NOME
IN CODICE: HATI
Capitolo 1
La mattina era
serena e senza
vento, l'ideale per volare. L’aria conservava il freddo della
notte, ma portava già con sé un lieve profumo di fieno tagliato e
fiori selvatici. Ancora basso sull’orizzonte, il sole disegnava
ombre lunghe sui campi.
C’era un gran
silenzio, rotto
solo da un cinguettare lontano di uccelli e da un tuonare cupo, vago,
che rimbombava all’orizzonte come una minaccia di temporale. In
quella direzione una caligine sinistra sporcava il cielo terso.
Passò lento uno
stormo di oche
grigie, disposte a punta di freccia.
Il tenente von
Knobelsdorff
strinse appena gli occhi nella luce intensa dei primi raggi, si
chiuse intorno al collo il pesante cappotto di pelliccia, poi si girò
verso gli aerei della Jasta[1], otto Albatros D-III già allineati e
pronti per la prima missione della giornata. Tutt'intorno ai
velivoli, i meccanici erano impegnati negli ultimi controlli.
Spostò lo
sguardo verso la
foschia che appesantiva l’orizzonte e un lieve sorriso gli stirò
le labbra.
Una voce alle
sue spalle lo
distrasse: “Che ne dici, Max?”
Egli si girò:
stava
sopraggiungendo un suo parigrado della fanteria, a sua volta vestito
di un pesante pastrano. “Oggi si farà buona caccia,” si limitò
a rispondergli. Tornò a fissare l’orizzonte.
L’altro gli si
affiancò, emise
un sospiro e disse: “Ci dev’essere un attacco in corso.”
“Già.”
“Pensa, essere
in trincea
adesso...”
Von
Knobelsdorff rivolse al
collega uno sguardo critico. Dopo un po’ disse: “A meno di non
fare gli scritturali in qualche caserma delle retrovie, cosa che
francamente troverei piuttosto umiliante, in guerra non ci sono posti
sicuri.”
“Parli
così perché non hai mai preso parte a un assalto alla baionetta.”
L’altro alzò le
spalle. “Gli
ulani non se la passano poi tanto meglio dei fanti: durante una
carica sei esposto al piombo nemico e se cadi finisci dilaniato dagli
zoccoli dei cavalli. Nemmeno come aviatori siamo al sicuro: quando
siamo colpiti, bruciamo vivi o ci schiantiamo al suolo.” Fece una
pausa, poi in tono pacato soggiunse: “Un soldato non deve
preoccuparsi della morte, perché essa lo accompagna costantemente.
L’unica cosa cui deve pensare è servire la Patria.”
A quel punto li
raggiunsero altri
ufficiali, di armi e gradi diversi, tutti accomunati
dall'abbigliamento pesante. Uno di essi, imbacuccato in un'enorme
pelliccia fulva, indossava già la cuffia da pilota, con gli
occhialoni rialzati sulla fronte.
“Sarà pieno di
inglesi,”
considerò il nuovo arrivato, scrutando pensoso il cielo.
“Faremo buona
caccia,” ripeté
von Knobelsdorff. Detto questo raggiunse la linea degli aerei. Si
fermò accanto a un velivolo la cui fiancata era ornata dall'immagine
di un'aquila che calava sulla preda con gli artigli protesi.
Fissò
l'Albatros quasi con
affetto, quindi si guardò intorno scrutando le varie figure in
grigioverde che vi si affaccendavano intorno. A un certo punto
chiamò: “Kramer!”
Un
sottufficiale si mise
sull'attenti. “Signore?”
“Kramer, ha
niente da dirmi?”
“Nossignore, i
ragazzi hanno
revisionato il motore stanotte, le armi le ho pulite io
personalmente.”
Von
Knobelsdorff annuì. “Molto
bene. Lo sa che mi fido solo di lei.”
“Grazie,
signore.”
“Si prepari per
la messa in
moto.”
“Sissignore.”
Il tenente salì
sulla semiala
inferiore e da lì scivolò nel cockpit. Pose i piedi sulla
pedaliera, impugnò la cloche e azionò i contatti elettrici, quindi
si sporse da una parte e gridò: “Contatto!”
Il
sottufficiale, che si era
portato davanti al muso del velivolo, diede un colpo all'elica e si
fece indietro. Il motore tossì due o tre volte, quindi prese a
girare regolarmente, mentre il suo rumore si faceva man mano più
pieno e corposo.
Von
Knobelsdorff eseguì i
controlli dei comandi, quindi alzò il pollice per segnalare ai
meccanici di togliere i tacchi alle ruote. Con un sussulto lieve,
l'aereo cominciò a rullare sull'erba, prendendo man mano velocità.
Il tenente
scambiò un cenno del
capo con gli altri piloti, quindi si portò verso la pista e si fermò
in posizione di decollo. Aumentò i giri del motore, fece gli ultimi
controlli. La barra vibrava fra le sue dita, segno che l’involucro
di legno e tela in cui sedeva stava per trasformarsi in una
meravigliosa macchina volante.
Diede tutto
motore, l’aereo si
lanciò in avanti. Le lancette degli strumenti presero vita, la
cloche cominciò a opporre resistenza alla mano. L’Albatros
sobbalzò su una cunetta, rullò ancora per qualche metro, poi
s’involò. Di colpo ogni vibrazione venne meno, mentre la terra si
allontanava sempre più velocemente.
Von
Knobelsdorff emise un sospiro
di puro piacere. Piegò appena la testa all’indietro, lasciò che
il vento lo investisse in pieno, infuriandogli sul volto, minacciando
di strappargli dal collo la sciarpa di seta.
Ridusse i giri,
livellò la
quota. Si guardò intorno e localizzò immediatamente gli Albatros
della Jasta. Sorrise fra sé e sé al pensiero di quanto all'inizio
gli riuscisse difficile individuare altri aerei in volo. La prima
volta aveva dovuto scandagliare il cielo per lunghi minuti e alla
fine, con fatica, aveva scorto una specie di puntino nero che
appariva e scompariva su uno sfondo di foresta.
Sapeva di
colleghi piloti che non
avevano imparato con altrettanta prontezza a riconoscere gli aerei in
volo e non avevano fatto ritorno dalla loro prima missione di
combattimento.
Si ripromise di
mantenere sempre
desta l'attenzione: erano necessari otto abbattimenti confermati per
ottenere il Pour le Mérite[2] e non aveva nessuna intenzione di
farsi ammazzare prima.
Man mano che la
linea del fronte
si avvicinava, la quiete del mattino primaverile lasciava il posto a
un'atmosfera cupa, sinistra, greve di un'oscura minaccia. Quella che
da lungi sembrava solo una vaga caligine prendeva la forma di lente
colonne di fumo, che si levavano da profondi crateri. I campi e le
macchie di alberi lasciarono il posto a distese brulle, cosparse di
tronchi divelti.
Rami
scheletriti si tendevano
verso il cielo come artigli. Correvano sul terreno, seguendone le
ondulazioni, lunghi sbarramenti di filo spinato, anneriti da fuoco e
intemperie.
Von
Knobelsdorff inclinò appena
il velivolo, insinuando lo sguardo nel percorso di una trincea. Delle
formiche in grigioverde si agitarono al suo passaggio, qualcuno lo
salutò con ampi gesti delle braccia. Comparve addirittura una
bandiera.
Egli fece
oscillare le ali in
risposta, e quasi gli parve che dal basso provenisse una veemente
acclamazione.
Sorrise fra sé
e sé, poi fece
girare lo sguardo su tutta la volta celeste. I fanti delle trincee
sapevano sempre esattamente dove si trovava il nemico, ma un aviatore
poteva vederselo piombare addosso da ogni lato: da sopra, da sotto,
dai fianchi, da dietro...
Salì appena di
quota e si voltò
verso il sole, sollevando una mano per schermarsi gli occhi dai
raggi.
Colse
immediatamente un movimento
nel cielo terso.
D'istinto fece
segno ai suoi,
quindi cabrò e diede motore. Tolse la sicura alle mitragliatrici.
All'orizzonte,
quelli che
sembravano puntini scuri si animarono a loro volta e si dispersero in
una formazione allargata. Anch'essi salirono di quota.
“Inglesi,”
disse von
Knobelsdorff fra sé e sé.
Gli aerei si
avvicinarono,
rivelandosi due Sopwith Pup e un Triplano. Il tedesco salì ancora di
quota, subito imitato da uno dei due Pup. Virò per mantenere il
contatto visivo, l'altro virò a sua volta. Von Knobelsdorff strinse
ancora la virata, costringendo l'Albatros a mettersi quasi a
coltello, poi si raddrizzò e guizzò via con un mezzo looping. Nella
parabola discendente della figura fece partire la prima raffica, che
strappò pezzi di tela dalla semiala dell'inglese.
Questi scartò
bruscamente da una
parte, poi cabrò per tentare di sottrarsi ai proiettili, ma ormai
von Knobelsdorff gli era stabilmente in coda. Sparò altre due brevi
raffiche e l'inglese cominciò a lasciarsi dietro una scia di fumo
nero, ma in quel momento qualcosa gli colpì una semiala, creando uno
strappo nella tela che la ricopriva.
D'istinto il
tedesco derapò e
poi virò, solo per rendersi conto che aveva in coda il Sopwith
Triplano. Ringhiò un'imprecazione mentre una nuova raffica gli
faceva saltare un tirante. Si girò, aveva l'inglese ancora in coda,
capì che stava per sparare di nuovo.
Tirò la barra
tutta indietro,
l'Albatros cabrò bruscamente, andò in stallo e prese a precipitare
come un sasso, cosa che gli permise di sottrarsi alla raffica letale.
A quel punto,
von Knobelsdorff
spinse la barra tutta in avanti, lavorando con la pedaliera per
evitare che l'aereo entrasse in vite rovescia. Nonostante il ruggito
del motore, sentiva le strutture dell'Albatros vibrare e
scricchiolare. Il tirante reciso sbatacchiava qua e là come un
serpente decapitato.
In alto, sempre
più lontano,
l'inglese stava probabilmente cercando di capire se stesse
precipitando oppure se la sua fosse solo una manovra evasiva.
Il tedesco
rinsaldò la presa sui
comandi, arrestò la caduta, di nuovo diede motore e guizzò verso
l'alto, sparando dal basso contro l'avversario.
Questi incassò
la prima raffica,
sottrasse bersaglio, picchiò per prendere velocità, ma a quel punto
von Knobelsdorff riuscì a fare un mezzo looping, poi si raddrizzò
con un mezzo tonneau e si trovò esattamente di fronte all'aereo
nemico. Sul muso del Sopwith scintillavano i lampi arancioni degli
spari.
Il tedesco
strinse i denti e si
mantenne caparbiamente sulla traiettoria. Azionò a sua volta le
mitragliatrici e vide brandelli di rivestimento saltare dalle ali
dell'avversario.
Poi il Sopwith
si inclinò da una
parte, scivolò d'ala e semplicemente puntò verso il basso. Von
Knobelsdorff, che rimase a seguirlo con lo sguardo fino a che non lo
vide schiantarsi al suolo, e a quel punto poté fare solo
supposizioni: forse aveva colpito il pilota, forse aveva danneggiato
qualche comando e l'aereo non rispondeva più. Come diceva un certo
von Richthofen, un altro che come lui aveva abbandonato il cavallo
per l'aeroplano, compiere voli di guerra non era esattamente
un'assicurazione sulla vita.
Distolse lo
sguardo dalla
carcassa distrutta, virò e raggiunse i suoi.
Notò subito che
mancavano due
Albatros all'appello, quello del collega di fanteria con cui aveva
parlato prima del decollo, di un verde quasi nero con due fasce
bianche sulla fusoliera, e quello del capitano von Wassenberg,
l'unico della Jasta senza alcuna personalizzazione. Valutò fra sé e
sé che anche quella era una personalizzazione, in fin dei conti.
Gli dispiacque
per i camerati. In
particolare per il secondo, al quale mancava un solo aereo per
diventare Asso e ricevere il Pour le Mérite.
Fece ad ogni
buon conto un largo
giro scrutando il terreno, qualche volta capitava che un pilota
riuscisse a compiere un atterraggio di fortuna e ad abbandonare il
velivolo distrutto, ma scorse solo colonne di fumo. Uno spezzone
d'ala con quel che rimaneva di una croce nera parve salutarlo
mestamente.
Gli rivolse in
risposta un saluto
militare, quindi virò e si unì agli altri.
Raggiunsero
nuovamente le trincee
tedesche. Come poco prima, i soldati rivolsero loro un veemente
saluto, agitando braccia e bandiere.
Von
Knobelsdorff fece oscillare
le ali in risposta, ma a quel punto percepì nei comandi una
vibrazione, come quella che una porta sbattuta con violenza comunica
al pavimento.
Fece girare lo
sguardo
tutt'intorno alla ricerca della causa e quando vide di cosa si
trattava sentì un brivido percorrergli la schiena: dalla parte del
tirante reciso, uno dei montanti era fessurato per tutta la sua
lunghezza. Sarebbe bastata una manovra un po' più brusca del normale
e avrebbe ceduto completamente.
L'ufficiale si
chiese cosa
sarebbe successo. Niente di buono, probabilmente. Sarebbero saltati
altri tiranti, la semiala inferiore e quella superiore avrebbero
cominciato a separarsi e tutto si sarebbe concluso con un ignominioso
atterraggio fuori campo. Sempre che fosse riuscito ad atterrare
indenne, ovviamente.
Si guardò
intorno, calcolò
quanto mancava al campo. Provò ad accennare una lieve virata e nella
fessura del montante comparvero schegge di luce. Riportò l'Albatros
in assetto.
Diede motore,
ma l'aereo cominciò
a vibrare in un modo che lo convinse senz'altro a spostare nuovamente
indietro la manetta del gas.
A quel punto,
von Knobelsdorff si
chiese cosa sarebbe stato meglio fare. Posto che in aria non è mai
rimasto nessuno, ragionò fra sé e sé, la cosa più importante era
ritornare a terra in un modo che possibilmente non fosse troppo
traumatico, né per lui, né per il suo Albatros D-III.
“Ce la faremo,”
assicurò
all'aereo.
Si sporse dalla
carlinga, cercò
di indovinare se si fosse alzato il vento, e nel caso in che
direzione spirasse.
Successivamente
scrutò i
dintorni, calcolando che doveva essere a circa un chilometro dalla
pista di atterraggio.
Portò il motore
al minimo e,
mantenendo l'aereo in assetto, prese a scendere dolcemente di quota.
Ogni tanto correggeva appena la direzione con la pedaliera, ma per il
resto lasciava essenzialmente che l'Albatros facesse come voleva,
secondo l'adagio per cui un aereo volerebbe benissimo da solo, se non
ci fosse il pilota a disturbarlo continuamente.
Una seconda
vibrazione lo mise in
allerta. Si girò verso il montante: sembrava che qualcuno l'avesse
strizzato torcendolo come uno strofinaccio. La fessura si era
allargata e aveva un andamento spiraleggiante lungo il legno. Vide
qualche scheggia volare via.
Merda, pensò.
Un altro
tirante saltò come la
corda di un violino.
Il campo era
ormai a meno di
settecento metri. Vedeva già il casale che si trovava a lato della
pista, il familiare filare di alberi che delimitava un recinto per il
bestiame, il brillio dello stagno dove si andava a pescare o a
nuotare dopo l'ultima missione della giornata.
Tolse tutto il
motore, si
arrischiò a dare una tacca di flap. In un silenzio surreale, rotto
solo dal sibilo del vento, l'aereo parve per un attimo galleggiare a
mezz'aria come se fosse senza peso, poi ricominciò a scendere
lentamente. Von Knobelsdorff si sporse di lato per individuare il
segnale che indicava la testata pista. Si augurò di non aver
sbagliato i propri calcoli, perché non ci sarebbe stato un secondo
tentativo.
Ormai mancavano
trecento metri,
era così basso che quasi distingueva le foglie sulla cima degli
alberi. Il suo strano avvicinamento aveva ovviamente destato la
preoccupazione del personale di terra, e il campo era animato da un
insolito fermento.
Vide passare,
trainata da un paio
di cavalli, la cisterna d'acqua dell'antincendio.
“Alla faccia
della fiducia,”
ringhiò tra i denti.
A quel punto,
la struttura
dell'ala si aprì come una scarpa vecchia. Il montante danneggiato
cedette definitivamente, i tiranti saltarono l'uno dopo l'altro e la
semiala inferiore si torse come se una mano enorme la stesse tirando
verso il basso. Non più coperto dal motore, lo schianto del legno
che si spaccava risuonò sinistro.
L'aereo si
inclinò bruscamente,
perse ancora quota, tanto che von Knobelsdorff riuscì a distinguere
chiaramente i fiori sullo scialle di una contadina che al suo
passaggio corse al riparo.
L'ufficiale
afferrò i comandi,
tentò di riportare l'Albatros in assetto, ma già la pista si
avvicinava con vertiginosa velocità.
Vide una torma
di meccanici e
soldati correre nella sua direzione. Trainata al galoppo, la cisterna
arrancava beccheggiando.
Toccò terra una
prima volta,
capitombolò lasciandosi dietro pezzi di centine e brandelli di
rivestimento alare, rimbalzò e ricadde, poi procedette strisciando
su quel che restava della semiala danneggiata e su una ruota del
carrello.
Esaurì la sua
inerzia alcune
decine di metri dopo. Ci fu un secondo di immobilità sospesa, poi il
tenente si riscosse e subito andò alla ricerca del coltello che
teneva infilato nello stivale. Armeggiò con quello sulle cinture di
sicurezza, mentre la benzina sgocciolava sul motore rovente liberando
vapori sempre più intensi.
Raddoppiò gli
sforzi. Portava
con sé un pugnale proprio perché se l'aereo avesse preso fuoco si
sarebbe buttato per non bruciare vivo e non aveva la minima
intenzione di morire in quel modo a terra, sulla pista della sua
base.
Le cinture
cedettero, sul motore
cominciarono a danzare le prime lingue di fuoco, visibili solo come
un lieve tremolio dell'aria.
Von
Knobelsdorff si arrampicò
fuori dal cockpit, vide delle uniformi avvicinarsi, si sentì
afferrare per le braccia.
Le fiamme
divennero più vivide,
presero colore. Si udirono il crepitio del legno secco che cominciava
ad ardere e lo sfrigolio della vernice.
“Sto bene,”
mormorò
frastornato il tenente, faticando per alzarsi in piedi. “Sto bene.”
Qualcuno lo trascinava.
Accorse Kramer,
che si fece
passare il suo braccio intorno alle spalle e lo sollevò quasi di
peso. “Sto bene,” gli ripeté l'ufficiale.
“Sissignore,”
si limitò a
rispondere il meccanico. “Ora però ce ne andiamo di qui, signore.”
Il tenente
cercò di voltarsi
indietro. “L'aereo...”
“Venga,
signore.”
Von
Knobelsdorff si lasciò
condurre via.
Si ritrovò
seduto al tavolo
della mensa, qualcuno gli mise un bicchiere in mano. Da fuori
giungeva il rombo degli altri aerei della Jasta che atterravano uno
dopo l'altro.
Egli si sfilò
la cuffia e la
posò da una parte, poi portò meccanicamente il bicchiere alle
labbra, bevve un sorso e tossì. “Che cos'è?” chiese.
Entrò nel suo
campo visivo il
capitano medico. “Strana domanda da parte sua, tenente. Non
riconosce lo Schnaps?”
“Pensavo fosse
una medicina.”
“Infatti. Non
esiste medicina
migliore dello Schnaps, in certi casi,” replicò il dottore, quindi
si chinò su di lui e soggiunse: “Mi faccia dare un'occhiata a quel
taglio.”
“Eh? Che
taglio?”
Von
Knobelsdorff sollevò una
mano, poi si rese conto che indossava ancora il guanto da volo. Se lo
sfilò tenendolo fermo tra le ginocchia, poi si passò cauto le dita
sul volto. Le ritrasse sporche di sangue.
Alzò lo sguardo
sull'ufficiale
medico, che per tutta risposta ripeté: “Diamo un'occhiata,
d'accordo?”
“Va bene,”
assentì il
tenente.
In quel momento
arrivarono a
precipizio due colleghi piloti. “Dov'è von Knobelsdorff?” chiese
uno di essi concitato.
Il giovane alzò
una mano. “Qui.”
Behringer e
Hoffmeyer si
spostarono di fronte a lui. “Stai bene?” gli chiese il primo,
fissandolo come se stesse vedendo un fantasma.
Von Kobelsdorff
alzò le spalle.
“Benissimo.”
“Ma stai
sanguinando.”
“Un taglietto.
Posso volare.”
A quel punto
intervenne
Hoffmeyer: “E con cosa vuoi volare? Il tuo aereo ormai è cenere.”
Von
Knobelsdorff fece una breve
risata e rispose: “Allora vorrà dire che prenderò il tuo,
Herbert, così almeno quelle mitragliatrici abbatteranno finalmente
qualcosa.”
L'altro si
finse offeso. “Ma
senti questo,” protestò mettendosi i pugni sui fianchi, “non è
nemmeno capace di portare a terra come si deve il suo aereo e vuole
quello degli altri.” Scosse la testa. “Non se ne parla, Max. Poi
me lo rovini.”
“Almeno
proverebbe l'ebbrezza
del combattimento.”
A quel punto
intervenne il
capitano medico, che per tutta la conversazione aveva continuato a
esaminare il volto del giovane ufficiale. “Venga in infermeria,”
gli disse, “sarà necessario applicare qualche punto di sutura. Se
la sente di camminare da solo?”
“Anche sulle
mani, se vuole.”
“Mi basta che
riesca a stare
sulle sue gambe senza svenire. Non sarebbe il primo che fa lo
spavaldo finché ha il deretano su una sedia e poi crolla come un
abete tagliato appena si alza in piedi.”
“Suvvia, signor
capitano
medico, non è che un piccolo taglio.” Von Knobelsdorff si guardò
intorno alla ricerca del collega che proveniva dalla fanteria,
ricordandosi solo all'ultimo momento che l'aveva visto cadere poco
prima. Di nuovo alzò le spalle e soggiunse: “Se il povero Scheidel
fosse ancora fra noi, le potrebbe confermare che si tratta di ben
poca cosa, rispetto a quello che potrebbe accadere in trincea.”
Fece una breve pausa, quindi rivolto ai colleghi chiese: “Vogliamo
ricordare lui e von Wassenberg come si conviene, questa sera? Ho
ancora qualche bottiglia di vino del Reno.”
Gli altri
assentirono.
Una volta che
il tenente si fu
allontanato in compagnia del capitano medico, Hoffmeyer disse: “Da
non crederci.”
L'altro scosse
la testa.
“Atterrato mentre l'aereo gli si stava sfasciando sotto.”
“Per me non si
è neanche reso
conto del rischio che ha corso.”
Behringer si
voltò nella
direzione in cui il giovane collega era scomparso e disse: “Io
invece credo che l'abbia capito benissimo. Hai visto come faceva il
galletto?”
“Fa sempre
così.”
L'altro scosse
la testa. “Sai
quanto sono euforici gli uomini, in trincea, quando finisce l'assalto
e realizzano di essere ancora vivi? Tra un po' gli passa e si sentirà
più esausto che se avesse fatto dieci giorni consecutivi di
esercitazioni sul campo.”
“No, scommetto
che appena il
medico lo molla andrà a rompere le scatole al Vecchio per farsi
assegnare un altro aereo.”
Così parlando,
i due si
spostarono all'esterno. Le fiamme ormai erano state estinte e dalla
carcassa annerita dell'Albatros si levava solo uno stentato filo di
fumo. Essi fissarono pensosi il relitto. “Oggi qua, domani
chissà...” recitò Behringer.
“Parli
dell'aereo?”
“Parlo di noi.
Von Wassenberg
stava per diventare un Asso, e guarda che fine ha fatto.”
“È brutto
quando ti capita a
sette abbattimenti. Quando ne hai uno o due magari te ne fai anche
una ragione, ma così, a sette? Scommetto che se lo sentiva già al
collo, il Pour le Mérite.”
“Non si può mai
essere sicuri
di niente.”
“Stasera
berremo alla salute
sua e di Scheidel, che possano trovare la via del Walhalla e da lassù
assistere alle nostre vittorie.”
L’altro stava
per rispondere
quando individuò alcune persone che passeggiavano lente ai margini
del campo, accompagnate dal comandante della base in persona. “Che
ci fa il Vecchio con dei civili?” chiese.
Hoffmeyer
osservò a sua volta il
gruppetto, quindi ipotizzò: “Saranno i soliti mangiarane frignoni
che vengono a protestare perché il rumore degli aerei spaventa il
bestiame.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Dovrebbero sentire
un po’ di cannoni sparare, vedrai come comincerebbero ad apprezzare
un innocente Mercedes D IIIa.”
Behringer
aggrottò le
sopracciglia, quindi rispose: “Per me non sono francesi, e non sono
nemmeno contadini o fattori.”
I nuovi
arrivati, fra cui c’era
anche una donna all’apparenza giovane, vestivano dignitosi abiti da
città di colore scuro, decisamente inusuali in quella zona di
campagna.
Uno di essi
stava parlando con il
maggiore von Stade. L’ufficiale, le mani allacciate dietro la
schiena, annuiva di tanto in tanto sobriamente.
A un certo
punto volse lo sguardo
verso il campo e parve alla ricerca di qualcosa. Subito dopo tornò a
dedicare la sua attenzione all’uomo in stiffelius che gli camminava
accanto. Annuì altre due o tre volte, cosa che suscitò nell’altro
un analogo movimento, poi tutto il gruppo scomparve dietro la baracca
delle segnalazioni.
I due piloti si
scambiarono uno
sguardo, poi Behringer chiese: “Come ti è sembrata la ragazza?”
“Ragazza?”
chiese Hoffmeyer.
“Quella con la
sottana lunga
era una ragazza,” rispose ironico il collega. “Sei stato così
tanto lontano dai civili che non riconosci più le ragazze?”
L’altro rimase
in silenzio per
un po’, mentre il suo sguardo correva alla baracca dietro cui il
gruppetto era scomparso. “Sai che non ci ho fatto caso?” ammise
alla fine. “Se dovessi descriverla, o se dovessi descrivere uno
qualsiasi di quei tizi, non ne sarei in grado.”
Behringer
guardò a sua volta in
quella direzione, poi concluse: “Nemmeno io.” Infine, dopo una
pausa: “È strano, di solito sono molto fisionomista.”
§
Seduto alla
scrivania della
stanza che gli fungeva da ufficio, il maggiore von Stade scorse per
l'ennesima volta il foglio che il misterioso gruppetto gli aveva
lasciato. Si trattava di una carta sottilissima, quasi impalpabile,
coperta di una grafia così minuta che per leggerla ci voleva la
lente di ingrandimento.
Aggrottò le
sopracciglia
cercando nonostante tutto di distinguere qualche parola, quindi si
voltò verso il camino. Era lì dentro che il foglio sarebbe dovuto
andare a finire, una volta letto e imparato a memoria. I signori
erano stati molto chiari in proposito.
Di nuovo guardò
il leggerissimo
messaggio. Era più lieve di un velo, eppure robusto. Uno di quegli
uomini lo aveva estratto arrotolato da un cilindro di metallo che non
era più grande di un ditale, e poi l'aveva dispiegato sul sottomano
della scrivania, coprendolo quasi completamente.
Vi erano
rappresentati una mappa
muta, dati e disposizioni.
Sovrapposta a
una normale mappa
militare, la misteriosa cartina si era rivelata quella di una zona
parecchi chilometri dietro le linee francesi. Con un tenue tratto
rosso vi era segnata quella che avrebbe potuto fungere da pista
d'atterraggio per un aereo, su un pascolo ai margini di una foresta.
Era stata la
giovane donna,
secondo quanto gli avevano riferito, a identificare quel posto. Si
era travestita da infermiera francese, aveva trovato un impiego
presso un ospedale da campo e vi era rimasta per settimane,
raccogliendo ogni genere di informazioni sulla zona.
Con un sospiro,
von Stade rivolse
lo sguardo alla finestra. Sullo spiazzo davanti agli hangar i
meccanici si stavano occupando degli aerei. Ne vide uno – dalla
testa color stoppa doveva trattarsi di Piefke – arrampicato su
un'ala, che rammendava con impegno. Altri stavano estraendo un
motore, forse per revisionarlo. Ne individuò anche un paio si erano
rintanati in un angolino nascosto a fumare.
E poi vide von
Knobelsdorff –
inconfondibile anche lui – che parlava con un sottufficiale. Poteva
scommettere che il giovanotto stesse chiedendo al capo-meccanico di
trovargli un nuovo aereo. L'uomo scuoteva la testa e allargava le
braccia in un gesto di sconsolato diniego.
Il maggiore
sorrise fra sé e sé.
Tipico di von Knobelsdorff andare dritto all'obiettivo ignorando
qualsiasi altra cosa: voleva un nuovo aereo e dove andava a cercarlo?
Nell’hangar. Fogli d’ordini, disposizioni e catena degli
approvvigionamenti non erano questioni che suscitassero il suo
interesse: lui voleva volare, possibilmente abbattendo nemici, e
basta.
Scosse la testa
con una sorta di
paterna indulgenza. Poteva giurare che il capitano medico gli avesse
ordinato di stare tranquillo almeno fino al giorno successivo, ma
riuscire a tenere tranquillo l’ardimentoso giovanotto era
un’impresa a dir poco impossibile.
Abbassò lo
sguardo
sull’impalpabile documento che gli era stato consegnato, quindi lo
volse nuovamente verso la finestra. Infine chiamò: “Baumann!”
Si aprì la
porta e la testa di
uno scritturale fece capolino. “Signor maggiore?”
“Baumann, mi
mandi a chiamare
il tenente von Knobelsdorff.”
“Sissignore.”
Il giovanotto
comparve poco dopo.
Si mise sull’attenti e salutò battendo i tacchi, poi rimase a
fissarlo con aspettativa.
“Come sta,
tenente?” gli
chiese il maggiore, occhieggiando il bendaggio che gli copriva la
fronte.
“Benissimo,
signore.”
“Non sente
dolore?” s’informò
von Stade dubbioso.
“Per nulla,
signore. Sarei
pronto a decollare anche adesso, se solo ci fosse un aereo a
disposizione.”
Il maggiore
annuì, quindi gli
disse: “Decollerà quanto prima, tenente, ma non per combattere
contro i nemici della Germania.” Fece una pausa, quindi chiarì:
“Non direttamente, almeno.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le
sopracciglia. “Che significa?” non poté fare a meno di chiedere.
“Vuole mettermi a fare i voli di collegamento? O magari a buttare
le bombe sulle trincee?”
“Tenente…”
tentò di
interloquire von Stade, ma subito l’altro riprese: “È per
l’aereo che ho distrutto? Ma non si poteva salvare, sono già stato
fortunato a portarlo a terra in quel modo.”
“Tenente…”
“Non è per
stare dietro una
scrivania che ho fatto richiesta di passare agli aeroplani. Siamo in
guerra, quindi voglio combattere.”
Il maggiore si
ripromise di
mettersi in contatto con il precedente comandante di von
Knobelsdorff, giusto per chiedergli se ci fosse qualche segreto per
tenere a bada il focoso ufficiale. In tono severo disse: “Per prima
cosa, tenente, stia zitto. Non mi pare di averle dato il permesso di
parlare.”
Il giovanotto
gli rivolse uno
sguardo torvo. “Mi scusi, signore,” brontolò.
“La seconda
cosa che le voglio
ricordare è il suo principale dovere di soldato, cioè eseguire gli
ordini, a prescindere dal fatto che i suddetti le risultino graditi.”
Ci fu qualche
secondo di
risentito silenzio, infine von Knobelsdorff rispose: “Sissignore.”
Il maggiore
annuì, quindi
proseguì: “Ora che ci siamo capiti, tenente, si avvicini e mi dica
cosa pensa di questa mappa.” Gli mostrò il foglio che i misteriosi
visitatori gli avevano lasciato.
Il giovanotto
osservò attento,
quindi sollevò su di lui uno sguardo brillante di aspettativa e gli
chiese: “Spionaggio, signore?”
Von Stade
annuì. “Precisamente.”
Von
Knobelsdorff aggrottò appena
le sopracciglia, quindi domandò: “Perché lo fa vedere a me,
signore?” L’espressione era quella del cane che aspetta l’ordine
di lanciarsi dietro la selvaggina.
“Penso che in
realtà l’abbia
già capito,” rispose il maggiore. “Mi è stato richiesto un
pilota abile e coraggioso, per compiere una missione dietro le linee.
Ho pensato a lei.”
“Grazie,
signore!”
“Sarà una
missione molto
pericolosa, tenente.”
Per tutta
risposta, il tenente
chiese: “Quando potrò partire, signore?”
[1] Sta per
Jagdstaffel. Era il
nome delle prime unità di velivoli da caccia tedesche.
[2] Anche detto
“Blauer Max”.
Si tratta di una decorazione creata da Federico il Grande. Fino alla
fine della prima guerra mondiale è stata la massima onorificenza al
valore.
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