evitando il terrazzo. Sentì a malapena lo scambio di parole tra Elsa e uno dei maggiordomi, anche se sentì chiaramente uno squittio di gioia partire da Olaf.
 
“Vengo subito allora!” disse quest’ultimo.
 
Presa com’era dalla spensieratezza del momento, non si rese conto delle conseguenze di quello che stava per fare. Vide il bottone vicino al parapetto in legno, si avvicinò, si piegò per prenderlo e si fermò con la mano allungata. Qualcosa non quadrava. Le stava sfuggendo una cosa di vitale importanza. Notò che i suoi piedi non poggiavano più sul caldo e saldo legno dello studio. Qui il legno era più chiaro, più massiccio… Si rialzò di scatto, senza prendere il bottone, e una forte ondata di vento la fece rabbrividire. Era sul terrazzo.
 
Era.
 
Sul.
 
Terrazzo.
 
Fu proprio allora che si sentì cadere a pezzi. Tutta la serenità venne spazzata via per far spazio al panico. Guardò oltre il parapetto e le si bloccò il fiato in gola. Era in alto. Tanto in alto. Si tenne stretta al parapetto con tutta la forza, tanto che le nocche le diventarono bianche. Doveva tornare dentro. Doveva muoversi, doveva scappare. Era freddo. Era da sola. Ormai era troppo tardi. Ormai era…
 
Dopo tutto quel correre, era senza fiato. Il cuore le batteva all’impazzata. Si fermò giusto il tempo per attirare l’attenzione dei giganti. Doveva continuare con la sua missione, a qualunque costo. Sentì il rumore assordante del masso contro la diga, l’impatto così forte da lasciare un cratere. Le era arrivato veramente vicino, tanto da costringerla a fare qualche passo indietro. Per un attimo si paralizzò. La potenza con cui era stato gettato in aria le aveva scompigliato i capelli, qualche scheggia le saltò addosso. Non era importante. La diga aveva già iniziato a cedere dopo quel colpo. Pian piano si stava sgretolando. Doveva levarsi da lì. Riprese a correre. Doveva raggiungere la sponda, le facevano male le gambe, ma mancava poco. Prima che potesse arrivare a destinazione, però, venne bloccata da un altro masso.  
 
Il cuore le stava rimbombando in testa, le orecchie stavano fischiando. Stava correndo? No, i piedi erano saldi su qualcosa di solido. Stava stringendo qualcosa tra le mani, vi si era ancorata con tutta sé stessa. Non poteva essere, non tornava. Sentiva il vento, la paura, le mancava il fiato, come se stesse correndo…
 
Stava correndo dalla parte opposta, ripercorrendo i suoi passi. Un ultimo sforzo, l’ultimo scatto. Sotto i suoi piedi sentì mancare il terreno. Il suo piano stava funzionando, la diga stava crollando. L’acqua iniziò a scrosciare all’impazzata, sempre più agitata, in battaglia con una parete che la teneva prigioniera da anni. Gli scricchiolii si fecero più intensi. Tutto iniziò a tremare. Schizzi d’acqua le saltarono addosso. Doveva correre più veloce.
 
Da qualche parte nella sua mente, sentì come un sentore di qualcuno che si stava avvicinando a lei. Ma dovevano scappare! Stava per crollare tutto, sarebbe caduta e, insieme a lei, quel qualcun altro. Non riusciva a vedere nessuno, la vista le si stava oscurando e non riusciva a respirare. Stava soffocando.
 
Il passaggio sopra la diga iniziò a sgretolarsi, perse di vista il punto di arrivo, inghiottito ormai dal vuoto e la corrente sottostante. Non poteva mollare. Stava facendo la cosa giusta, doveva fare un passo e poi un altro e un altro ancora. Doveva andare più veloce.
 
Dovevano muoversi, non avrebbe permesso accadesse di nuovo. Doveva andarsene ma, questa volta, stava perdendo sensibilità di mani e piedi, formicolati com’erano. Non ci riusciva. Sentì qualcuno scrollarla e le ginocchia le cedettero. Era appoggiata al parapetto. No. Era a carponi sul pavimento. Le sembrava però di star cadendo.
 
Tutto crollò. Una pietra dopo l’altra, all’impazzata, cedette tutto. Provò a saltare e cercare un appiglio. Forse era troppo tardi. Il salto era troppo breve, arrivato alla fine di una corsa che l’aveva lasciata senza forze. Poi un pensiero. Voleva davvero essere salvata? Non aveva più niente da perdere. Era sola. Allungò comunque la mano, invano, mentre l’unica cosa che riuscì a sentire fu il rombo che seguì alla distruzione completa della diga.
 
Sentiva però anche una voce. Una voce preoccupata, frenetica. Era troppo persa in quel ricordo per capire di chi si trattasse o cosa stava dicendo. Si sentiva disorientata. Le girava la testa. Sapeva solo che non era sola, non era sola questa volta, l’avevano salvata…
 
Qualcuno la prese. Qualcuno riuscì ad afferrarla. Come stava processando questo fatto incredibile, si sentì scivolare ancora. Chiunque fosse il suo salvatore, però, la strinse ancora più saldamente. Riusciva a sentire la sua mano calda, sudata e callosa, tipica di un soldato. Mattias. La tenne stretta, in bilico tra il vuoto e la salvezza. Ma l’aveva presa. Poi un rumore affrettato di passi annunciò l’arrivo di Kristoff. In uno sforzo che richiese tutte le sue energie residue, riuscì ad allungare anche l’altro braccio e Kristoff lo prese. La sua mano era più grande di quella del tenente e le sue dita screpolate erano più confortevoli, familiari.
 
Ma la mano sulla sua spalla era un’altra. Piccola, fresca, gentile. Vi era un netto contrasto con la sua pelle calda e sudata. Non riusciva a distinguere nulla di più. Non capiva cosa stava succedendo. Aveva gli occhi aperti o chiusi? Era seduta o in piedi? Cercò di orientarsi ma era tutto troppo confuso.
 
Riuscirono a tirarla su. Chiuse gli occhi per un attimo, finché non sentì le ginocchia scontrarsi con il terreno. Sentiva respirare affannosamente i suoi salvatori, affaticati per il gesto appena compiuto. Sentiva…
 
Sentì il suo nome ripetuto più volte da una voce femminile, sempre più distante. Le braccia di questa persona la tirarono su, quasi di peso. Stava camminando. Si stava spostando. Le sue gambe tremavano, a malapena riuscivano a reggere lo sforzo. Le facevano male tutti i muscoli. L’aria intorno a lei cambiò, non era più all’esterno. Era in luogo asciutto, caldo…
 
Si ritrovò tra le braccia di Kristoff, immersa nel suo profumo, nella sua pelliccia morbida, da cui sentiva emanare tutto il suo calore. Sentì il suo sospiro di sollievo, mentre un singhiozzo lasciò senza permesso il suo corpo. Le orecchie le stavano fischiando ma sentì chiaramente il rumore dell’onda che si scagliò lungo il fiordo, diretta ad Arendelle, pronta a distruggere il suo regno.
 

 
Nella foschia della sua mente, iniziò a delineare nuovi contorni. Si trovava davanti al camino, seduta sul pavimento, ed ogni fibra del suo corpo stava tremando. Il fuoco era acceso e riempiva la stanza con i suoi scricchiolii. Non era da sola, con lei c’era qualcuno. La sua mano era sul petto di questa persona.
 
“Anna?”
 
Elsa. Elsa era lì. Elsa era salva. Lei era salva. Si sentiva ancora confusa. Cercò gli occhi di Elsa ma appariva ancora tutto sfuocato. Sentì qualcosa di umido sulla faccia e ipotizzò di avere le guance rigate dalle lacrime. Nonostante questo, si sentiva più presente. Era tornata nello studio. Era con sua sorella.
 
“Inspira, Anna.”
 
Il suo respiro ancora frenetico. Con la mano riusciva a sentire i movimenti ritmici della respirazione di Elsa.
 
“Espira.”
 
Cercò di starle dietro, di recuperare un po’ di controllo. Si aggrappò al suono della voce di sua sorella e al battito del suo cuore, che sentiva batterle velocemente contro il petto. Anche Elsa si era spaventata per l’accaduto ma stava mettendo da parte i suoi sentimenti per calmarla. Avrebbe dovuto ringraziarla.
 
“Stai andando bene, sorellina. Prova a copiare quello che sto facendo, va bene?”
 
Stava facendo fatica a concentrarsi sul quel semplice compito, ma era un livello di disattenzione ammissibile in confronto a pochi istanti fa. Chiuse gli occhi per un po’, per calmare definitivamente i giramenti di testa. Passò qualche minuto prima che Elsa parlò di nuovo.
 
“Posso avvicinarmi a te e abbracciarti?”
 
Fece cenno di sì con la testa. Non si fidava ancora della sua voce. La bocca era secca e la gola serrata. Sentì l’ex Regina muoversi dietro di lei con movimenti calmi, cercando di non far troppo rumore, appoggiandosi con la schiena al divano e lasciando Anna con il viso rivolto al camino. Sentì le sue braccia avvolgerla e accolse con piacere il calore della sorella. Si sentì tirare leggermente, per annullare la distanza, finché non si ritrovò appoggiata ad Elsa con tutta la parte superiore del corpo. Riusciva a sentire anche così il suo respiro e, la ritrovata sicurezza, la fece riprendere un ritmo di respirazione accettabile. Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
 
“Anna. Sei con me?”
 
Annuì.
 
“Guardati intorno. Riesci a dirmi cinque cose che vedi intorno a te?”
 
“C-cosa?”
 
“Fidati di me, tesoro. Cinque cose che vedi, riusciresti ad elencarmele?”
 
Non capiva cosa centrasse quella richiesta con tutto quello che era accaduto, ma si fidava di Elsa come non si fidava di nessuno. La prima e unica cosa che vide davanti a sé fu…
 
“Il camino.”
 
Si fermò lì. Le sembrava di vedere solo quello. Non riuscì a formulare altro. Elsa la strinse appena più forte e la aiutò.
 
“Fai un respiro profondo. Cosa c’è intorno al camino, Anna? Stai andando bene.”
 
Intorno al camino? Cercò di concentrarsi. Si guardò intorno.
 
“C’è il quadro di p-papà.” La voce le tremò appena ma Elsa la rassicurò, accarezzandole le braccia.
 
“Lo s-stemma di Arendelle.” Ruotò la testa per vedere dietro di lei. “Il d-divano e la scrivania”
 
“Molto bene. Adesso respira, ok? Ancora una volta. E dimmi. Quali sono quattro cose che puoi toccare?”
 
La risposta le salì subito alla mente questa volta, mentre con le mani, ora non più formicolate, cercò altre cose da tastare.
 
“Posso toccare le tue braccia e, uhm, il mio vestito. Il tappeto. Oh e il tuo di vestito.”
 
Elsa ridacchiò dolcemente. Iniziò a sentirsi più lucida, le sembrava di aver iniziato un gioco. Non sapeva se fosse accettabile dare due volte “Elsa” come risposta, ma la sorella non commentò e andò oltre.
 
 “Va bene. Ora dimmi tre cose che riesci a sentire.”
 
“La tua voce.” Anche stavolta la risposta fu immediata. Si concentrò di nuovo sul camino davanti a sé. Poteva sentire la legna ardere.
 
“Lo scricchiolio del fuoco.”
 
Ci mise un po’ a notare che non sentiva più il suono del suo cuore nelle orecchie, e che stava usando le mani per indicare gli oggetti che nominava. Non erano più tenute contro il petto in una posizione di difesa.
 
“Posso sentire… Oh! L’orologio!”
 
Era quasi divertente e, soprattutto, la stava distraendo dal tumulto di emozioni negative appena provate.
 
“Stai andando alla grande, sorellina. Due cose che riesci ad annusare?”
 
L’eccitazione per questo “gioco” stava già sparendo, durata appena qualche secondo. Sentiva la stanchezza. Si sistemò meglio sul petto della sorella, lasciandosi scivolare appena e appoggiando la testa contro la sua spalla.
 
“Il tuo profumo. E qualcosa di… dolce. Sembra simile alla cioccolata.”
 
Sapeva bene che non c’era cioccolata nella stanza ma giurò di sentirla. In sé era confortante anche questo.
 
“Una emozione che stai provando ora?”
 
Era tranquilla. Si rese conto solo in quel momento dei progressi che aveva fatto. Aveva smesso di tremare, il suo respiro si era stabilizzato. Era…
 
“…Al sicuro.”
 
Elsa le baciò la tempia.
 
“Mamma era solita calmarli in questo modo quando i miei poteri andavano fuori controllo, da piccole. Non lasciandola avvicinare, ha pensato a questo stratagemma. Che ne dici se ci sediamo sul divano un po’? Te la senti?”
 
Effettivamente, il legno del pavimento, seppur attutito dal tappeto enorme su cui posavano, stava iniziando ad essere scomodo. L’idea che la loro mamma usasse questo sistema anche con Elsa, era consolante e triste allo stesso tempo. La consolava perché la faceva sentire più vicino ai suoi genitori, che le mancavano terribilmente. La rattristiva perché avevano dovuto pensare a questo metodo per sua sorella, il che significava che ne aveva avuto bisogno. Se la immaginò sola e triste, rannicchiata in un angolo della sua stanza, senza permettere a nessuno di abbracciarla o di cullarla, per paura di far loro del male. Si sedettero l’una accanto all’altra. Da questa nuova posizione, poté vedere sulla scrivania due tazze. Era certa di averne sentito il profumo! Ma ancora non si spiegava cosa ci facessero lì o quando fossero arrivate. Decise di indagare su questo, piuttosto che chiedere dettagli sull’infanzia della sorella.
 
“Perché c’è della cioccolata?”
 
“Kai l’ha portata quando sei uscita. Ha deciso che era ora per noi di fare una pausa, non sapendo che Olaf l’aveva anticipato. Gli ha detto di averne preparata una tazza anche per lui ma, non sapendo fosse nello studio, ha portato solo le nostre. Così si è precipitato in cucina. Non so proprio cosa ci trovi a farsi passare attraverso bevande bollenti.” Elsa sorrise e finse una faccia esasperata.
 
Al posto di farla ridere, però, si ritrovò a pensare. Si era dimenticata di Olaf. Questo spiegava perché non fosse più nella stanza. Le ricordò anche il motivo per cui era uscita in primo luogo.
 
“Il bottone di Olaf… Non l’ho preso.”
 
Elsa le prese le mani e le strinse.
 
“L’ho portato dentro io, prima o poi si accorgerà che gli manca qualcosa e verrà a prenderselo. Per ora è meglio abbia solo due bottoni e che continui a far pratica solo con quelli.”
 
Elsa sembrava intenzionata a risollevarle il morale. Sorrise, ci provò almeno, ma sentì le lacrime tornare. Girò la testa per nasconderle alla sorella, ma quest’ultima le impedì di farlo, prendendole il viso tra le mani. Elsa la portò a sé, in un abbraccio. Quante volte, in quest’ultimo periodo, aveva espresso il desiderio di trovare il coraggio di sistemare le cose, di aprirsi. Quante volte aveva sperato in un abbraccio confortante. L’orgoglio e la testardaggine, però, avevano avuto sempre la meglio. Invece avrebbe semplicemente dovuto chiedere aiuto, spalancare la porta. Le venne da piangere. Voleva chiedere scusa, voleva spiegarle tutto, ma le lacrime le impedirono di farlo.
 
“Oh Anna…”
 
“E-Elsa, io…”
 
“Shh. Va tutto bene, fiocco di neve. Butta tutto fuori.”
 
Così pianse, come non faceva da mesi. Veri e propri singhiozzi le scossero il corpo. Elsa la strinse forte, bisbigliandole parole rassicuranti all’orecchio. Il senso di colpa, la mancanza di sonno, la paura, la stanchezza, il rimorso… concesse a sé stessa qualche minuto per sentire tutto, con la consapevolezza però di essere al sicuro. Quando riuscì a calmarsi, per la seconda volta quel pomeriggio, non si sentì meglio. Si sentì esausta.
 
“Vuoi un po’ di cioccolata?” chiese Elsa.
 
Ad essere sincera, non era molto in vena e questo la diceva lunga sul suo stato attuale. Fece cenno di no con la testa. Così Elsa, attenta come sempre al suo stato emotivo, la fece stendere, allungare i piedi ed appoggiare la testa sulle sue gambe. Iniziò ad accarezzarle i capelli.
 
“Mi dispiace.” Borbottò allora Anna, sentendo che ormai non aveva più scuse per evitare il discorso.
 
“Non hai nulla di cui dispiacerti.”
 
“Avrei dovuto parlarvene, aprirmi con voi. Ho sbagliato.”
 
“Avremmo tutto il tempo per parlare più tardi. Adesso sei esausta. Non pensavo le cose fossero così brutte e, per questo, ti chiedo scusa anch’io. Forse avrei dovuto insistere un po’ di più con la tua testa dura.”
 
Cosa? Elsa si sentiva in colpa per questo? Non poteva essere. Era lei il problema, era lei la testarda.
 
“No, Elsa. Tu sei una sorella magnifica. Non hai sbagliato nulla. Io però…”
 
“Anna. Sicuramente dovremmo parlarne. Avresti dovuto venire da me molto prima. Però non ti lascerò più affrontare la cosa da sola. Sei mia sorella. E ti voglio bene. Questa cosa non cambierà mai.”
 
Uno sbadiglio bloccò qualsiasi risposta volesse dare. Sentiva gli occhi pesanti.
 
“Adesso dormi un po’, ne hai bisogno.”
 
“Puoi cantare per me?”
 
“Va bene. C’è un fiume, porta in sé…
 
Stanca com’era, non sentì più delle prime tre parole. Si addormentò praticamente subito.
 

 
Qualche tempo dopo, le sembrò di sentire una porta aprirsi. Dei passi pesanti si stavano avvicinando. Li avrebbe riconosciuti tra mille. Kristoff era tornato. Lui e Elsa parlarono ma non sentì nulla, ancora mezza addormentata com’era. Era ancora stesa nella stessa posizione nella quale si era addormentata. La mano di Kristoff poi le accarezzò la guancia. Girò la testa in direzione del tocco e aprì appena gli occhi.
 
“Kristoff… Sei qui…”
 
Era proprio lui.
 
“Torna a dormire, amore mio. Ti porto a letto.”
 
Sentì le sue braccia muscolose prenderla in braccio e Elsa darle un bacio sulla guancia. Era molto fortunata ad avere loro vicino. Si ripromise che questa volta “il giorno dopo” sarebbe giunto davvero. Era il primo vero passo per stare meglio. La sua famiglia era lì per lei, come lei sarebbe stata lì per loro.
 
 
“Cambia tutto ma
Qualche cosa non cambierà
Vola il tempo e
Il futuro è un'incognita
Il passato sai è passato ormai
Resta un ricordo in noi
Cambia tutto ma...
Il mio posto è accanto a voi.”
 
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Note d’autore: Grazie a tutti per la lettura! Per ora la storia è formata da un solo capitolo. Il secondo è ancora in fase di elaborazione.
L’immagine è opera di Angela Tacchetto, se volete vedere altre sue immagini, la trovate su instagram: angela.tacchetto | Angel.
 
Fabi
 




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